Gli scontri arabo-israeliani

10 giorni di tensione

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  Chiara Calabria
  04 June 2021
  4 minutes, 19 seconds

La questione israelo-palestinese ha radici profonde. Nonostante l’origine di vecchia data della crisi, siamo tornati ad assistere a un’escalation di tensione. Nell’ultimo decennio questo conflitto è stato oscurato da altri sconvolgimenti che hanno interessato la regione mediorientale e in particolar modo Iran, Yemen e Siria. Mentre l’attenzione dei leader regionali e internazionali è stata rivolta altrove, diverse dinamiche sono confluite ad aggravare drammaticamente una crisi umanitaria.

UN CONFLITTO STORICO

Nel 1947 una decisione della Società delle Nazioni (ONU), giunta dopo la fine del mandato britannico, prevedeva la spartizione dell’allora territorio palestinese: uno Stato arabo e uno ebraico. La divisione fu accettata dal sorgente Stato d’Israele, ma non dai Paesi arabi: dal disaccordo scaturì una guerra d’indipendenza, che portò Israele a proclamarsi Stato e all’esodo di oltre 700.000 arabi palestinesi. La guerra dei sei giorni nel giugno 1967 permise alle forze militari israeliane di occupare Gaza e tutto il territorio della Cisgiordania. Quella che fu inizialmente definita un’operazione di difesa si trasformò quindi in un’operazione di occupazione, in quanto, al termine del conflitto, i territori non vennero restituiti; da quel momento iniziarono a ergersi insediamenti coloniali sempre più cospicui. Una tappa decisamente importante è rappresentata dagli accordi di Oslo del 1993, che definirono la creazione di due popoli e due Stati. Il trattato di pace, che prevedeva un mutuo riconoscimento e un graduale ristabilimento dei rapporti, subì numerose interruzioni che portarono gli accordi al fallimento.

LEGGE SULLO STATO NAZIONE

Nel 2018 il parlamento israeliano ha approvato la legge sullo stato nazione che definisce il Paese come “la casa nazionale del popolo ebraico”, dichiarando “Gerusalemme unita” come capitale e individuando lo sviluppo degli insediamenti ebraici come valore nazionale. Questa legge rappresenta non solo una dimostrazione di forza di Israele, ma anche una radicata realtà di apartheid, che discrimina legalmente i cittadini arabi di Israele e le altre minoranze.

IL PICCO DELLE TENSIONI

La violenza a cui abbiamo assistito in queste settimane è quindi da inserire in un più ampio contesto politico e sociale. Diversi eventi hanno riacceso la miccia, ad esempio la controversa gestione della sicurezza nei primi e ultimi giorni del mese di Ramadan da parte della polizia di Gerusalemme, la quale ha impedito l’accesso a chi voleva festeggiare intorno alla Porta di Damasco – luogo simbolico della città – dando così inizio alle tensioni.

SHEIKH JARRAH E IL JERUSALEM DAY

Gli sfratti dei palestinesi riguardano invece il quartiere (a maggioranza araba) di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, dove ci sono case che dall’Ottocento sono di proprietà ebraica. Nel 1948 la Giordania occupò il territorio e requisì queste abitazioni, che nel 1956 vennero donate ai palestinesi (in quanto rifugiati) con una decisione condivisa dall’ONU. La giustizia israeliana – che prevede un “diritto di ritorno” per gli ebrei, non per i palestinesi – avrebbe dovuto sentenziare sulla proprietà di queste abitazioni, tuttavia ha rimandato l’udienza. Il quartiere è divenuto teatro di proteste che si sono poi estese e hanno visto l’intervento dei militari israeliani.

A infiammare ulteriormente la situazione è stata la celebrazione annuale del Jerusalem Day, un evento che gli israeliani nazionalisti festeggiano come il giorno della “riunificazione” di Gerusalemme durante la guerra dei sei giorni; onorano sostanzialmente un momento grave nella storia palestinese che è l’occupazione militare israeliana.

LE VITTIME

Questi ultimi tasselli, uniti a quelli del passato, hanno creato un mosaico a dir poco drammatico e devastante. In mezzo a queste tensioni si è fatto avanti Hamas, un gruppo politico terrorista palestinese che ha iniziato a lanciare razzi dalla Striscia di Gaza e ha ricevuto in risposta da Israele bombardamenti continui. I dati aggiornati al 19 maggio contano almeno 232 morti palestinesi, di cui 63 sono bambini, e 12 israeliani, di cui solo 2 bambini. Hamas ha certamente visto un progresso militare rispetto ai violenti scontri del 2014, non paragonabile però alla potenza tecnologica di Israele, la quale ha permesso al primo ministro Netanyahu di difendersi con l’Iron Dome, un sistema di missili che colpiscono e distruggono i razzi lanciati dal nemico.

L’ATTENZIONE INTERNAZIONALE

Il cessate-il-fuoco è arrivato dopo 10 giorni di violenze. Si tratta però di un accordo limitato che ha caratterizzato tutti i precedenti scontri israelo-palestinesi. Questa sospensione è stata raggiunta anche grazie al dialogo con l’Egitto, che si è posto come mediatore tra Israele e Hamas.

Il rischio a cui ora si va incontro sul piano internazionale è quello di dimenticare nuovamente la questione palestinese e le ostilità che questi vicini di casa devono vivere ogni giorno. Se sono sospesi momentaneamente i missili, non lo sono sicuramente il razzismo e la tensione che hanno avuto sfogo in questi 10 giorni. Le cosiddette città miste in cui convivono ebrei e arabi sono numerose, e sono il luogo in cui gli scontri violenti tra civili scattano più rapidamente. La crisi non è terminata, è solo entrata in una nuova fase che non può restare alle spalle della comunità internazionale.

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L'Autore

Chiara Calabria

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Israele Palestina Gerusalemme Medio Oriente