La democrazia mondiale a rischio: gli ultimi dati e l’impatto del conflitto israelo-palestinese

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  Laura Rodriguez
  10 November 2023
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Negazione di diritti fondamentali come la libertà di espressione e di partecipazione, a cui vanno aggiunti i frequenti casi di elezioni falsate ed irregolari: questo è lo scenario disegnato dall’ultimo report ufficiale dell’IDEA, l’Istituto Internazionale per la democrazia e l’assistenza elettorale.

La democrazia è in declino, questo ormai è un dato di fatto; circa la metà dei Paesi a livello mondiale ha registrato un netto peggioramento in termini di garanzia di principi democratici, con le analisi del gruppo intergovernativo che hanno riportato il calo consecutivo più lungo dall’inizio delle registrazioni nel 1975. Di fronte al deterioramento dei controlli democratici che dovrebbero essere garantiti, in linea di principio, da elezioni libere e trasparenti, così come dal ruolo svolto dai parlamenti, lo stato di diritto è seriamente in pericolo.

Tale declino, secondo l’IDEA, deve essere valutato tenendo in considerazione i vari avvenimenti che si sono verificati su scala globale negli ultimi due anni: primo fra tutti, il conflitto russo-ucraino scoppiato in seguito all’invasione delle forze armate ordinata da Putin nel 2022, senza però dimenticare anche altre dinamiche che hanno avuto un impatto non indifferente sui cittadini. Tra queste, il cambiamento climatico e l’aumento del costo della vita possono essere senz’altro considerati un importante acceleratore del deterioramento dei valori posti alla base dei regimi democratici.

I numeri emersi si basano sullo studio di oltre 100 diverse variabili, raggruppate in quattro categorie principali: Rappresentanza, Diritti, Stato di Diritto e Partecipazione. Pur rimanendo l’Europa la zona geografica con i risultati più preoccupanti, il report ha anche messo in luce cali significativi in molti governi democratici ormai consolidati come quello del Regno Unito. Su questa scia negativa, Paesi che già rappresentavano porti poco sicuri in termini di garanzie democratiche come la Bielorussia o la Turchia, si sono allontanati ancora di più dal resto dell’Europa, riportando risultati nettamente inferiori rispetto alla media europea nella maggior parte degli indicatori. Sembra comunque esserci qualche buona notizia, che arriva in questo caso dall’Africa, dove sono stati riscontrati tassi sorprendentemente alti di partecipazione politica e livelli di corruzione in diminuzione.

Proprio nell’ultimo mese, purtroppo, la storia ci sta mettendo di fronte ad uno dei casi più eclatanti in termini di violazione di diritti fondamentali, con il conflitto israelo-palestinese che sta monopolizzando il dibattito pubblico tra punti di vista che non sempre coincidono. In questi casi è necessario non commettere l’errore di focalizzarsi troppo sugli attori, quanto più sulle azioni di cui ciascuno di loro si macchia: non sembrano esserci troppi dubbi circa il fatto che ci troviamo di fronte alla commissione di veri e propri crimini internazionali e, in particolare, di fronte a crimini di guerra, perpetrati tanto da una parte quanto dall’altra.

Negli ultimi giorni sembra essere emerso un ulteriore elemento che porterebbe ad accuse rivolte nei confronti di Israele, considerato colpevole di mettere in atto quelle che il diritto internazionale identifica come “punizioni collettive”. Il pericolo emerge dall’annuncio di sospendere forniture essenziali come acqua, elettricità, cibo e carburante nella zona di Gaza, correndo il rischio che oltre due milioni di civili (tra cui migliaia di bambini) si ritrovino a morire di stenti. Emerge quindi l’idea che il popolo palestinese sia colpevole e debba per questo essere punito, un popolo che è uno e che deve condividere lo stesso destino: questo è lo scopo della punizione collettiva, forse uno degli esempi più eclatanti di negazione della democrazia. Anche se le accuse rivolte ad Israele sono senza dubbio aumentate a seguito della recente escalation nei rapporti tra i due Paesi, già nel 2020, il relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi Michael Lynk aveva sollevato la questione delle punizioni collettive. Egli aveva affermato che tali pratiche “comportano gravi violazioni ai danni dei Palestinesi, tra cui il diritto alla vita, la libertà di movimento, la salute, un alloggio adeguato e un livello di vita dignitoso”. Una strategia che, di fatto, ha violato le regole fondamentali di ogni moderno sistema legale. Se, infatti, l’iniziale giustificazione del governo israeliano (premesso che possa mai esistere una giustificazione quando si parla di violazione di diritti umani) era quella di contenere Hamas, il risultato finale non è stato però quello di garantire la sicurezza minacciata dal gruppo terroristico di ispirazione islamista, quanto più la distruzione dell’economia di Gaza.

Risale al 2018 la tanto discussa approvazione del Parlamento israeliano di una “legge della nazione”, che sanciva nei fatti la transizione di Israele da “stato ebraico e democratico” a “stato ebraico”. Una situazione che si è di fatto consolidata dal novembre scorso quando, a seguito della vittoria alle elezioni, Benjamin Netanyahu ha preso il potere, cercando fin da subito di porre sotto il suo controllo anche la magistratura. Così facendo, oggi, quella che è di fatto l’unica democrazia nel Medioriente è messa seriamente a rischio da un regime che è stato in più battute definito come il governo più di destra della storia di Israele. Il pericolo è perciò dietro l’angolo e l’Europa sta iniziando a guardare con sempre maggiore apprensione agli avvenimenti che si stanno susseguendo consapevole che, dopo le dichiarazioni rilasciate da Netanyahu, è difficile pensare che l’esercito israeliano arresterà la propria offensiva.

Lo sguardo va alle ultime democrazie extraeuropee, con l’India del fondamentalista Narendra Modi in prima fila, sulla quale si teme un pericoloso effetto domino; la paura più grande è che, una volta in mano ai despoti asiatici, le potenze del Medio Oriente possano mettere a repentaglio la sopravvivenza dei regimi liberaldemocratici rimasti, i quali si troveranno a dover scendere a compromessi per potersi assicurare le risorse di cui necessitano.

Dal 1967, oltre 2000 case palestinesi sono state distrutte dagli attacchi di Israele con l’obiettivo di punire le famiglie residenti per azioni che alcuni dei loro membri avrebbero commesso, mettendo in atto una violenza totale che ritiene responsabile un intero popolo.

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Laura Rodriguez

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Democrazia Israele diritti fondamentali punizioni collettive