Afghanistan: la crisi non conosce tregua

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  Redazione
  01 May 2018
  7 minutes, 2 seconds

A cura di Vincenzo Battaglia

Nonostante gli oltre quindici anni di missione internazionale in Afghanistan, il conflitto civile continua ad insanguinare il paese. In particolare, negli ultimi mesi stiamo assistendo ad una nuova ondata di violenza contrassegnata da una recrudescenza degli attacchi terroristici. Nella mattinata di lunedì 30 aprile, due attentati kamikaze, a distanza di mezz'ora l’uno dall'altro, hanno colpito Kabul. La prima esplosione si è verificata nel quartiere di Shashdarak, nei pressi del Dipartimento nazionale di sicurezza. La seconda, invece, è stata condotta appositamente contro i soccorsi e i cronisti giunti sul posto (l'attentatore, per passare inosservato, si è finto un reporter). Il bilancio, ancora provvisorio, è di 29 morti e una cinquantina di feriti. Tra le vittime risultano 9 giornalisti che stavano documentando quanto accaduto. La strage è stata immediatamente rivendicata dall'Isis attraverso un comunicato rilasciato dalla sua agenzia stampa Amaq. Sempre nelle stesse ore un convoglio Nato è stato attaccato a Kandahar, nel sud del paese; tra le vittime accertate vi sono 11 studenti di una scuola coranica ubicata nel luogo dell'attentato. E ancora un ulteriore agguato nel sud-est del paese (nella provincia di Khost) ha provocato la morte di Ahmad Shah, cronista afghano dell'emittente britannica BBC. Questa tragica giornata di sangue si è verificata ad una settimana esatta dall' attentato suicida perpetrato dallo Stato Islamico nei pressi di un centro di registrazione elettorale a Kabul (57 morti e circa 120 feriti). Gli episodi appena descritti sono soltanto gli ultimi di una lunga scia di azioni terroristiche che stanno sconvolgendo lo stato afghano: poco più di un mese fa l’IS si è reso responsabile di un’ennesima esplosione nelle vicinanze di un santuario sciita a Kabul, causando la morte di una trentina di persone. Lo scorso 20 gennaio, un gruppo di miliziani ha condotto un attacco contro l’hotel Intercontinental (il più grande hotel della capitale afghana) provocando 23 morti. I responsabili di suddetta offensiva sono i Talebani i quali hanno rivendicato, altresì, l’attentato del 27 gennaio con autoambulanza bomba in un’area centrale, e molto affollata di Kabul (più di 100 morti). Nel frattempo, lo Stato Islamico non è rimasto inattivo e ha condotto diverse azioni terroristiche, tra cui l’irruzione nella sede dell’ONG Save the Children a Jalalabad il 24 gennaio (6 vittime) e l’assalto all’accademia militare di Kabul il 29 gennaio (11 vittime). Alla luce di quanto espresso finora, possiamo affermare che i bersagli principali degli attacchi sono vari: oltre ai civili, rientrano nel mirino degli attentatori le forze di sicurezza afghane (e internazionali) nonché le loro sedi, comunità e luoghi di culto sciiti, giornalisti, soccorritori, membri delle ONG e centri elettorali. Questi ultimi sono divenuti da poco un obiettivo privilegiato dei gruppi islamici armati, intenzionati a destabilizzare il panorama politico in vista delle elezioni legislative di ottobre.

Dunque, l’Afghanistan sta vivendo una fase di profonda instabilità e fragilità interna, aggravata dal mal funzionamento dell’apparato istituzionale. Il progressivo fallimento dello stato afghano - retto dal 2014 da un governo di unità nazionale con Ashraf Ghani nel ruolo di presidente e Abdullah Abdullah in quello di capo dell’esecutivo - ha facilitato l’affermazione di attori non statuali. Tra questi, vi sono i Talebani, ossia lo storico gruppo dell’insorgenza afghana, e lo Stato Islamico, presente in Afghanistan con la sua branca locale Wilayah Khorasan. L’Isis ha cominciato ad operare entro i confini afghani tra la fine del 2014 e gli inizi del 2015, quando un gruppo di militanti, sulla scia delle imprese realizzate in Siria e Iraq, ha creato una cellula nell’est del paese con la sua roccaforte nella provincia di Nangarhar. Non è comunque chiaro se tra lo Stato Islamico in Afghanistan e i leaders operanti nel teatro siro-iracheno vi sia stata (e vi sia tuttora) una connessione diretta. Diversi analisti ritengono infatti che l’IS-K (Islamic State in Khorasan) agisca in maniera autonoma senza seguire specifiche direttive dalla Siria o Iraq. É evidente, invece, come in Afghanistan si sia registrato un determinato aumento della violenza e della conflittualità a seguito dell’insediamento di IS-K. A peggiorare un quadro estremamente complesso, si aggiunge la contrapposizione tra i militanti dell’IS afghani e i talebani. Queste due orbite jihadiste differiscono sotto il profilo ideologico e perseguono pertanto obiettivi diversi: i talebani sono promotori di un’istanza di liberazione nazionale contro un governo considerato illegittimo e sostenuto dalla comunità internazionale - la cui presenza in loco è percepita alla stregua di un’occupazione. La loro lotta armata è quindi circoscritta entro i confini dell’Afghanistan. Di contro, lo Stato Islamico ha una vocazione universale e mira all’unificazione dell’intera Ummah (la Comunità musulmana). Quindi, la sua causa ha una portata globale e non nazionale. L’antagonismo tra i due gruppi terroristici, alimentato per giunta dalla competizione per membri e risorse, costituisce certamente un ulteriore fattore destabilizzante per le sorti dell’Afghanistan.

Le numerose problematiche del fronte afghano rappresentano un serio motivo di preoccupazione per la comunità internazionale e in particolare per gli USA. Questi sono impegnati militarmente in Afghanistan dal 2001 nell’ambito dell’operazione Enduring Freedom e dal 2003, nell’ambito della missione internazionale ISAF, targata Nato e controllata principalmente dagli americani (sostituita dalla Resolute Support Mission nel 2014). Gli interventi in questo burrascoso quadro operativo hanno finora avuto un esito fallimentare e gli Stati Uniti sono ben consapevoli dell’enorme posta in gioco in Afghanistan: se la situazione dovesse precipitare in un caos incontrollabile, la credibilità internazionale degli Usa - attore che più di tutti ha esteso il suo impegno in tale territorio - potrebbe essere compromessa. Non a caso, Donald Trump ha presentato nell’agosto del 2017 una nuova strategia per l’Afghanistan. Tuttavia, il presidente americano aveva inizialmente annunciato il ritiro delle truppe, in linea con il disimpegno promesso a livello globale. Egli ha in seguito dato ascolto ai propri consiglieri, in particolare H.R McMaster, ex Consigliere per la sicurezza nazionale (sostituito di recente da John Bolton) e Jim Mattis, Segretario alla Difesa. Questi ultimi hanno ammonito Trump riguardo agli effetti negativi di un eventuale ritiro dei soldati americani dal teatro afghano. In prima istanza, suddetta decisione avrebbe significato vanificare gli sforzi realizzati dal 2001 fino ad oggi. Secondo, si sarebbe compiuto lo stesso errore di Obama che, attuando questo tipo di condotta in Iraq nel 2011, in un contesto non ancora pacificato e stabile, ha favorito l’ascesa dello Stato Islamico. Il nuovo indirizzo strategico per l’Afghanistan promosso da Trump si focalizza essenzialmente su tre punti: - il ritiro è vincolato al raggiungimento delle necessarie condizioni di sicurezza (non fornire scadenze diversamente da quanto fatto da Obama) - il dispiegamento di 3900 uomini, che si aggiungono ai circa 7000 soldati americani già stanziati in Afghanistan (rimilitarizzazione della presenza) - nuove pressioni sul Pakistan, accusato di sostenere i talebani. In questa strategia appare non esserci spazio per un’apertura ai Talebani, con i quali Trump non intende dialogare. Inoltre, un altro elemento per ora non riscontrabile nell’agenda americana è il processo di nation building del paese. L’obiettivo principale degli Usa rimane quello di evitare che l’Afghanistan possa divenire un santuario per il jihadismo. Proprio in virtù di tale motivazione, gli Stati Uniti da un anno a questa parte hanno incrementato le loro operazioni di counter terrorism contro i militanti islamici di IS-K. Nell’aprile 2017 le forze aeree americane hanno sganciato la “Madre di tutte le bombe”, ossia la bomba GBU-43 (l’ordigno non nucleare più potente dell’arsenale militare) su un complesso di caverne utilizzato dall’IS nella provincia orientale del Nangarhar. Nel giugno dello stesso anno, il Pentagono ha annunciato l’uccisione di Abu Sayed, leader dello Stato Islamico in Afghanistan. Nei mesi successivi sono continuati i raid contro gli esponenti di IS-K con esiti sostanzialmente positivi. Il gruppo terroristico ha subito una serie di battute d’arresto, specialmente nella regione, nonché sua roccaforte, del Nangarhar. Qui, diversi distretti allora sottoposti al dominio dello Stato Islamico, sono ritornati sotto il controllo dell’autorità statuale. Ora, stando alle dichiarazioni dei vertici militari statunitensi in Afghanistan, il numero dei combattenti dell’IS è drasticamente diminuito rispetto al 2015. Inoltre, risale a qualche settimana fa la notizia dell’uccisione di un altro membro di spicco della galassia jihadista afghana: Qari Hekmatullah. Egli dopo essere stato espulso dai Talebani, era divenuto uno delle figure chiave della filiale locale di IS e operava principalmente nel nord dell’Afghanistan. La sua morte, secondo il Gen. John Nicholson (comandante delle truppe Usa nello stato afghano), può costituire un duro colpo per l’organizzazione terroristica.

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