Politica estera americana in Medio Oriente: tra continuità e svolte

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  Redazione
  13 March 2024
  12 minutes, 21 seconds

A cura del Dott. Pierpaolo Piras, studioso di Geopolitica e componente del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS

Nel suo discorso sullo stato dell'Unione del 1980, che arrivò sulla scia degli shock petroliferi del 1973 e del 1979, il presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, descrisse in termini gravi i rischi di perdere l'accesso al petrolio mediorientale. "Un tentativo da parte di qualsiasi forza esterna di ottenere il controllo della regione del Golfo Persico sarà considerato come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti d'America", così disse. E aggiunse: "Un tale assalto sarà respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare".

Quell'impegno divenne noto a tutti i politici e agli analisti di geopolitica col termine celebre della “Dottrina Carter”, che da allora è rimasta una caratteristica distintiva della politica mediorientale degli Stati Uniti.

Al momento della dichiarazione di Carter, gli Stati Uniti facevano molto affidamento sulle importazioni di petrolio per alimentare la loro economia, e il 29% di quel petrolio proveniva dal Golfo Persico. Anche due decenni dopo, poco era cambiato: nel 2001, gli Stati Uniti importavano ancora il 29% del loro petrolio dal Golfo. Ma non è più il 1980 o il 2001. Oggi, gli Stati Uniti producono tanto petrolio quanto ne ricavano dall'estero, e solo il 13% proviene dai paesi del Golfo.

Il dato geopolitico rilevante è quello che oggi gli Stati Uniti importano più petrolio dal Messico che dall'Arabia Saudita. Eppure, anche se la logica guida per la cosiddetta dottrina Carter diventata oggi obsoleta, continua tuttavia a plasmare l'approccio degli Stati Uniti al Golfo, emblematico di un più ampio fallimento della politica statunitense per mettersi al passo con i più ampi cambiamenti degli interessi statunitensi nella regione dal 1980.

Il presidente attuale, Joe Biden, dovrebbe riconoscere nuove realtà e ripristinare le relazioni degli Stati Uniti nel Golfo in un modo che promuova i valori americani, tenendo Washington al di fuori da inutili coinvolgimenti stranieri e dando priorità ai processi di pace e alla stabilità politica regionale.

Le relazioni

Ci sono una miriade di ragioni per stabilire forti relazioni tra gli Stati Uniti e i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC): Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Le decisioni del Bahrein e degli Emirati Arabi Uniti di stabilire legami formali con Israele sono un chiaro segno dell'influenza positiva che questi paesi possono esercitare. Kuwait e Oman svolgono un ruolo importante nella mediazione dei conflitti regionali.

Le partnership antiterrorismo degli Stati Uniti con i paesi del GCC, sebbene spesso imperfette, sono ancora cruciali, poiché questi governi hanno spesso informazioni sulle reti estremiste che l'intelligence statunitense non può raccogliere da sola.

E gli Stati Uniti stanno ampliando i loro legami interpersonali con la regione: oggi, decine di migliaia di studenti del Golfo studiano nei college e nelle università statunitensi. Di conseguenza, gli Stati Uniti devono chiarire agli alleati del Golfo che il loro obiettivo non è quello di allontanarsi dalla regione, ma piuttosto quello di creare un legame più sostanziale e stabile tra gli Stati Uniti e il CCG. Ma è giunto il momento di ammettere che c'è un difetto centrale nell'attuale approccio degli Stati Uniti al Golfo: le due principali priorità del GCC per questa relazione – sostenere l'assistenza militare degli Stati Uniti per combattere le guerre per procura regionali e mantenere il silenzio degli Stati Uniti sulla repressione politica interna – distruggeranno, a lungo termine, gli stessi paesi del GCC.

L'obiettivo degli Stati Uniti deve essere quello di sostituire queste fragili fondamenta con un nuovo sistema relazionale capace di supportare un Golfo in gran parte pacificato, pieno di economie nazionali stabili e diversificate e governi reattivi. Il tipo di futuro che i leader come il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, sostengono fermamente che il Golfo stia davvero cercando.

Le partnership USA-Golfo costruite su legami economici, diplomatici e di governance, piuttosto che su partnership di sicurezza imbruttite da certi episodi, serviranno meglio e maggiormente gli interessi degli Stati Uniti e del Medio Oriente.

Evitare le guerre per procura

Il primo passo deve essere per gli Stati Uniti il proprio disimpegno dalle guerre per procura del GCC con l'Iran. Il governo iraniano si pone come un avversario degli Stati Uniti, ma la serie di conflitti caldi e freddi nella regione – in Iraq, Libano, Siria e Yemen – è semplicemente servita finora a rafforzare l'influenza dell'Iran e creare livelli catastrofici di sofferenza umana a carico delle popolazioni civili locali.

Un ritiro dall'intervento degli Stati Uniti in luoghi come la Siria e lo Yemen causerebbe, senza dubbio, costernazione immediata nel Golfo. Ormai, tuttavia, gli enormi costi della falsa convinzione che gli Stati Uniti possano indirettamente guidare i risultati politici in Siria e Yemen sono chiarissimi.

In entrambi i teatri, il tiepido coinvolgimento militare degli Stati Uniti non è mai stato abbastanza sostanziale da far pendere dalla propria parte l'ago della bilancia ed ha facilitato indirettamente, invece, l’estensione dei conflitti locali.

Washington mostra fiducia un bel po’ arrogante nella sua capacità di raggiungere obiettivi politici attraverso interventi militari. Mentre invece, l'effetto più significativo è stato quello di alimentare guerre perpetue che collateralmente incoraggiano i gruppi estremisti e permettono al sentimento anti-americano e antioccidentale di diffondersi e crescere.

E' giunto il momento di ammettere che c'è un difetto centrale nell'attuale approccio degli Stati Uniti al Golfo.

Sebbene gli Stati Uniti dovrebbero mantenere le loro partnership di sicurezza con le nazioni del Golfo, l'impronta degli Stati Uniti dovrebbe essere più piccola.

Prima della guerra del Golfo, gli Stati Uniti erano in grado di proteggere i loro interessi nella regione senza impiegare le massicce basi militari in Bahrain, Kuwait, Qatar e Arabia Saudita e senza miliardi di dollari di vendite annuali di armi a queste stesse nazioni.

La comunità di politica estera a Washington agisce come se questa massiccia presenza militare fosse ora obbligatoria per proteggere gli interessi degli Stati Uniti, anche se non lo era prima della creazione dello stato di sicurezza post-9/11.

Le basi statunitensi sono costose, e creano pressioni sugli Stati Uniti affinché ignorino le gravi violazioni dei diritti umani per timore che le critiche mettano a rischio la presenza delle truppe; e si distinguono come obiettivi militari per la propaganda ostile dell'Iran, al Qaeda e lo Stato islamico (o ISIS).

Riconsiderare i costi e i benefici della base della Quinta Flotta in Bahrain sarebbe un buon inizio, poiché l'enorme impronta degli Stati Uniti sta diventando più problematica del solito.

Infine, gli Stati Uniti dovrebbero continuare a vendere con oculatezza attrezzature militari ai loro partner privilegiando gli armamenti a carattere più marcatamente difensivo.

Mentre si ritira su sistemi con capacità più offensive, gli Stati Uniti dovrebbero ancora essere disposti a fornire armi difensive più avanzate, come la tecnologia missilistica “Terminal High-Altitude Area Defense” (THAAD), che si adattano alle reali minacce verso la sicurezza del Golfo.

Se Washington compie questi atti, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti saranno legittimati a lamentarsi inevitabilmente che gli Stati Uniti li stanno abbandonando e rafforzando l'Iran.

Il compito dell'amministrazione Biden sarà quello di convincerli che esiste un'alternativa a una competizione militare senza fine con Teheran.

Un sistema, anche nel riserbo diplomatico, di dialogo sulla sicurezza regionale che includa tutti i protagonisti del golfo può sostituire la corsa agli armamenti e/o le guerre per procura.

Ad una visione superficiale, può sembrare una fantasia utopica, ma è tutt'altro. I germogli verdi e promettenti di questo dialogo si sono dimostrati per anni, e l'abile leadership degli Stati Uniti, applicando la tecnica del bastone e carota, può iniziare a creare un’attiva struttura diplomatica intesa alla distensione tra le parti.

E sebbene gli Stati Uniti non dovrebbero dare agli Emirati o ai sauditi il potere di veto su un accordo nucleare bilaterale con l'Iran, un dialogo regionale, anche di livello medio, legherebbe i paesi del Golfo più vicini agli Stati Uniti sulla politica iraniana e probabilmente darebbe al GCC un maggiore contributo visto anche come un investimento su qualsiasi futuro accordo che Washington vorrà fare.

Test di de-escalation

L'amministrazione Biden è nella posizione migliore per testare la preparazione della regione a questo tipo di de-escalation iniziando dallo Yemen.

I pezzi che mancavano – una pressione diplomatica significativa e un interlocutore dotato di un minimo di credibilità – si stanno ora spostando di posizione mentre l'amministrazione Biden pone fine al sostegno degli Stati Uniti alle operazioni offensive israeliane e nomina un nuovo inviato speciale per sostenere il processo di pace delle Nazioni Unite.

Oggi, gli Stati Uniti sono l'unica nazione che può agire in avanti d’iniziativa. Se Washington riuscirà a trovare un percorso proficuo a favore della pace nello Yemen, laddove un governo yemenita post-Hadi inclusivo possa coesistere con i leader Houthi con un programma condiviso, mentre d’altro lato il paese ha la possibilità di ricostruirsi con consistenti finanziamenti internazionali, potrebbe essere la prova concreta di questo concetto progettuale per un dialogo finale ancora più ampio e completo.

La de-escalation dovrebbe essere estremamente attraente per i partner del Golfo degli Stati Uniti. L’odierno calo delle entrate petrolifere comporta che queste nazioni dovranno presto fare scelte difficili tra investire in riforme economiche e combattere guerre in paesi stranieri.

Dati questi conflitti persistenti e il soffocante controllo statale delle economie locali, l’attrazione di investimenti stranieri significativi nella regione equivale in buona parte ad una pura ed utopistica fantasia.

Per gli Stati Uniti, la diminuzione delle tensioni tra il Golfo e l'Iran potrebbe portare un altro vantaggio: meno incentivi per l’ interesse per i paesi del Golfo a voler diffondere l'Islam radicale wahhabita in tutto il mondo musulmano.

Questo tipo ultraconservatore e intollerante dell'Islam forma troppo spesso gli elementi costitutivi dell'ideologia estremista, e la faida Golfo-Iran alimenta la sua diffusione in altri paesi, insieme alla sua controparte sciita rivoluzionaria.

Biden ha la possibilità di ripristinare le partnership di Washington con le nazioni del Golfo.

Gli Stati Uniti devono anche condurre un accordo più duro con gli Stati del Golfo sulle questioni dei diritti umani. Sulla scia degli attacchi di Donald Trump alla democrazia americana, sarà ancora più importante per Biden abbinare i suoi discorsi sullo stato di diritto e sui diritti civili con azioni in patria e all'estero.

Gli Stati Uniti hanno un difficile lavoro da fare per ricostruire il loro marchio nazionale nel mondo, ma porre fine all'approccio di Washington nel Golfo non potrà che innescare un positivo processo di pacificazione.

Il rispetto dei diritti umani

I colloqui e le intese degli Stati Uniti con i paesi del Golfo sui diritti umani dovrebbe essere ancora più realistico. Nessun paese al mondo è diventato una democrazia moderna in breve tempo. Lo stesso accadrà anche per gli Stati del Golfo.

Se il Golfo vuole davvero attrarre investimenti internazionali, tuttavia, deve affrontare la brutale repressione in corso verso il dissenso politico e la grave mancanza dello stato di diritto.

Oggi, un serio investimento privato esterno è altamente improbabile - in quanto gravato dalle elevate probabilità d’insuccesso - fintanto che queste nazioni imprigionano e torturano i prigionieri politici, mantengono un draconiano "sistema di guardiani" che limita la capacità delle donne di avere un’istruzione e molestano costantemente i dissidenti anche all'estero.

Francamente, i leader del Golfo dovrebbero maturare la propria cultura mentale per poter vedere l'espansione dei diritti politici come una questione proficua e di ampia natura esistenziale.

Gli Stati Uniti devono aiutare questi regimi a capire che il loro patto sociale di lunga data di "nessuna tassazione, ma nessuna rappresentanza a livello sociale" avrà comunque vita breve.

In questi paesi, poiché la crescita della popolazione supera non poco le entrate petrolifere, le famiglie reali presto non saranno più in grado di permettersi quel profitto.

Una volta che i sussidi si atrofizzano ma la repressione rimane inalterata, si formerà una disastrosa e progressiva crescita di disordini sociali.

Fortunatamente, ci sono modelli di riforme limitate nel Golfo che possono aiutare i ritardatari. Tuttavia, è solo il caso del Kuwait dove i cittadini eleggono liberamente un parlamento il quale mantiene una certa e positiva indipendenza dalla corona.

Sebbene questo sia ancora lontano dalla moderna democrazia partecipativa, fornisce alcune linee guida a cui i regimi più repressivi possono ispirarsi.

Sarà una guerra fredda ridotta ?

Nel perseguire questo nuovo corso di politica internazionale, alcuni aderenti allo status quo sosterranno che se l'amministrazione Biden spingerà verso un accordo troppo duro e “sbrigativo”, i leader del Golfo potrebbero allontanarsi dagli Stati Uniti e si rivolgeranno alla Cina o alla Russia.

Questo argomento appare falsamente alterato dalla realtà, in quanto si pone in gioco su un fraintendimento e l’insostituibilità sia del proprio allineamento militare con gli Stati Uniti sia della sincera volontà di Cina e Russia di sporcarsi le mani nella politica mediorientale.

Insomma, gli analisti ad unisono concordano sul fatto che questa situazione internazionale e geopolitica non abbia assolutamente nulla a che vedere con la Guerra Fredda ante litteram: infatti, la Russia ha ben poco da offrire nella regione, e mentre l'utilizzo globale del petrolio continua a diminuire, Mosca inevitabilmente si troverà per la prima volta a dover competere con i paesi del Golfo per trovare e attrarre gli acquirenti. I maggiori sono, tra l’altro, proprio in campo occidentale !

Anche se la Cina continuerà a cercare ogni opportunità economica nella regione mediorientale, non sarà disposta a svolgere un vero ruolo di sicurezza in qualsiasi momento nel prossimo futuro.

La marina militare cinese non potrà venire in aiuto di un paese del Golfo sotto attacco. Se i bahreiniti, gli emiratini o i sauditi minacciano di rivolgersi ad altre potenze, Washington potrà permettersi di smascherare il loro bluff.

In generale, la politica estera degli Stati Uniti per alcuni aspetti è diventata anacronistica, una sorta di strumento accordato per suonare una canzone che però l'orchestra non esegue più.

L’attuale politica degli Stati Uniti è, forse, più incerta nel Golfo, dove i propri interessi sono parzialmente cambiati - gli acquisti di petrolio sono sensibilmente diminuiti ! - ma la loro azione politica e di sicurezza nell’area no.

Dunque, Biden ha la possibilità tecnica e diplomatica di ripristinare valide partnership degli USA con le nazioni del Golfo.

Nessuno dei protagonisti si nasconde le difficoltà: sarà doloroso e susciterà anche forti proteste.

Ma l'ordine risultante sarà reciprocamente vantaggioso, avanzando gli interessi degli Stati Uniti mentre sposta gli stati del Golfo più vicini al futuro verso il quale affermano di aspirare.

Lo dice anche il noto proverbio secondo il quale gli sforzi più meritevoli quasi mai sono anche facili.

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