Right to Repair

La nuova direttiva UE contro l'e-waste

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  Matteo Gabutti
  14 maggio 2024
  10 minuti, 32 secondi

Lualaba, provincia meridionale della Repubblica Democratica del Congo. Nel sito di Kamilombe, minatori impolverati sfidano il buio asfissiante e le pareti friabili di cunicoli profondi decine di metri, per portare alla luce pietre dalle peculiari venature turchesi. Appena in superficie, il minerale grezzo viene avvolto in sacchi e consegnato alla cura delle donne per essere lavato. Chine per ore in stagni fangosi, le donne lo setacciano inalando polveri tossiche, particolato e tracce di uranio, per isolare il cobalto, l’oro blu alla base delle batterie agli ioni di litio di cellulari, laptop e veicoli elettrici.

Accra, capitale del Ghana affacciata sul Golfo di Guinea. Nella zona periferica di Agbogbloshie, vacche scheletriche pascolano tra le macerie di una delle più famigerate discariche a cielo aperto di rifiuti elettronici. Fumi cinerei esalano dalla terra avvelenata, dove uomini e bambini bruciano i cavi in plastica di computer, lavatrici e altri elettrodomestici per estrarne il rame.

Strasburgo, capoluogo francese al confine con la Germania. Il 23 aprile 2024, il Parlamento Europeo adotta la direttiva sul cosiddetto “diritto alla riparazione”right to repair –, una nuova via che sta guadagnando slancio per contrastare l’impatto proprio dei rifiuti elettronici.

L’Unione Europea muove dunque un primo passo in un terreno decisivo, ovvero il ciclo vitale dei dispositivi tecnologici su cui si fondano il benessere dei Paesi industrializzati e l’impellente transizione ecologica. Un ciclo che spesso inizia e si conclude nel continente africano, prima vittima con il resto del Sud Globale dei costi della modernizzazione e della globalizzazione.

E-Waste

I rifiuti elettronici, anche conosciuti come e-waste (electronic waste), comprendono tutti i tipi di dispositivi elettrici o elettronici come computer, smartphone ed elettrodomestici che sono stati scartati per non essere riutilizzati. L’e-waste rappresenta il flusso di rifiuti in più rapida crescita al mondo, con stime che prevedono un aumento del 33% entro il 2030 rispetto ai circa 62 milioni di tonnellate cui ammontava nel 2022. Sebbene la Cina costituisse il primo produttore di rifiuti elettronici per distacco e sei Paesi in via di sviluppo figurassero nella top 10 mondiale, in termini relativi sono le economie sviluppate a farla da padrone, con la Norvegia in testa alla classifica con ben 27 kg annuali di e-waste pro capite – un’enormità rispetto ai 2,5 kg della media africana.

Miscela di tossine – come piombo, mercurio, cadmio e ritardanti di fiamma bromurati – e metalli preziosi – tra cui neodimio, indio e il già citato cobalto –, i rifiuti elettronici presentano sia rischi per la salute umana e ambientale, sia opportunità economiche. Nel 2022 il commercio totale di e-waste ammontava a circa 2,75 miliardi di dollari, con Stati Uniti e Corea del Sud come maggiori esportatori, mentre Giappone e Messico primi importatori. Secondo gli emendamenti del 2022 alla Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione – che entreranno in vigore nel 2025 –, tutti i rifiuti elettronici saranno soggetti alla procedura di Consenso informato preventivoPrior Informed Consent. Quest’ultima prevede che uno Stato esportatore notifichi preventivamente qualsiasi Paese in cui i rifiuti elettronici transiteranno o saranno importati.

Ciononostante, un rapporto del 2015 del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) stima che dal 60% al 90% dell’e-waste globale venga gestito in modo informale, e sia dunque commercializzato e smaltito illegalmente con un valore annuo compreso tra 12,5 e 18,8 miliardi di dollari. I rifiuti elettronici pongono quindi un’autentica sfida transnazionale, specialmente perché le spedizioni illecite prendono di mira soprattutto Africa e Asia, dove il loro impatto nocivo è ingigantito da una gestione rudimentale senza linee guida forti e infrastrutture adeguate. Il tristemente noto sito di ‘riciclaggio’ di Agbogbloshie illustra drammaticamente il grave inquinamento di aria, acqua e suolo derivante dalla cattiva gestione dell’e-waste, le cui severe ripercussioni per la salute della popolazione autoctona si accaniscono specialmente contro donne incinte e bambini.

Allo stesso tempo, secondo la Professoressa Alison Stowell, Agbogbloshie rappresenta un “fiorente ecosistema gerarchico di attività imprenditoriale”, dove dagli scarti del Nord Globale la popolazione ghanese ha saputo trarre lavoro e “profitto”. In particolare, il sito avrebbe fornito suolo fertile per mercati di seconda mano e per la riparazione di beni scartati. Per le comunità di Paesi in via di sviluppo i rifiuti elettronici rappresentano dunque anche una potenziale fonte di reddito.

Ciononostante, la natura complessa e in rapida evoluzione dei dispositivi elettronici – e quindi dei loro scarti – mette a dura prova persino le economie industrializzate, e non può che aggravare ulteriormente sfide formidabili come lo smaltimento illecito e informale dei rifiuti nel Sud Globale. In questo senso, il report del 2024 sul monitoraggio dell’e-waste da parte dell’Istituto ONU per la formazione e la ricerca (UNTAR) non è affatto incoraggiante, con una perdita netta associata alle attuali pratiche di gestione dei rifiuti elettronici a livello mondiale stimata a 37 miliardi di dollari.

Right to Repair

Il report dell’UNTAR considera la riparazione e il riutilizzo come opzioni prioritarie per la prevenzione dei rifiuti. In effetti, questi obiettivi sono più adatti per la transizione verso un’economia circolare che scardini l’attuale schema insostenibile di “consumo / produzione di rifiuti / raccolta / riciclaggio”. Pertanto, il report accoglie con favore nuove tendenze che prediligano la riparazione alla sostituzione. Esempi includono proposte legislative in oltre 40 stati federali negli USA e la nuova direttiva dell’Europarlamento – che gli Stati membri dovranno incorporare nella propria legislazione nazionale nei prossimi due anni.

La mossa di Bruxelles si basa sulle stime della Commissione Europea, secondo cui lo smaltimento prematuro di dispositivi elettronici utilizzabili nell’UE ogni anno genererebbe l’equivalente di circa 261 milioni di tonnellate di CO2 per prodotto e 35 milioni di tonnellate di rifiuti, oltre ad utilizzare 30 milioni di tonnellate di risorse. Inoltre, si prevede che le nuove norme porteranno quasi 12 miliardi di euro di risparmi annuali per i consumatori e 4,8 miliardi di euro di crescita e investimenti all’interno dell’Unione nei prossimi quindici anni.

Essenzialmente, la direttiva mira a chiarire gli obblighi dei produttori nel riparare beni elettronici in modo tempestivo ed economicamente vantaggioso, informando e incoraggiando i consumatori a prolungare il ciclo di vita dei prodotti attraverso riparazioni a prezzi accessibili. Inoltre, le norme vietano ai produttori di adottare “clausole contrattuali, tecniche hardware o software che impediscano la riparazione dei beni” con pezzi di ricambio originali e di seconda mano da parte di riparatori indipendenti.

What Now?

Ciononostante, la direttiva è meno dirompente di quanto sperassero gruppi d’interesse come la coalizione Right to Repair Europe. Innanzitutto, la coalizione lamenta una portata ristretta a prodotti acquistati dai consumatori o comunque già coperti da requisiti di riparabilità secondo la legge europea, che va quindi ad escludere beni industriali o scambiati tra aziende. Inoltre, denuncia una serie di opportunità mancate che ridimensionano drasticamente le ambizioni della direttiva, che si limiterebbe a far sì che questo numero limitato di prodotti venga effettivamente riparato, piuttosto che stravolgere il nostro modus vivendi.

In tal senso, un report pubblicato sotto l’egida ONU avverte che “la dimensione e la gravità del futuro problema dell’e-waste dipenderà in ultima istanza dai nostri modelli di produzione e di consumo”, chiedendo una svolta decisiva verso l’economia circolare.

Gli autori sottolineano come i produttori abbiano “la migliore opportunità di progettare un settore dell’elettronica a prova di futuro” per affrontare in modo proattivo la crescente domanda di prodotti elettronici più sostenibili. I produttori consentirebbero inoltre a imprese innovative di trarre profitto “dall’enorme potenziale di riutilizzo di prodotti e componenti”, e assisterebbero la crescita tecnologica dei Paesi in via di sviluppo con prodotti elettronici dal valore funzionale esteso, emancipando il Sud Globale dall’importazione eccessiva di nuovi beni che aggravino l’ardua gestione dei rifiuti elettronici.

Allo stesso tempo, esorta Siddharth Kara – autore del bestseller Rosso cobalto –, in quanto consumatori dovremmo resistere alla compulsione di aggiornare i nostri gadget ogni anno, per ridurre la pressione sull’insanguinata catena di approvvigionamento di cobalto.

Tuttavia, diversi ostacoli impediscono un autentico cambio di marcia. Da un lato, i produttori richiedono garanzie riguardo ai diritti di proprietà intellettuale e alla responsabilità per riparazioni difettose a opera di parti terze. Dall’altro, direttive prese nel Nord Globale rischiano di trascurare la voce del resto del mondo, a cominciare dalle famiglie che dall’e-waste traggono il proprio sostentamento, come i lavoratori di Agbogbloshie. Riguardo a quest’ultima, preoccupate dalla cattiva reputazione della discarica, nel 2021 le autorità locali la hanno spianata, con il risultato di erodere i guadagni dei lavoratori e costringerli a trasferire la propria attività in casa, aggravando la vulnerabilità delle loro famiglie.

Un approccio olistico e internazionale appare quindi necessario per coniugare l’economia dei prodotti elettronici al rispetto dell’ambiente e dei diritti umani lungo l’intera catena del valore, dalle miniere congolesi di cobalto alle discariche ghanesi. La direttiva UE segna un primo passo nella giusta direzione, ma da solo non può portarci lontano. Un capovolgimento del rapporto negativo costi/benefici dell’e-waste globale richiede niente di meno di trascendere le nostre attuali abitudini da produttori e consumatori.

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L'Autore

Matteo Gabutti

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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.

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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.

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