CPR in Italia: tra storia, sfide umanitarie e appelli per un cambiamento decisivo

  Articoli (Articles)
  Ludovica Raiola
  18 marzo 2024
  5 minuti, 20 secondi

Ventisei anni di “CPR”, ovvero Centri Permanenti per i Rimpatri. Negli anni hanno assunto diversi nomi, come Centri di Permanenza Temporanea o Centri di Identificazione ed Espulsione, ma non hanno mai cambiato la loro sostanza.

Istituiti con il decreto-legge Dini e successivamente divenuti realtà con la legge Turco-Napolitano, sono stati regolarizzati negli anni da varie disposizioni legislative nazionali, ultimo il decreto-legge c.d. Decreto Cutro, convertito poi nella Legge n. 50 del 5 maggio 2023 nella quale, all’articolo 10, si stabilisce il potenziamento dei CPR.

Secondo il Decreto Legislativo n. 286/1998, c.d. Testo Unico dell’Immigrazione, che disciplina i CPR, il funzionamento di questi centri è di competenza del Prefetto, che attraverso dei bandi o gare d’appalti affida i servizi di gestione della struttura a soggetti privati. Nel corso del 2023, la supervisione del sistema detentivo per stranieri è stata largamente delegata a entità dichiaratamente for-profit, comprendendo talvolta anche multinazionali di rilievo. Inoltre, il periodo massimo di detenzione è stato recentemente prolungato a 18 mesi. 

Nonostante non siano un carcere, gli attuali nove Centri Permanenti per i Rimpatri attivi sul territorio italiano sono circondati da alte mura, filo spinato e telecamere su tutto il perimetro, oltre che presieduti costantemente dalle forze dell’ordine. Lo scopo per cui questi centri sono stati istituiti è quello di trattenere temporaneamente dei cittadini stranieri, i quali si trovano quindi in uno stato di detenzione amministrativa, in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione. Per cittadini stranieri si intendono tutti coloro che entrano nel territorio senza un permesso di soggiorno, coloro che perdono tale titolo anche per cause non loro imputabili, come la perdita della propria occupazione, e coloro che richiedono asilo perché in fuga da persecuzioni o guerre nel proprio paese d’origine. 

È bene specificare che il trattenimento non è collegato all’aver commesso un reato. Dunque, non essendo una vera e propria detenzione sancita dal codice penitenziario, i CPR sono sprovvisti di un ordinamento normativo proprio e ciò implica l’assenza di norme di rango primario che regolino la vita interna delle persone che sono trattenute. In altre parole, questa mancanza significa anche una capacità precaria di stabilire, e quindi proteggere, i diritti umani che dovrebbero essere rispettati al loro interno.

Sono diverse, infatti, le problematiche presenti all’interno di queste strutture, che limitano alcuni diritti dei migranti trattenuti, come il diritto alla difesa o il diritto d’informazione o il diritto alla salute, fisica ma anche mentale.

L’assistenza sanitaria nei CPR, infatti, è da tempo al centro di diverse critiche. La procedura vuole che, in prima istanza, venga effettuato uno screening da un medico del Servizio Sanitario Nazionale delle condizioni psicofisiche del soggetto per verificare l’idoneità a essere trattenuto in queste strutture; successivamente i soggetti detenuti dovrebbero essere seguiti dal medico del centro, solitamente scelto dagli enti gestori privati e non all’interno del SSN, e da un presidio infermieristico aperto h24. Tuttavia, nella relazione stilata sui PCR di Milano è stato dichiarato dal Garante dei diritti delle persone private delle libertà personali che i medici scelti per prestare servizio nei CPR non avrebbero un’esperienza specifica o una formazione correlata ai bisogni sanitari delle persone migranti sottoposte a detenzione amministrativa. Il rapporto mostra anche come le condizioni igienico-sanitarie dei centri sia al collasso e come questo, conseguentemente, abbia un effetto sulla salute fisica delle persone detenute. Inoltre, negli ultimi anni si sarebbe registrata una significativa riduzione del personale medico-sanitario, con anche una diminuzione della presenza di professionisti specializzati, come assistenti sociali e psicologi. 

Ciò fa luce su un’importante criticità, ovvero il modo in cui viene gestita la salute mentale di una persona detenuta. La precarietà della propria situazione sociale, unita alla mancanza di percorsi educativi e ricreativi nelle strutture, non essendo carceri, crea delle fragilità evidenti nelle persone detenute, fragilità che hanno portato a molti casi di autolesionismo e suicidio. Per ovviare a questi problemi, la risposta sembrerebbe avere un nome: psicofarmaci. Infatti, è stato denunciato negli ultimi anni una somministrazione di psicofarmaci alle persone trattenute nei centri senza un vero e proprio piano terapeutico e senza fornire attente prescrizioni che tengano conto delle vere patologie delle persone trattenute. Ciò sarebbe evidente anche dalla presenza tra le spese nel budget dei CPR di grandi numeri di antipsicotici, antiepilettici o di creme e gel che curano, ad esempio, la scabbia, secondo quanto riportato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) e dall’associazione di volontariato Naga, le quali hanno raccolto dati sui farmaci acquistati per il Cpr di Milano tra ottobre 2021 e febbraio 2022. Alcune testimonianze di ex lavoratori nei CPR avrebbero destato anche delle perplessità sulla presenza o meno del consenso della persona detenuta a prendere farmaci che non conoscono perché diversi rispetto a quelli autorizzati alla somministrazione.

In questo clima di poca trasparenza delle strutture e di fragilità delle persone detenute è evidente che i medici svolgano un ruolo fondamentale per il rispetto del diritto alla salute degli individui trattenuti. Questa influenza avviene fin dal primo momento, ovvero dallo screening per dichiarare o meno l’idoneità al trattenimento nei centri, che il più delle volte viene effettuato in tempi molto brevi e con modalità poco chiare. Per questa ragione è nato un appello congiunto tra la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, la rete “No ai CPR” e l’ASGI, sopra citata, per sensibilizzare il personale sanitario al rispetto del loro Codice di Deontologia Medica, specialmente nei passaggi in cui si stabiliscono le necessità di tempi congrui per la valutazione dello stato di salute delle persone e del loro consenso informato e dove si stabilisce anche la protezione, da parte del medico, del soggetto considerato vulnerabile, in particolare quando “ritiene che l’ambiente in cui vive non sia idoneo a proteggere la sua salute, la dignità e la qualità di vita”.

Questo appello rappresenta l’inizio di un percorso di consapevolezza del personale medico e di sensibilizzazione della società civile che può essere la chiave per un superamento del concetto di detenzione amministrativa in favore di pratiche che prevedano un rispetto maggiore dei diritti della persona in stato di transito e un suo coinvolgimento attivo nella ricerca di soluzioni alternative.


Mondo Internazionale APS - Riproduzione Riservata ® 2024

Condividi il post

L'Autore

Ludovica Raiola

Categorie

Diritti Umani

Tag

#dirittiumani #cpr #Humanrights #dirittoallasalute