L’Etiopia tra conflitti interni e tensioni regionali e la risposta della comunità internazionale

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  Aurelia Maria Puliafito
  25 aprile 2024
  3 minuti, 59 secondi

Dal 13 aprile, in Etiopia nuovi scontri sono scoppiati tra le milizie ahmara e quelle tigrine nella contesa area di Raya Alamata e più di cinquantamila persone sono state costrette a fuggire dal nord del Paese. In un clima tanto ostile, che allo scontro militare affianca quello mediatico, in un reciproco scambio di accuse tra il Movimento nazionale amhara (Nama) e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè, a essere vittima inerme del conflitto è la popolazione, esasperata da anni di violenze che potrebbero portare allo scoppio di una nuova guerra civile. Sono numerosi e documentati i report di denuncia degli abusi perpetrati da entrambe le fazioni sui cittadini: al 29 gennaio risale l’uccisione di massa di decine di uomini e donne ad opera dei membri dell’Esercito Nazionale Sudanese per vendicare un contingente di militari attaccato dalla milizia ahmara Fano.

Ciò nonostante, la comunità internazionale appare inerte e incapace di elaborare un piano di azione strutturale e previdente, in grado di evitare un ulteriore aggravamento della già tragica crisi umanitaria che paralizza il Paese e incombe sull’intero Corno d’Africa. Nel giugno del 2023 - a tre mesi di distanza dalle dichiarazioni del Segretario di Stato Antony Blinken, che riconosceva che tutte le parti coinvolte nel conflitto avessero commesso crimini di guerra e contro l’umanità - l’amministrazione Biden aveva comunicato al Congresso che all’Etiopia non era più imputabile la commissione di gravi violazioni dei diritti umani, così riaprendo i canali di cooperazione economica e finanziaria bi- e multilaterale a vantaggio dell’Etiopia stessa. Una presa di posizione, questa, ampiamente criticata perché ipocrita, senz’altro goffa nel tentativo di evitare che Addis Abeba stringa accordi di ancora più estesa cooperazione economica di quelli decantati come “straordinari” dall’Ambasciatore cinese Zhao Zhiyuan.

Similmente, oggetto di aspre critiche è stata la posizione assunta nel corso della riunione del G7 dedicata all’Africa dalla presidenza italiana nella persona della premier Giorgia Meloni che, nel corso del suo mandato, sta sostenendo la necessità di rafforzare la presenza italiana in Corno d'Africa attraverso aiuti umanitari e progetti di cooperazione allo sviluppo volti a pacificare e stabilizzare l’area, così limitando i flussi migratori diretti verso l’Europa, come ribadito nel corso della suo viaggio ad Addis Abeba, dal 14 al 16 aprile.

Ma all’Italia viene contestata l’incapacità di “stimolare un’azione globale per mettere fine agli abusi e alla diffusa insicurezza che stanno costringendo le persone a fuggire dalle proprie case”, scrivono le ricercatrici della ONG Human Rights Watch, Ilaria Allegrozzi e Laetitia Bader. Di fatto, la mancata concretizzazione delle formali prese di posizione degli Stati occidentali nei confronti degli attori responsabili dei conflitti, la frequente contraddittorietà delle misure adottate, l’incapacità di contrapporre l’espansione di Mosca e Pechino nell’area, impediscono all’Occidente di avere una forte voce in capitolo in merito ai problemi che affliggono la regione e di presentarsi come valido interlocutore agli occhi dei leader locali, lasciati così liberi di creare nuovi focolai di conflitto.

È, infatti, alla possibilità che scoppi un conflitto regionale che il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali ha in più occasioni fatto riferimento, ribadendo la necessità che all’Etiopia venga riconosciuto un accesso diretto al mare. Richiesta, questa, avanzata sin da quando il Paese, distaccatosi dall’Eritrea, divenne politicamente indipendente nel 1994 ma, per l’appunto, privo di uno sbocco sul Mar Rosso. Oggi, il Primo ministro è arrivato a definirla una “questione esistenziale” per la sopravvivenza stessa dello Stato. Nel novembre del 2023, quindi, sembrava essere stato raggiunto un accordo tra l’Etiopia e la Russia per l’apertura di una base navale comune in Gibuti, e Mosca aveva affermato che soltanto coloro i quali sono "ossessionati dal contenimento dell’Etiopia, potenzialmente con l’intento di balcanizzarla", avrebbero potuto opporsi all’apertura della base stessa.

Sempre in quest'ottica, lo scorso febbraio Addis Abeba ha stipulato un Memorandum di Intesa con il Somaliland, ovvero con quell’area della Somalia direttamente confinante con l’Etiopia e il Gibuti, auto-dichiaratasi Stato ma non riconosciuta dalla comunità internazionale. Spina nel fianco della Somalia, quest'ultima ha immediatamente approvato una legge per annullare il Memorandum. Sebbene la comunità internazionale si sia immediatamente dichiarata contraria a qualsiasi prospettiva di disgregazione dell’unità dello Stato somalo e i cittadini della città di Borama, compresa nel territorio del Somaliland, abbiano protestato contro la svendita delle proprie coste, Abiy Ahmed Ali è stato accolto in patria da decine di migliaia di cittadini desiderosi di celebrare lo storico risultato ottenuto.

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Guerra civile Cooperazione internazionale International Cooperation