Back to Black: La solitudine di Amy Winehouse

La storia intima di Amy Winehouse e il suo struggente rapporto con la musica

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  Jacopo Cantoni
  23 aprile 2024
  4 minuti, 22 secondi

Tralasciamo solo per un secondo Amy, il film premio oscar al miglior documentario nel 2016 diretto da Asif Kapadia e non soffermiamoci sui confronti per un pubblico sciocco e massificato. Prendiamo Back to Black e parliamo di lui.

Banale parlare di storia o di provenienza del titolo, Amy Winehouse, la cantante simbolo della Londra di inizio secolo, e Back to Black la canzone che l’ha tatuata nel taschino della camicia di ognuno di noi.

Step back, entro in sala e sono solo, la domenica alle 12.40 di sicuro non è l’orario migliore in cui sedersi in un cinema, speravo di sentire le reazioni delle persone alle canzoni, agli abusi, alla storia d’amore con Blake e il sesso con gli altri mille uomini prima di lui, alla figura del padre, al patriarcato dominante le etichette discografiche, ai paparazzi e alla maleducazione delle persone, mi sono perso tutto ciò, ma alla fine del film non potevo ritenermi più fortunato che mai.

La pellicola non è di prima fattura, purtroppo, in regia gli errori sono evidenti così come l’appiattimento della storia, soprattutto nella parte centrale. La recitazione in alcuni punti tende quasi al teatrale e non mi ha stupito in positivo, anzi. Allora perché mi ritengo fortunato?

Perché il miglior modo di vedere questo film è in una sala cinematografica DA SOLI. Per capire davvero questa prospettiva su Amy, e forse lei stessa, bisogna comprendere la sua solitudine. Il film è la solitudine della cantante inglese con il mondo.

Un ossimoro, banale, per dire che la sua vita è sempre stata piena di persone, la nonna, il padre, Nick, la madre, le discografiche, Blake, i paparazzi, ma nessuno di loro era con lei, soprattutto nei momenti del vero bisogno. Durante le ubriacature che la facevano perdere per tutta Londra, durante i primi problemi con la droga, durante i momenti di depressione e di corsa lontano dal mondo per trovare un solitudine che voleva solo essere condivisa con le poche persone vere, la nonna, Blake e il padre. Quando scrive le sue canzoni è sola. Vince 5 grammy (Beyonce, Rihanna e Jay-Z, con Umbrella, Justin Timberlake, i Foo Fighters e la lista è ancora lunga di coloro che quell’anno gareggiarono per quei premi), ma è sola, il pubblico e la band le creano un cerchio intorno che la vede come centro, un punto equidistante dalla circonferenza.

Un film sulla trasformazione di un corpo, quello femminile che si ferma alla giovinezza, non troppo spensierata di una 27enne. Subito dopo la prima firma alla discografica, il volto di Winehouse è più crucciato, il momento dei tatuaggi diventa centrale per muovere emozioni e azioni del film, come se fossero un protagonista attivo della storia stessa. L'ultima volta che la vediamo prima dei titoli di coda è, infatti, attraverso un tatuaggio sul braccio sinistro. Una trasformazione che è ancora più pesante ed enfatica se pensiamo che la maternità, anche se ricercata e ardita da Amy, mai arriverà.

Rimane di centrale importanza la rappresentazione del mondo discografico tutto maschile che oltre ad essere tale, impone alla cantante di cambiare la sua presenza scenica per poter sfondare in America. I coristi e i suonatori del celebre Ronnie Scott's Jazz Club sono tutti uomini, i tatuatori sono tutti uomini all’infuori di una sola.

Facendo un passo in avanti e a costo di inimicarmi molti lettori scrivo quanto segue tratto da un’intervista:

Giornalista: “So why do you need a black director, could a white director not have…?”

Denzel Washington: “It’s not color, it’s culture”

Giornalista: “Explain the difference, because I’ve…”

Denzel Washington: “Steven Spielberg did Schindler List, Martin Scorse did GoodFellas, right? Steven Spielberg could direct GoodFellas, Martin Scorse could have done a good job with Schindler's List but there are cultural differences. I know, you know, we all know, it is with a hot comb hits your hair on a Sunday morning, what it smells like, that’s a cultural difference. Not just a color difference, so it’s the culture”


Sam Taylor-Johnson e Nina Gold hanno centrato il punto scegliendo solo attori britannici perché per raccontare la storia e un personaggio che sono cultura britannica bisogna “avere quella cultura”. Perché Gucci e Ferrari sono pellicole non soddisfacenti, se non peggio? Traete voi le conclusioni, da italiano le ho colte appena uscito dalla sala.

All’inizio ho pianto alla fine mi sono commosso e il film mi ha fatto tornare alla mente il 23 luglio 2011, prima volta che sentivo nominare Amy Winehouse, seduto al tavolo con mia nonna, forse un segno del destino che mi ha portato quasi 13 anni dopo a scrivere di un film su di lei. Se vi sentite soli o siete in un periodo di down completo. Andate al cinema e leggete i veri messaggi che la Settima Arte ci vuole mandare.

Buona visione!

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L'Autore

Jacopo Cantoni

Laureato in Cinema presso l'Alma mater Studiorum di Bologna, mi cimento nella scrittura di articoli inerenti a questo bellissimo campo, la Settima Arte. Attualmente frequento il corso Methods and Topics in Arts Management offerto dall'università Cattolica del Sacro Cuore.

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