Iran, anatomia di una crisi

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  Rocco Salvadori
  28 April 2023
  6 minutes, 26 seconds

L’Iran è realtà intricata e paradossale. Lontano discendente dello splendore achemenide, ne custodisce gelosamente l’eredità. Il collocamento geografico ne ha propiziato le fortune e agevolato le sciagure, contribuendo a plasmarne l’identità. È una nazione figlia della commistione tra l’antica tradizione persiana e le influenze giunte dall’esterno, recepite in oltre due millenni di scontri ed incroci con le genti straniere. Non per questo, però, meno fiera e patriottica. Al suo interno convivono profonde contraddizioni che ne lacerano il tessuto sociale e ne infiammano le piazze. La recente ondata di proteste, divampate in seguito alla morte della giovane Mahsa Amini, è soltanto l’ultimo capitolo di una lunga narrazione. Eppure, stavolta ha catturato l’attenzione dell’Occidente più che in altre occasioni, appassionando le opinioni pubbliche nostrane e incontrandone il sostegno morale. Ciò dipende dalla diffusa sensazione che le donne iraniane stiano affrontando una sfida d’ispirazione occidua, un arrangiamento in chiave persiana della nostra gender equality. Tuttavia, per comprenderne la natura recondita, è necessario correggere la prospettiva, sfuggire alla tentazione di indossare lenti occidentali per osservare un fenomeno che ha ragioni e impulsi lontani.

Per alcuni mesi il regime teocratico è apparso vacillante sotto la spinta delle agitazioni popolari. Stando alla lettura degli osservatori occidentali, le rivolte che dallo scorso settembre imperversano sul territorio iraniano avrebbero propulsione monocausale. Di certo, è innegabile come le rivendicazioni femminili, istigate dalla morte di Mahsa Amini, occupino un’ampia porzione del dibattito. Tuttavia sarebbe impreciso ritrarre l’intero movimento come una crociata per l’uguaglianza di genere. L’ondata di dissenso riflette, piuttosto, una più generale collisione tra le élite spirituali e le giovani generazioni dei ceti urbani, insofferenti e intolleranti verso i rigidi precetti religiosi. E ancora, a questi si aggiungono impulsi di varia natura, spesso persino confliggenti tra loro, accomunati soltanto dall’insoddisfazione per l’operato della reggenza teocratica. Così, al fianco dei giovani progressisti, nelle piazze di tutto il Paese si sono riversati anche gruppi malagiati delle periferie, cittadini stremati dalle politiche economiche insostenibili, minoranze etniche desiderose di ritagliarsi uno spazio maggiore in società. Non può essere un caso che, sebbene i decessi sospetti di studentesse iraniane abbiano interessato tutto il territorio nazionale, le proteste si siano concentrate nelle zone di frontiera, ove risiedono gran parte delle minoranze emarginate. Pur mossi dalla medesima delusione per il portato della rivoluzione khomeinista, i contestatori propugnano alternative discordanti. Le aspirazioni ‘reazionarie’ di coloro che rammentano con nostalgia la grandeur dell’Impero achemenide e le ricette riformiste di chi auspica uno stato laico e moderno si fondono in una lotta unica, carica di fervore ma priva di prospettive comuni. Tra le mille pulsioni che muovono la folla, i diritti delle donne hanno avuto particolare risalto nel dibattito pubblico in seno alle democrazie occidentali, spesso presi per unico movente. Ciò avviene senza dolo, per un semplice fatto di decifrabilità e vicinanza. Agli occhi di un osservatore esterno, le vicende d’Iran sono generalmente difficili da comprendere a fondo e raramente accettabili, se estrapolate dal contesto. Ecco, la battaglia per l’uguaglianza di genere è quanto di più familiare v’è per il paradigma culturale d’Occidente. Persino troppo, considerata la superficiale tendenza ad omologare le rivendicazioni delle donne iraniane ai canoni occidui del fenomeno. Quasi come se aspirassero ad ‘occidentalizzarsi’. Per non cedere a parallelismi sbrigativi, si rende necessario fare intima conoscenza della forma mentis persiana.

La cultura strategica dell’Iran moderno, fiero erede del Primo Impero, è fortemente condizionata da una storia di occupazioni e scorribande. Le civiltà persiane che, a fasi alterne, hanno imposto il proprio dominio sull’altopiano iranico sono state vittime di invasioni ‘barbare’ – nel senso di straniere – che ne hanno puntualmente decretato il tramonto. A partire dall’impresa di Alessandro Magno che pose fine alla gloriosa stirpe achemenide, quella terra si è vista governata da dinastie elleniche, arabe, mongole, turche, azere, fino alla dominazione imperiale di russi e britannici. Il risultato è un mosaico di contaminazioni culturali di cui oggi si compone l’identità iraniana. Oltre ad un evidente impatto sulla composizione etnica, sull’evoluzione della lingua e sulla fede religiosa, il suo trascorso da ‘potenza occupata’ ne ha orientato il pensiero strategico in senso autarchico. La diffusa avversione all’intervento e al dominio straniero, frutto della millenaria esperienza, ha ispirato un assioma dell’approccio iraniano alle relazioni internazionali: autonomia e resistenza. Specialmente in epoca post-rivoluzionaria, Teheran ha perseguito una politica estera votata all’indipendenza economica e strategica, ergendosi a paladino del mondo islamico contro l’imperialismo occidentale. Gli interventi militari di Washington in Medio Oriente, fonte di grande instabilità nella regione, non hanno fatto che esacerbare il locale sentimento anti-americano. Anche attraverso un controverso programma nucleare, l’Iran difende la propria postura di potenza non-allineata, più che mai radicata nell’immaginario collettivo.

Paese a vocazione nazionalista e anti-imperialista, potenza regionale che può aspirare a farsi perno di un blocco alternativo, Teheran si stampa sulla scena internazionale come quanto di più contrapposto all’Occidente. Nel frattempo, proprio in Occidente, di fronte alle agitazioni in terra persiana, ci si illude che gli iraniani vogliano diventare ‘occidentali’. Le sacrosante rivendicazioni delle donne iraniane vengono spesso interpretate, per comodo o per pigrizia, come un tentativo di conformarsi al nostro sistema di valori. Nel gennaio 2020, il popolo iraniano si rese protagonista di dimostrazioni oceaniche contro il raid americano all’aeroporto di Baghdad, seguite da una partecipazione plurimilionaria ai funerali del generale Soleimani, entrambi sintomi di straordinario patriottismo e feroce opposizione all’avventurismo statunitense. Oggi, soltanto tre anni dopo, non è pensabile che una nazione intera si sia destata con l’intento di concedersi all’influsso del ‘nemico’. Piuttosto, si deve prendere in esame il fenomeno insurrezionale in quanto manifestazione di una sistemica fragilità della Repubblica Islamica. In sei mesi di conflitto intestino, l’autorità religiosa ha dimostrato di possedere i mezzi per sedare le sommosse, pur dando prova di non averne il diretto controllo. Difatti, l’assetto istituzionale iraniano risulta particolarmente frammentato, con molteplici centri di potere autonomi che competono per estendere la propria influenza sul Paese. L’apparato governativo del regime è debole, incapace di vigilare sulle attività delle proprie istituzioni. E mentre una revisione dell’assetto pare inevitabile, l’assenza di una designazione per la successione ad Ali Khamenei alimenta le paranoie dei vertici teocratici. Intanto, il resto del mondo se ne sta alla finestra, in attesa di apprezzare le prospettive della crisi e i risvolti geopolitici.

L’Iran è una grande potenza regionale, per ragioni di carattere storico, geografico, militare, economico e culturale. La proiezione della sua influenza nel Vicino Oriente si regge su una solida rete di client states, oltre che su azioni di guerra asimmetrica perpetrate tramite il sostegno a milizie irregolari. In questo modo, il regime iraniano mantiene un’influenza pervasiva sulle maggiori crisi della regione, come Siria, Libano e Yemen. Allo stesso tempo, Teheran esercita un ruolo centrale anche nel mercato energetico mondiale. Ne consegue che un turbamento nell’ordine interno della Repubblica Islamica, non soltanto altererebbe l’equilibrio geopolitico della regione, ma avrebbe conseguenze significative per l’economia e la sicurezza globali.

In definitiva, capire l’Iran, le sue anime e le sue verità nascoste è necessario per non dare un taglio eccessivamente eurocentrico all’interpretazione delle sue pulsioni. Un paese in cui imperversano venti di trasformazione, ma che non ha intenzione di guardare ad Occidente e rinnegare sé stesso. Una nazione che presenta il conto ad un regime quarantennale, la cui stabilità appare minata dalla sua stessa architettura istituzionale, eccessivamente frammentata. E la comunità internazionale resta in osservazione, consapevole che un mutamento a Teheran avrebbe il potenziale di scuotere l’equilibrio dello scacchiere internazionale.

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Rocco Salvadori

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