Come ciò che succede a Gaza può favorire o meno un'Europa geopolitica

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  Redazione
  21 November 2023
  8 minutes, 39 seconds

A cura del Dott. Pierpaolo Piras, studioso di Geopolitica e componente del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS

Molto ottimismo ha accompagnato la risposta del continente europeo all’invasione russa dell’Ucraina, ma gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e le loro conseguenze potrebbero smorzare le aspirazioni verso una maggiore unità europea sul piano della politica internazionale.

Il fatto

Il 26 ottobre il Consiglio europeo ha approvato una nuova serie di conclusioni relative alla guerra israelo-palestinese, a Gaza.

Le principali sono: la reiterata condanna di Hamas per la sua aggressione cruenta, il diritto di Israele a difendersi secondo le linee ben descritte dal diritto internazionale, gli appelli a rilasciare tutti gli ostaggi, la preoccupazione per tutte le vite civili, la necessità di garantire l'accesso umanitario a Gaza e non in ultimo l'impegno a raggiungere una delle migliori soluzioni al conflitto israelo-palestinese, verso la creazione di due Stati.

La precedente dissonanza europea riguardo al conflitto di Gaza sembrava quindi essere sostituita da una retorica almeno più chiara e distinta. Ma l’unità europea potrebbe presto essere nuovamente messa alla prova, anche per quanto riguarda i messaggi a carattere umanitario, argomento sul quale vige meno accondiscendenza di quanto sembri. Più in generale, mentre la guerra in Ucraina aveva suscitato un certo ottimismo sull’emergere di una progressiva “Europa geopolitica” – ovvero un’Unione capace di definire autonomamente gli obiettivi internazionali e strategici comuni e di dispiegare gli strumenti operativi, politici , finanziari e militari, più concreti per raggiungerli.

Al contrario gli eventi successivi agli attacchi di Hamas hanno messo in luce alcune sensibili divisioni all’interno delle istituzioni europee e hanno evidenziato l’assenza di un chiaro approccio, di valenza altrettanto strategica, nel suo vicino mediorientale, che potenzialmente potrebbe compromettere la capacità di raggiungere concretamente tali obiettivi.

La cronaca a Bruxelles

Il 9 ottobre scorso, Oliver Varhelyi, un importante funzionario ungherese, in carica come commissario europeo per i negoziati sull’ allargamento dell’Unione, ha annunciato sui più noti social media che tutti gli aiuti allo sviluppo donati ai palestinesi – pari a 691 milioni di euro (729 milioni di dollari) – erano in una fase di revisione al ribasso e che tutti i pagamenti sarebbero stati immediatamente sospesi, causando secondariamente una notevole confusione e turbamento sulla risposta dell’intera Unione.

Anche Germania , Austria , Danimarca e Svezia hanno deciso di sospendere i finanziamenti per accertare esattamente dove andranno a finire tali fondi mentre Belgio, Francia, Italia e Malta hanno chiarito che non lo faranno. Irlanda, Lussemburgo e Portogallo difficilmente seguiranno l’esempio, date le loro dichiarazioni che criticano apertis verbis Varhelyi.

La Spagna per conto suo ha addirittura annunciato un aumento degli aiuti umanitari e della cooperazione con l’Autorità Palestinese.

Alla fine, la Commissione Europea ha dovuto rinnegare la dichiarazione di Varhelyi, ma il grave difetto di coerenza dei messaggi dell’UE è stato commesso, danneggiando non poco la credibilità della UE.

La visita in Israele del 13 ottobre della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha aggravato il malessere all’interno degli alleati europei, sollevando il sospetto, ma per alcuni l’accusa, di un atto di chiaro opportunismo politico, peraltro in un momento particolarmente grave come quello attuale.

Dopo essersi impegnato a contenere i danni per riportare trasparenza sulle posizioni europee, Josep Borrell, capo della diplomazia europea della Comunità Europea, ha spinto l’Unione Europea a adottare una linea meno filo-israeliana, esprimendo preoccupazione per quella che vede come la percezione negativa nei paesi arabi e il “Sud del mondo” di sostegno incondizionato a Israele, la quale secondo lui potrebbe di riflesso avvantaggiare la Russia.

Le prospettive nazionali divergenti sul conflitto

Il caos comunicativo in Europa è stato tanto più sorprendente dato che nel complesso gli Stati membri, pur avendo posizioni e sensibilità molto diverse, hanno espresso messaggi internamente coerenti.

Josep Borrell ha infatti firmato l'8 ottobre scorso una dichiarazione a nome dell'UE nella quale stabilisce i capisaldi essenziali di una linea politica e comportamentale comune - poi confermata alla Commissione Europea il 17 ottobre - secondo i seguenti termini:

  • Una ferma condanna di Hamas e un appello alla liberazione degli ostaggi
  • Sostegno al diritto di Israele a difendersi nel rispetto del diritto umanitario e internazionale
  • Contatti continui con partner regionali e internazionali per contenere il rischio di escalation a livello regionale
  • Fornitura di aiuti umanitari urgenti
  • Rilancio del processo di pace che porta ad una soluzione a due Stati

Facendo ricorso ad alcuni riferimenti storici, l’UE ha fatto parte comune di un quartetto (insieme al segretario generale delle Nazioni Unite, agli Stati Uniti e alla Russia), istituito formalmente nel 2002 per adoperarsi verso la formazione di due Stati al conflitto israelo-palestinese, sulla quale esiste già il consenso unanime tra gli Stati membri.

Lo stesso quartetto ha anche avviato una missione ufficiale di assistenza alla frontiera fra Gaza ed Egitto di Rafah, in collaborazione con l’Autorità Palestinese, che era stata sospesa nel 2007.

Tuttavia, raggiungere una posizione politica comune sugli attacchi del 7 ottobre era tutt’altro che ovvio. Quale terreno comune ha, per puro esempio, la Svezia con l’Ungheria o la Repubblica Ceca, sulle quali si vocifera palesemente che stiano spostando le loro ambasciate a Gerusalemme sulla scia della crisi?

Si deve aggiungere la decisione degli Stati Uniti del 2018 di fare lo stesso trasloco, motu proprio.

Al di là delle differenze politiche tra i governi nazionali dell’UE, la storia recente dei paesi europei modella le proprie percezioni, a volte radicalmente diverse, del conflitto: è possibile ad esempio conciliare la posizione della Germania con quella dell’Irlanda, dove la causa palestinese risuona a causa della “analoga” lotta di liberazione nazionale del paese, e dove il governo ha annunciato a fine settembre che si preparava a riconoscere la Palestina?

Inoltre, le implicazioni al proprio dibattito interno sulla questione israelo-palestinese variano da uno Stato membro all’altro.

Il conseguente rischio di eccessiva frammentazione sociale è preso molto sul serio in paesi come la Francia, che ospita la più grande comunità ebraica d’Europa, che comprende molti cittadini con doppia cittadinanza franco-israeliana e un numero molto elevato di cittadini musulmani.

Queste diverse prospettive probabilmente spiegano perché Francia, Germania e Italia hanno rilasciato dichiarazioni in sintonia con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e Canada, invece di limitarsi a dichiarazioni congiunte con l’UE.

L’unità europea rischia di essere messa alla prova ?

L’UE è da tempo il principale donatore e finanziatore del popolo e dei territori palestinesi e, dopo le incertezze iniziali, il 14 ottobre la Commissione europea ha annunciato di triplicare gli aiuti umanitari a Gaza per un’elevata cifra pari a 75 milioni di euro.

L'accesso e la consegna rimangono tuttavia difficili , nonostante l'apertura del valico di Rafah. Di conseguenza, l’idea di una pausa umanitaria – lanciata per la prima volta dal Brasile in una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che è stata respinta dagli Stati Uniti prima che Borrell la approvasse attivamente – è entrata nel dibattito europeo.

Le ultime conclusioni del Consiglio europeo alludono a questa pausa chiedendo “un accesso umanitario continuo, rapido, sicuro e senza ostacoli e aiuti per raggiungere chi ne ha bisogno attraverso tutte le misure necessarie, compresi i corridoi umanitari e le pause per i bisogni umanitari”.

Tuttavia, l'ottimismo di Borrell sul “crescente sostegno europeo” per una tregua potrebbe essere almeno in parte ingiustificato. Il 24 ottobre scorso, al Consiglio di Sicurezza, il ministro degli Esteri francese, Catherine Colonna, ha invitato la comunità internazionale a chiedere l’instaurazione di una tregua umanitaria che possa eventualmente portare a un cessate il fuoco.

Due giorni dopo, a conferma del divario, la maggioranza – compresa la Germania – si è astenuta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite su una risoluzione giordana che chiedeva tale tregua, mentre un secondo gruppo ha votato a favore (Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, Malta, Irlanda, Lussemburgo) e un terzo ha votato contro (Austria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria). Come si vede, il quadro generale appare piuttosto disunito e confuso.

L'immagine più grande

La situazione attuale ha diverse implicazioni a lungo termine per l’UE. Dal punto di vista procedurale, le elezioni europee previste per giugno porteranno al rinnovamento di diverse istituzioni chiave, inclusa la Commissione europea.

Di conseguenza, responsabilità e prudenza negli affari internazionali devono essere criteri da assumere a pieno titolo nell’assegnazione delle posizioni e dei portafogli, ovvero quelle istituzioni più direttamente coinvolte nell’azione verso l’esterno dell’Unione Europea.

In effetti, indipendentemente dalla loro sostanza, le divergenze rispetto alle istituzioni dell’UE su questioni internazionali rappresentano un pericoloso allontanamento dal quadro che definisce rigorosamente le prerogative di politica estera dell’UE.

A dire il vero, numerosi trattati europei hanno da tempo formalizzato una politica estera e di sicurezza comune, e più volte si è parlato della necessità di costituire una “Commissione geopolitica dell’UE”.

Tuttavia resta il fatto critico che attualmente non esiste una politica estera europea in quanto il processo decisionale è limitato ai singoli Stati membri, ma l’esecutività del voto soggiace alla regola ferrea dell’unanimità.

L’obiettivo finale dell’Europa

A lungo termine, sarà fondamentale che l’Europa adotti una vera strategia nei confronti del suo vicinato mediorientale. Per il momento gli accordi sulle migrazioni sono diventati un’area chiave per la cooperazione dell’Europa con i suoi vicini del Mediterraneo orientale e del Nord Africa, ma sono governati e limitati da considerazioni troppo a breve termine.

Cosa potrebbe accadere a Bruxelles?

Nel prossimo futuro, il raggiungimento di una visione geopolitica comune nel vicinato meridionale non sembra probabile. Ciò dovrebbe suggerire un approccio cauto verso il rafforzamento dei meccanismi istituzionali di un’Europa più geopolitica, in particolare abbandonando la regola dell’unanimità a favore del processo decisionale a maggioranza qualificata nelle questioni internazionali, come sostenuto dalla Germania e dai paesi membri suoi sodali.

In effetti, le riforme istituzionali che ignorano le realtà politiche dei singolo paesi servirebbero solo ad approfondire e aggravare le divisioni. Nel frattempo, l’azione europea nella regione continuerà probabilmente a svolgersi in forme limitate, come nel caso dell’Iran. A tale proposito, la fase successiva al 7 ottobre potrebbe vedere le posizioni dell’E3 (Francia, Germania e Italia) e degli Stati Uniti convergere su una linea più dura nei confronti dell’Iran, un approccio che tuttavia Washington non ha finora favorito.

Va da sé che le conclusioni durature sono rimandate ad altre date…!

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