La schiavitù moderna in Arabia Saudita

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  Redazione
  29 March 2021
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Nel 1962 l’Arabia Saudita, grazie alle pressioni internazionali, rende illegale la schiavitù. Di lì a breve, viene abolita anche in Qatar, Yemen, Emirati Arabi Uniti e infine in Oman nel 1970. Tuttavia, ancora oggi esiste una forma più moderna e sottile di schiavitù. Si annida sotto la superficie della legalità sfruttando un sistema di regolamentazione del lavoro dei migranti che li espone a sfruttamento e abusi, trasformandoli spesso in veri e propri schiavi di ricchi imprenditori o comuni cittadini. Il suo nome è kafala.

Il sistema della kafala si diffonde tra gli anni ’50 e ’70 del XX secolo in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Quatar, Kuwait, Barehim e Oman, in minor misura anche in Giordania e Libano. Lo sviluppo del settore petrolifero porta ad una crescita economica rapida e senza precedenti, che attira un’enorme quantità di manodopera straniera. La costante domanda di lavoratori immigrati consente alla kafala di affermarsi definitivamente come legge regolatrice del loro ingresso e della loro permanenza nel Paese.

Il termine deriva dalla radice araba “k-f-l” che può significare “provvedere”, “essere responsabile”, “essere il guardiano legale”. Esso prevede che allo sponsor (o kafeel) vengano concessi dallo Stato gli strumenti legali per controllare il lavoratore straniero. Per entrare nel Paese di destinazione, infatti, il lavoratore deve essere sponsorizzato da un datore di lavoro a cui rimanere legato durante tutta la sua permanenza. La kafala consente ai governi di delegare ogni responsabilità e di far ricadere sul datore di lavoro le competenze aventi ad oggetto ogni aspetto della vita del dipendente: dal permesso di ingresso al rinnovo del visto di lavoro, dalla cessazione del rapporto al trasferimento ad un altro datore di lavoro, fino alla concessione o meno del permesso di uscire dal Paese. Tutto è controllato dallo sponsor.

Per le sue caratteristiche, il sistema determina un enorme sbilanciamento di poteri in favore dei datori di lavoro, dando così origine a diverse forme di abuso ai danni dei lavoratori, fino a ridurli in quella che si rivela essere a tutti gli effetti una “schiavitù legalizzata”.

In questa situazione, diventa estremamente difficile denunciare qualsiasi tipo di abuso. Il conflitto con il proprio datore di lavoro può infatti comportare una cancellazione del visto o addirittura una deportazione, dal momento che spesso perfino il passaporto del lavoratore viene requisito al suo arrivo. Lo stato di coercizione viene acuito e, al tempo stesso, permesso da un vuoto legislativo riguardo la tutela dei diritti degli immigrati, che si trovano completamente dipendenti dallo sponsor che li ha reclutati. Gli abusi commessi verso la manodopera impiegata in Arabia Saudita rappresentano una grave violazione dei diritti umani, che viene però ignorata dalla giustizia saudita.

I casi emblematici di questo preoccupante fenomeno, rilevati e documentati da Human Rights Watch, non sono pochi. Ne è un esempio Ksuma Nandina, una donna originaria dello Ski Lanka, costretta a lavorare per anni senza salario e senza contatti con il mondo esterno e con la propria famiglia. Ne sono un esempio le migliaia di donne partite nel 2015 dal Bangladesh, in seguito ad un accordo internazionale, per prestare servizio come lavoratrici domestiche in Arabia Saudita. Al loro arrivo, molte di loro sono state ridotte in schiavitù e costrette a subire abusi dai propri datori di lavoro. Le cinquemila che riusciranno a fuggire racconteranno di salari non corrisposti, passaporti requisiti, sequestri, pene corporali e abusi sessuali.

Questo caso dipinge purtroppo una realtà diffusissima in Arabia Saudita. Senza garanzie legali, senza ricevere il proprio stipendio, sfruttati in termini di orari e mansioni e privati della libertà di movimento, migliaia di uomini e donne provenienti da Africa e Asia sono intrappolati nelle maglie di una prassi lavorativa attuata con garanzie di impunità, nonostante tale situazione sia stata ormai portata all’attenzione del mondo intero.

In seguito a ripetute denunce a livello internazionale e alle inchieste portate davanti all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), qualcosa si è fortunatamente mosso. I Paesi che adottano la kafala hanno avviato alcune riforme per limitare il potere degli sponsor e prevenire lo sfruttamento. Lo scorso 13 marzo 2021 in Oman è entrata in vigore una nuova legge che introduce per la prima volta il salario minimo per i lavoratori immigrati nel paese. In Arabia Saudita grazie a delle riforme recenti i lavoratori stranieri possono finalmente cambiare occupazione e viaggiare all’estero senza il permesso dei propri datori di lavoro. Dei primi passi avanti che però non debellano del tutto un sistema che continua a consentire gravissime violazioni dei diritti dell’uomo e del lavoratore. Un sistema caratterizzato dalla mancanza di leggi adeguate che si nasconde dietro la maschera della burocrazia ma che ha un solo nome: schiavitù.


a cura di Chiara Landolfo 

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