La lenta parabola discendente delle relazioni tra Biden e Netanyahu

Come ci stiamo avvicinando al divorzio più importante della geopolitica odierna

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  Lorenzo Graziani
  10 April 2024
  6 minutes, 25 seconds

Quando la proposta degli Stati Uniti in seno alle Nazioni Unite, cioè quella di vincolare il cessate a fuoco a Gaza con il rilascio immediato degli ostaggi israeliani, è stata bloccata dal diritto di veto invocato da Russia e Cina, oltre che dal voto contrario dell’Algeria, si era pensato che il “favore” sarebbe stato ricambiato quando i dieci membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza avevano avanzato una mozione nuova, diversa. Ma così non è stato.

I dieci membri non permanenti hanno infatti richiesto sia un immediato cessate il fuoco, oltre ad un aumento dell’invio di aiuti umanitari e viveri, sia la liberazione degli ostaggi a Gaza, ma senza legare le due richieste. Questa decisione è stata motivata sostenendo che collegare il cessate il fuoco ad una qualunque richiesta aggiuntiva avrebbe dato con estrema facilità una giustificazione per perpetrare l’azione militare a Gaza da parte del governo israeliano, come ad esempio nel caso in cui Hamas avesse rifiutato di rilasciarne gli ostaggi.

Nonostante l’insistenza dei diplomatici americani, convinti della necessità di vincolare le due richieste; forse anche a seguito dell’allontanamento dell’alleato inglese, non più disposto a tollerare il comportamento del Primo Ministro israeliano; quando la risoluzione è stata messa ai voti al Consiglio di Sicurezza, gli Stati Uniti hanno preso la decisione di astenersi.

Il 25 marzo la risoluzione è dunque passata, accolta da uno scroscio di applausi piovuti dalle sedie del Consiglio di Sicurezza e dalle parole dell’inviato palestinese alle Nazioni Unite, Riyad Mansour, che ha descritto la decisione come un “tardivo voto per la vittoria dell’umanità”, dichiarando poi: “questo deve essere un punto di svolta. Questo deve portare al salvataggio di innumerevoli vite. Le nostre scuse verso quelli che il mondo non ha potuto aiutare, verso quelli che sarebbero potuti essere salvati ma non lo sono stati”.

D’altro canto, la risposta israeliana non si è fatta attendere ed è stata dura e forte, con Ron Dermer, Ministro degli Affari Strategici, che ha puntato il dito verso “tutti i paesi che stanno voltando le spalle a Israele e che ricorderanno con vergogna questo momento”. “Dopo tutte le dichiarazioni in favore del popolo ebraico quando siamo stati vittime” ha aggiunto “ci abbandonate ora, a pochi passi dalla nostra vittoria contro una forza terroristica genocida? Vergognoso”.

Una reazione altrettanto forte è arrivata dal Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha subito cancellato il viaggio che il suo staff avrebbe dovuto intraprendere per andare a Washington proprio per discutere delle modalità dell’offensiva a Rafah, decisione per la quale la Casa Bianca si è detta molto “delusa”, e si è rivolto al suo alleato Biden accusandolo di aver “danneggiato entrambi gli sforzi di vincere la guerra e di portare in salvo gli ostaggi”.

E quindi Biden? Come ha reagito all’accusa di aver stravolto la politica estera del suo paese con la decisione presa al Consiglio di Sicurezza? Come si è comportato davanti al rischio di rovinare i rapporti con un paese che per tanti anni è stato alleato degli Stati Uniti d’America? Il Presidente americano ha cercato di muoversi con estrema cautela, sostanzialmente offuscando l’importanza della risoluzione ONU.

Biden ha infatti fin da subito sostenuto che l’astensione alle Nazioni Unite non avesse in alcun modo variato la politica di Washington nei riguardi della guerra nella Striscia di Gaza; argomentazione per altro rafforzata sia dai diplomatici statunitensi, che si sono scontrati con i cugini britannici per aver evidenziato la natura non vincolante della risoluzione, sia dal portavoce della Casa Bianca, John Kirby, che ha confermato che il voto americano all’ONU non ne ha in alcun modo alterato la politica estera.

A riconferma delle parole di Biden e Kirby, a fine marzo alcune fonti interne agli ambienti militari americani hanno riportato la notizia che, a seguito della visita del Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant a Washington, l’amministrazione Biden avesse autorizzato il trasferimento verso Israele di miliardi di dollari di bombe MK-84, già utilizzate dalle forze israeliane durante la guerra a Gaza, e di jet militari.

Come ci si potrebbe aspettare, l’opinione pubblica americana è rimasta sconvolta dalla notizia: in molti hanno cominciato a chiedersi come fosse possibile che, anche mentre Washington esprimeva pubblicamente i timori verso l’offensiva militare a Rafah e sempre più democratici avessero cominciato a chiedere un taglio degli aiuti militari verso Israele, questi ultimi non fossero ancora legati ad un progetto, o quanto meno a delle rassicurazioni, riguardo la protezione dei civili palestinesi.

La situazione è però rapidamente cambiata il primo aprile, quando, a seguito di un attacco drone israeliano che ha portato alla morte di sette volontari della World Central Kitchen, un’organizzazione senza scopo di lucro dedicata a rifornire di pasti caldi le popolazioni di tutto il mondo che si ritrovino in situazioni di carestia, l’organizzazione stessa ha preso la decisione di sospendere le missioni umanitarie a Gaza e di intraprendere un’investigazione privata per cercare di comprendere al meglio le dinamiche di quello che è stato definito dal governo di Netanyahu un “incidente”. “Questo è stato un attacco militare”, è stato dichiarato in uno statement della WCK, “che comprende diversi bombardamenti e ha preso ad obiettivo tre veicoli della WCK. Tutti e tre i veicoli stavano trasportando civili, erano marchiati con il logo dell’organizzazione e i loro movimenti erano in completo accordo con le autorità israeliane, che erano a conoscenza del loro itinerario, della loro destinazione e della missione umanitaria”.

La vicenda ha suscitato un forte scalpore e una profonda tristezza nell’opinione pubblica e nella sfera politica internazionale, attivando la complessa macchina diplomatica del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che ha cominciato a prendere in considerazione la possibilità di richiedere un embargo d’armi verso Israele. La proposta ha preso corpo in un testo presentato dal Pakistan, nel quale viene condannato “l’uso di armi esplosive con effetti su larga scala”, viene demandata ad Israele la responsabilità di prevenire un genocidio e viene infine richiesto agli altri stati di smettere di vendere e trasferire armi e munizioni verso il governo di Netanyahu.

A seguito dell’inasprimento dell’opinione pubblica nei confronti di Israele e della sua lenta discesa in un baratro di sostanziale isolazionismo internazionale, il 4 aprile, a seguito di una telefonata di neanche mezz’ora tra Biden e Netanyahu, si è andata a creare la prima vera svolta della politica americana verso l’alleato arabo dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza. Durante quello che è stato il primo contatto diretto tra le due massime cariche successivo alla tragedia della WCK, Biden ha dichiarato che i futuri aiuti militari americani saranno indissolubilmente legati alla presa di decisioni concrete da parte del governo israeliano volte alla difesa dei civili palestinesi e a quella dei volontari umanitari.

Secondo quanto dichiarato dalla Casa Bianca, il Presidente americano ha sottolineato l’importanza essenziale di un immediato cessate il fuoco e del raggiungimento di un accordo con Hamas “senza ritardi” e ha reso chiara la “necessità per Israele di annunciare e implementare una serie di passi specifici, concreti e qualificabili per affrontare i danni civili, le sofferenze umanitarie e la sicurezza degli operatori internazionali”.

Il brusco U-turn di Biden è stato infine concretizzato dalle parole del Segretario di Stato americano Antony Blinken, che ha confermato ai microfoni di alcuni giornalisti a Bruxelles che il supporto americano riceverà un’importante taglio nel caso in cui Israele dovesse fallire nel prendere determinate decisioni: “se non noteremo cambiamenti in quello che vediamo, ci saranno cambiamenti nella nostra politica”.

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Lorenzo Graziani

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