Increspata come la seta

L'Italia abbandona la Belt and Road Initiative

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  Matteo Gabutti
  17 December 2023
  6 minutes, 27 seconds

Ai raggi del sole primaverile, nel marzo del 2019, il picchetto d’onore con fanfara dell’8º Reggimento Carabinieri “Lazio” declamava gli “onori al Presidente della Repubblica Popolare Cinese”. Al suono delle trombe, Xi Jinping veniva scortato dall’allora premier Giuseppe Conte sul lungo tappeto scarlatto verso l’ingresso di Villa Madama. Qui i due si stringevano la mano a favor di camera, anticipando la firma del Memorandum d’intesa tra Cina e Italia nell'ambito della “Via della Seta Economica”.

Nei primi freddi giorni di dicembre 2023, l’esecutivo di Giorgia Meloni comunica alla controparte cinese la disdetta formale dell’accordo siglato più di quattro anni prima. La comunicazione intergovernativa è affidata a una discreta nota verbale, al culmine di settimane di negoziati segnate dalla riservatezza e dalla circospezione diplomatica.

Lo Stivale, primo e unico membro del G7 ad aver aderito alla “Nuova via della seta”, meglio conosciuta come Belt and Road Initiative (BRI), diventa anche il primo Paese al mondo ad uscirne.

“Credo che si debba intensificare la cooperazione economica e commerciale con la Cina,” ha detto Giorgia Meloni a La Stampa, “ma anche che l’accordo ‘Via della Seta’ da questo punto di vista non abbia dato i risultati attesi”.



Belt and Road

Concepita agli albori della Presidenza di Xi Jinping nel 2013, negli anni la BRI si è evoluta in un ambizioso progetto volto a plasmare, nelle parole del leader del Partito Comunista Cinese, “una nuova piattaforma per la cooperazione internazionale e creare nuovi motori di sviluppo condiviso”.

Ispirato alle antiche vie di comunicazione tra Europa e Asia, il piano ha conosciuto un’espansione via mare e via terra, dando vita a una fitta rete infrastrutturale e commerciale tra i Paesi aderenti e il Regno di Mezzo.

Le stime parlano di investimenti da parte di banche commerciali e di sviluppo cinesi per il decennio 2017-27 del valore complessivo superiore al bilione di dollari. Sul piatto si avrebbe dunque una strategia a lungo termine, estesa dall’Eurasia all’America Latina, dall’Africa all’Artico.



Una scatola vuota

Di fronte a promesse di questo calibro, il sentimento prevalente tra i 17 Paesi dell’Unione Europea che hanno aderito alla BRI – 18 se si include l’Austria, che non ha mai confermato né negato la propria adesione –, è tuttavia la disillusione. Con la sola eccezione dell’Ungheria, infatti, gli investimenti e lo sviluppo economico previsti dalla Via della seta in Europa si sono materializzati solo in minima parte.

Stando a un report di Metrics e del Rhodium Group, nel 2022, l’88% di tutti gli investimenti diretti cinesi nel vecchio continente si è concentrato in soli quattro Paesi, a conferma di un trend pluriennale: i “Big Three” di Germania, Francia e Regno Unito, e, appunto, l’Ungheria.

Per gli altri, invece, afferma Giulia Pompili, “a livello economico la BRI è stata una scatola vuota in cui hanno contato soprattutto le velleità politiche cinesi”, dal momento che gli accordi stipulati in seguito all’adesione si sarebbero potuti ottenere anche al di fuori.

Secondo l’ISPI, tra 2019 e 2022, le esportazioni italiane verso la Cina hanno registrato solo un modesto incremento del 27% – da €13md nell’anno della firma a €16,4md l’anno scorso –, a fronte di un’impennata delle importazioni dell’82% – da €31,7md a €57,5md nel 2022. Inoltre, questo deficit commerciale non è addolcito da una posizione privilegiata di Roma nei rapporti economici con Pechino, soprattutto se paragonata a Parigi e Berlino.

La coperta economica sembra dunque troppo corta per coprire la macchia politica del Memorandum, che nel mentre si è progressivamente allargata.



Quattro anni e sentirli

Come ricorda sempre l’ISPI, l’accordo bilaterale venne stipulato sotto il governo gialloverde di Giuseppe Conte, una coalizione caratterizzata dal distaccamento dalle alleanze tradizionali e dall’Euroscetticismo. Già a partire dalla sostituzione della Lega con il Partito Democratico a fianco del Movimento 5 Stelle, tuttavia, e ancor di più con il governo Draghi, lo Stivale ritornava nella sfera europea ed occidentale, per culminare poi con la postura spiccatamente atlantista dell’esecutivo a guida Meloni.

Nel frattempo, anche il panorama internazionale è mutato. Innanzitutto, Biden ha ereditato da Trump il confronto con la Cina, ma si è mostrato più conciliante verso l’Europa. La Commissione Europea, ancor prima del Memorandum sino-italiano, definiva la Repubblica Popolare come un “rivale sistemico” dell’Unione, lanciando anche una staffilata a Roma per il suo corteggiamento con Pechino. L’invasione russa dell’Ucraina, infine, ha riportato in auge la NATO, ricompattando, almeno in un primo momento, il fronte occidentale.



Debt-Trap Diplomacy

D’altronde, l’adesione italiana alla BRI è risultata problematica fin da subito, per via della diffidenza che l’Iniziativa attirava già prima della guerra e ben oltre il solo Occidente. Per esempio, l’India concorda con gli Stati Uniti nel considerare il progetto cinese come una più ampia strategia volta a rafforzare la posizione e l’influenza mondiale di Pechino, tanto da averne boicottato il terzo summit di fila lo scorso ottobre.

In particolare, la principale accusa rivolta alla BRI viene riassunta nel concetto di “debt-trap diplomacy”, coniato nel 2017 proprio da un think tank indiano. Nelle parole del Prof. Brahma Chellaney, gli ingenti prestiti di Pechino per i progetti infrastrutturali della Via della seta avrebbero come naturale e deliberata conseguenza quella di impantanare i Paesi contraenti “in una trappola del debito che li lasci vulnerabili all’influenza della Cina”. Non a caso, molti firmatari sono piccoli Paesi in via di sviluppo con una rilevanza geostrategica non indifferente.

L’approdo della BRI in Europa non ha fatto che alimentare questa retorica, che ritrae investimenti da parte di compagnie cinesi dal Pireo di Atene al porto di Rotterdam come “cavalli di Troia” penetrati nel ventre molle del vecchio continente.



Tra incudine e martello

A onor del vero, questa narrativa è stata contraddetta da una fiorente letteratura con contributi di economisti e scienziati politici del calibro della Prof. Deborah Brautigam, che ha definito la “debt-trap diplomacy” come un meme assurto a verità storica priva di una solida base fattuale.

Ciononostante, l’adesione dell’Italia alla BRI si è rivelata inconveniente quando non imbarazzante di fronte agli altri membri del G7, di cui Roma assumerà la presidenza nel 2024, ospitandone il cinquantesimo summit. In tal senso, la recente uscita dalla Via della seta sarebbe provvidenziale.

Allo stesso tempo, questo divorzio rischia di incrinare i rapporti tra il Bel Paese e il Celeste Impero. Seppur al di sotto delle aspettative create dal Memorandum, i legami commerciali tra i due Paesi rimangono forti, e il mercato cinese rappresenta la prima destinazione in Asia e la seconda tra i Paesi extra-europei, dopo gli Stati Uniti, per l’export italiano.

La Repubblica Popolare non è estranea ad esercitare ritorsioni economiche per torti o minacce ai suoi interessi nazionali.



Silenzio radio

Pertanto, la diplomazia italiana si è mossa con piedi di piombo. Fino all’ultimo ha suggerito una disdetta per assenza di esplicito rinnovo, visto che il Memorandum sarebbe scaduto a marzo 2024, scontrandosi però con la volontà cinese di ottenere un’esplicita nota verbale.

Eppure, anche così l’uscita è avvenuta quasi in punta di piedi, lontano dai riflettori. Dal fronte cinese, nessun titolo roboante sui giornali, né reazioni su piattaforme social come Weibo paragonabili a quelle che accolsero le notizie della scorsa estate su un possibile dietrofront italiano.

Ovviamente, è presto per fare previsioni sul lungo termine. Per il momento, come afferma un articolo del China Media Project, “possiamo solo leggere il malcontento della Cina nel suo atipico silenzio sulla decisione dell’Italia”.

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L'Autore

Matteo Gabutti

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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.

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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.

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