La dj palestinese Sama’ Abdulhadi

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  Alice Stillone
  26 February 2021
  6 minutes, 4 seconds

Sama’ Abdulhadi, nota per essere la prima dj donna palestinese, ha raggiunto il successo per la grinta e l’entusiasmo che contraddistinguono le sue performance musicali e per il fatto di avere esportato la musica techno a Ramallah, facendo parlare della sua terra, forse per la prima volta, non esclusivamente per i conflitti geopolitici che la dilaniano.

Il 27 dicembre 2020 le autorità palestinesi arrestano Sama’ intenta a suonare a Nabi Musa, un sito considerato sacro per l’Islam in quanto luogo di sepoltura del profeta Mosè e che dista mezz’ora di guida da Gerusalemme.

L’arresto, avvenuto mentre la dj era intenta a registrare un dj set da trasmettere in streaming in collaborazione con Beatport, è stato sostenuto con l’accusa di profanazione di sito e simboli religiosi e violazione delle norme sanitarie per la pandemia da Covid-19, nonostante tale evento fosse stato previamente autorizzato dal Ministero del Turismo e delle Antichità Palestinesi.

Lo scalpore della vicenda ha coinvolto tutto il mondo della musica elettronica, attivisti dei diritti umani e l’Unione Europea, la quale aveva finanziato il rilancio dell’area e di quel particolare luogo sacro. Tutto ciò ha portato ad una raccolta firme volta alla scarcerazione della dj che è avvenuta il 4 gennaio 2021, grazie ad un’ordinanza del tribunale dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e su pagamento di una cauzione.

Come la stessa Sama’ ha sostenuto in varie interviste, il semplice fatto che lei fosse una dj donna palestinese è un messaggio con un forte impatto politico e mediatico, un segnale chiaro e preciso: certe barriere possono essere superate se le si guarda da un’altra prospettiva. La capacità di riunire gente suonando nei territori occupati della Cisgiordania, andando oltre le tensioni e la precarietà di certi luoghi, è la più grande delle vittorie per Sama’ e per il mondo che desidera la pace.

Questa donna, la cui carica straordinaria emerge con forza dalle sue parole e dalle sue performances, è la prova vivente che la musica può essere un mezzo attraverso il quale affermare la propria libertà d’espressione oltrepassando le barriere esistenti.

La libertà d’espressione, sancita nell’art.19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e nell’art.10 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo del 1950, è considerata ad oggi un diritto fondamentale e, in quanto tale, necessita di essere garantita a tutti, indistintamente. Pertanto, il fatto che la dj sia stata arrestata per avere registrato dei video mentre suonava in un luogo sacro e poi sia stata rilasciata a seguito delle pressioni da parte degli attivisti dei diritti umani e del mondo della musica elettronica, da un lato ci fa prendere coscienza del fatto che in molte aree del mondo certi diritti non sono sufficientemente conosciuti e riconosciuti. D’altro canto, però, ci suggerisce che la liberta d’espressione è un diritto talmente ampio che garantirlo senza reprimerlo significa riconoscere a ciascuno, come parametro d’espressione, qualsiasi mezzo che gli permetta di rivelarsi per ciò che è.

La storia di Sama’ Abdulhadi merita di essere conosciuta in quanto, proprio perché si inserisce in un contesto geopolitico estremamente instabile, quello israelo-palestinese, trasmette un messaggio talmente “fuori dagli schemi” che riempie gli appassionati di speranza.

Proprio a causa della complessità di tale contesto geopolitico, è bene fare un’introduzione storica, cominciando dalla proclamazione dello stato d’Israele avvenuta nel 1948, a seguito della risoluzione n. 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1947. Tale risoluzione approvava il piano di partizione della Palestina volto alla costituzione di due stati indipendenti, uno ebraico e uno arabo. Il contesto storico era anch’esso peculiare: la Seconda Guerra Mondiale aveva visto il massacro di milioni di ebrei e gran parte della comunità internazionale sentiva il bisogno di dar loro una terra; quei territori della Palestina, ai tempi del mandato britannico oggetto di flussi migratori di popolazioni ebraiche, sembrarono il luogo adatto in cui legittimare la presenza degli ebrei permanentemente.

Dalla ripartizione, però, derivarono diversi problemi ed infatti, a seguito del ritiro delle truppe britanniche, la Lega Araba si oppose fermamente alla presenza degli ebrei nella zona e diede avvio alla lunghissima serie di scontri arabo-israeliani. Questi furono successivamente aggravati a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967, attraverso la quale Israele occupò i territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. A seguito della prima Intifada, che significa letteralmente “scuotimento” ma il cui significato si è espanso indicando oggi “sollevazione” o “rivolta”, i palestinesi nel dicembre del 1987 avviarono un’insurrezione che si caratterizzò per essere una resistenza agli israeliani i quali, oltre ad avere occupato i territori, avevano proceduto sistematicamente al trasferimento di coloni nelle zone occupate.

A seguitò di ciò, nel 1993 il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) conclusero gli Accordi di Oslo, con l’obiettivo di creare l’Autorità Nazionale Palestinese che avrebbe dovuto autogovernare alcune parti dei territori occupati.

Tuttavia, le speranze su questi accordi si rivelarono mal riposte poiché non portarono alla risoluzione del conflitto che, infatti, continua tutt’oggi senza che nessuna delle due parti vada incontro all’altra.

L’occupazione dei territori ha suscitato la reazione della comunità internazionale che, a più riprese, ha definito le azioni di Israele illegittime. Tale illegittimità deriva dal fatto che nei territori occupati, secondo quanto espresso dalla Corte Internazionale di Giustizia, andrebbero applicate le 4 Convenzioni di Ginevra del 1949 che forniscono il quadro del diritto umanitario odierno, cioè il diritto che si applica alle situazioni di conflitto.

La creazione del muro da parte di Israele nei territori occupati e nei pressi della Linea Verde era volto a limitare gli attacchi dei palestinesi verso i cittadini israeliani, ma ebbe l’effetto pratico di aggravare la condizione dei palestinesi. Questo ha suscitato la reazione di molti stati i quali, in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, hanno richiesto alla Corte Internazionale di Giustizia di pronunciarsi a riguardo.

Con un Parere del 2004 la Corte, dopo aver analizzato le precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in particolare la 446 del 1979 che riteneva applicabile la Quarta Convenzione di Ginevra sul trattamento della popolazione civile durante i conflitti armati e l’occupazione straniera (poiché Israele occupa de facto quei territori), ha ritenuto che la costruzione del muro fosse illegittima poiché osta all’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Il diritto all’autodeterminazione dei popoli, sancito all’art.1 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, è ritenuto una norma di diritto internazionale generale ed inderogabile e può essere invocato da popoli che lottano contro un regime coloniale; da popoli che sono soggetti a regimi che praticano il razzismo; o, come nel caso dei palestinesi, da popoli sottoposti ad occupazione straniera.

Pertanto, dall’esposizione della storia di Sama’ accompagnata da una breve analisi del contesto geopolitico di riferimento, potrebbe ravvedersi un parallelismo tra la volontà del popolo palestinese di autodeterminarsi e la necessità di Sama’ Abdulhadi di affermarsi attraverso la sua musica che, non avendo confini, riesce ad oltrepassare le barriere esistenti, anche quei muri che sembrano ostacoli insormontabili.

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Alice Stillone

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