ONG e colonialismo, qual è il nesso nel 21esimo secolo?

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  Gaia De Salvo
  05 maggio 2024
  4 minuti, 37 secondi

In un’intervista con il New Humanitarian, Degan Ali, attivista e CEO di Adeso Africa, ha accusato il sistema di aiuti internazionali di non rispettare l’obiettivo programmatico di alleviare la sofferenza altrui ma di voler solamente supportare la propria esistenza con programmi che nel lungo termine non cambiano la posizione subordinata del Sud Globale. Ali afferma che l’architettura umanitaria moderna perpetra la dipendenza delle ex colonie verso i paesi “del nord” del mondo.


La storia degli aiuti umanitari

Le radici degli aiuti umanitari sono necessariamente intrecciate con quelle del colonialismo, evidenziando la superficialità dell’idea di un aiuto storicamente e geograficamente neutrale. Dal diciannovesimo secolo, i poteri coloniali erano i principali promotori di obiettivi umanitari per legittimare il loro controllo del territorio. La missione civilizzatrice dell’impero francese, ma anche di quelli spagnolo e portoghese, era volta a ‘salvare’ la popolazione indigena dalle proprie culture, religioni e identità, considerate retrograde. Come indicazione della percepita inferiorità dei popoli colonizzati, la razza diviene sia un fattore motivante degli sforzi umanitari sia una causa legittima di discriminazione ed esclusione.

Quando questi Paesi hanno ottenuto l'indipendenza, i nuovi Stati hanno dovuto adattarsi alle strutture internazionali esistenti create dai loro ex colonizzatori. Di conseguenza, si crede che il momento decoloniale abbia semplicemente trasformato la natura delle dinamiche coloniali, piuttosto che sradicarle. La maggior parte dei paesi Africani, già privati di risorse preziose da 75 anni di sfruttamento coloniale, sono passati da una crisi economica all'altra portando a frustrazioni politiche con le conseguenti ondate di rivolte militari e sconvolgimenti politici in diverse parti del continente. Questa fragilità ha lasciato spazio ai poteri imperiali ‘riformati’ di intervenire e perpetuare un'economia estrattiva nelle colonie, fonti tuttora di materie prime.

In parallelo, si stava formando una classe professionale di attori umanitari, finanziati da donazioni di paesi ricchi per aiutare popolazioni in stati poveri e fragili - solitamente a causa delle azioni stesse dei paesi donatori. Non sorprende che, geograficamente, l’operatività delle principali organizzazioni umanitarie europee sia nei rispettivi ex-possedimenti coloniali, in cui per decenni operavano principalmente expat europei, che venivano pagati maggiormente rispetto al "personale nazionale" che lavora nel proprio paese d'origine.


Il concetto di localizzazione

L’idea che la popolazione locale nei luoghi in cui operano le grandi organizzazioni internazionali abbia più legittimità, oltre a conoscenze relative ai propri bisogni e come soddisfarli in maniera sostenibile, è relativamente recente. Il movimento verso la localizzazione, opposto a un’idea di white savior, ossia salvatore bianco, viene esemplificato dalle vecchie pubblicità in cui si vedeva un operatore bianco, ben vestito e sorridente, che dona del cibo o delle prestazioni mediche a bambini locali soli, denutriti e seminudi (nel link una parodia).

Questo concetto, considerato superato ma con tracce ancora presenti, è parte dell'immaginario delle operazioni umanitarie, in cui vi è una chiara asimmetria di potere: l’operatore bianco e ricco che crea progetti per aiutare il locale povero e incapace. Tale visione ha spesso oscurato le operazioni umanitarie che vengono dall’interno delle aree colpite: per esempio, durante il terremoto del 2005 nel nord del Pakistan - in cui oltre 85.000 persone persero la vita e quasi tre milioni furono sfollate, - nonostante la massiccia risposta locale con donazioni, volontariato e coordinamento degli sforzi di soccorso, la narrazione predominante si concentrò sulla risposta della comunità umanitaria internazionale, ignorando gli sforzi locali. Similmente, nella guerra civile in Siria, organizzazioni siriane come i White Helmets salvarono migliaia di vite, ma furono oggetto di numerose campagne mediatiche per screditare il loro lavoro.

La persistente e ingiusta distribuzione del potere fa in modo che le comunità e le organizzazioni più colpite dalle crisi siano le più lontane dal processo decisionale sulle modalità di risposta. Il concetto di localizzazione risponde a questo portando ad immaginare il settore umanitario dal basso verso l'alto, sottolineando l'importanza di una maggiore leadership e di un maggiore impegno da parte degli attori locali e nazionali.

La principale iniziativa per la localizzazione nel sistema umanitario è quella del Grand Bargain, lanciata durante il World Humanitarian Summit del 2016 come impegno dei principali donatori umanitari e delle organizzazioni umanitarie a migliorare l'efficienza e l'efficacia dell'azione umanitaria. Nel corso degli anni, il Grand Bargain si è impegnato ad aumentare i finanziamenti diretti agli attori locali e nazionali, a semplificare i requisiti di rendicontazione, a potenziare le iniziative di sviluppo delle capacità e a promuovere i partenariati tra organizzazioni internazionali e locali.

Questi sforzi mirano a spostare il sistema umanitario verso un approccio più inclusivo e collaborativo che valorizzi il contributo degli attori locali nella risposta alle crisi e nella ripresa. La localizzazione è dunque passata da una conversazione marginale tra policy-maker e agenzie umanitarie a una priorità formale nell'ambito del Grand Bargain. Tuttavia, i progressi sono lenti e permangono gravi lacune tra la retorica dei partenariati, dei finanziamenti e del coordinamento umanitario e le pratiche sul campo - rendendo un aiuto umanitario “decolonizzato” ancora una chimera.

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L'Autore

Gaia De Salvo

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