USA: dal diritto di manifestazione al "George Floyd Justice in Policing Act of 2020"

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  Redazione
  04 August 2020
  7 minutes, 29 seconds

A cura di Sonia Todisco

Gli Stati Uniti si sono sempre ritagliati, a livello internazionale, il ruolo di paladini della libertà e della democrazia e non perdono mai l’occasione per rimarcarlo. Nonostante questo, "il Paese delle grandi contraddizioni" è patria di molte libertà che potremmo definire come “formali”, poiché risultano claudicanti nell'applicazione. Negli States infatti la proclamazione di un diritto può rivestire una funzione puramente retorica e, dunque, di dubbia concludenza. Tra le libertà vittime di questa prospettiva incontriamo ad esempio il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Quest’ultimo, pur contemplato fin dai tempi della stesura del Bill of Rights nel 1791 e tutelato significativamente dal primo dei dieci emendamenti della Costituzione federale, nonché rappresentativo di un principio cardine del sistema democratico liberale statunitense, non riesce purtroppo a dispiegare tutta la sua potenzialità rimanendo, come di seguito risulterà, spesso mutilato.

IL DIRITTO DI MANIFESTARE LIBERAMENTE IL PROPRIO PENSIERO

Nell'immaginario collettivo, così come in quello di ogni singolo americano, nessun diritto rappresenta meglio l’essenza stessa della società di uomini liberi; questo diritto è infatti la più alta espressione della possibilità accordata a ciascun individuo della cd. "land of the free" di criticare il potere politico, i suoi simboli, i suoi uomini, le fedi altrui e perfino di esprimere a piacimento apprezzamenti volgari, apertamente razzisti o discriminatori. Tuttavia, la libertà di esprimere la propria opinione e il proprio dissenso è stata, ed è, davvero garantita, su di un livello pratico, nel sistema americano? Si tratta di un gigante dai piedi di argilla pronto a crollare di fronte alla prima scossa, oppure di un reale baluardo contro ogni tentativo di censura delle opinioni scomode e controcorrente? L'estensione negli Stati Uniti del diritto al free speech, che a livello retorico e di percezione collettiva è pressoché sconfinata, lo è poi davvero? [1]

Le Corti federali, ormai da tempo, hanno chiarito che ad essere oggetto di piena tutela costituzionale è il contenuto del messaggio che si estrinseca tramite la manifestazione del pensiero e non, invece, i tempi, i modi e i luoghi della manifestazione stessa. Pertanto, lo Stato non può censurare in nessun caso l’espressione di un pensiero per il suo contenuto; tuttavia può regolamentarne la manifestazione, purché senza discriminazioni, ricorrendo alle normative neutral-based, che si contrappongono alle content-based relative, invece, al contenuto del dissenso esteriorizzato. Normative, queste, vulnerabili e suscettibili di ampia interpretazione da chi è tenuto all'applicazione del diritto e dotate, di conseguenza, di una portata effettiva limitata. Occorre sottolineare che comprimere il modo in cui un pensiero si manifesta può, in alcuni casi, significare limitare di fatto l’espressione stessa dell'idea. Per meglio cogliere la portata della soppressione della libertà di manifestare il proprio dissenso basta rivolgere lo sguardo alle tante proteste in piazza che vengono legittimamente” represse, insieme al messaggio che le anima, solo perché i dimostranti incappano nella violazione di qualcuna delle tante norme che regolano le modalità della protesta, che la polizia decide di far rispettare. Nel sistema americano è consentito addirittura l’arresto, laddove venga integrato un illecito bagattellare; in Italia questo consisterebbe in un illecito amministrativo che in America invece è identificato come un crime.[2] Pertanto, anche solo la presunta violazione di una qualsiasi norma, come ad esempio quella relativa all'impiego delle strade cittadine durante la manifestazione, può comportare un arresto di massa dei manifestanti e il facile sabotaggio dello sciopero. Per questo si può giungere alla conclusione che, mentre "in fieri" appare potenzialmente assicurata in maniera estesa la possibilità di manifestare il dissenso, risulta altrettanto inevitabile constatare il corto circuito che si verifica tra le istituzioni e il cittadino, sino ad indurre un vero e proprio blackout, tale da oscurare la protesta.

TUTELA O PREVARICAZIONE?

Impossibile non notare l’ampia discrezionalità lasciata alle forze dell’ordine. Ciò fa sì che alla polizia statunitense, spesso, possa essere imputato di aver abusato dei propri poteri, a volte anche usando violenza. Numerosi, infatti, i titoli di giornali indignati per gli accaduti che ritraggono gli agenti in comportamenti che l’opinione pubblica, tra cui nomi autorevoli del mondo nella politica e di altri settori di spicco, definiscono come “gravi”, “ingiusti” e “vergognosi”.

Ciò che dovrebbe risultare essere un’azione utile al mantenimento dell’ordine viene tradotta per lo più in condotte volte alla soppressione dei diritti, aggravate nella maggior parte dei casi da ragioni a sfondo razziale o discriminatorio.

Lo sconcerto dei manifestanti, e non solo, è mosso da singoli episodi posti in essere dalla Police americana, realizzati con un’indole violenta e spesso del tutto ingiustificata, letali per le vittime e lesivi dell’immagine dei City Departments coinvolti.

I casi a testimonianza di questi eccessi, sfortunatamente per gli States, sono numerosi. Ultimo tra tutti è il caso di George Floyd, diffusosi sui canali social, a differenza di altre due situazioni gemelle che, seppur verificatesi nello stesso periodo, non sono entrate nel cono di luce dei media: si tratta di Ahmaud Arbery e di Breonna Taylor. A riconferma di questa atroce tendenza Jesse Jackson, religioso, politico ed attivista statunitense, ha dichiarato: “ogni città ha il suo George Floyd”.

George Floyd

La morte di George Floyd ha scosso il mondo intero. La frase I can’t breath pronunciata negli ultimi attimi di vita dalla vittima uccisa della presa al collo esercitata dall’agente Derek Michael Chauvin, ufficiale del dipartimento di polizia di Minneapolis dal 2001, che stava procedendo al suo arresto insieme al collega Thomas Lane, è diventata simbolo delle numerose proteste scoppiate nel Paese; insieme ad essa anche lo slogan Black lives Matter, espressione rappresentativa, nonostante il passare degli anni, del forte senso di discriminazione sofferto dalla popolazione afro-americana sul suolo statunitense. La criticità della situazione e la difficoltà a fronteggiare e fermare le proteste ha addirittura convinto il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump a dispiegare il suo “esercito segreto”; un’iniziativa questa gravemente lesiva dei diritti democratici e con ogni probabilità anti-costituzionale. Trump, però, non agisce senza legittimazione giuridica, perché il suo operato trova fondamento nell’Insurrection Act, che conferisce al presidente degli Stati Uniti il potere, in casi eccezionali, di mobilitare l’esercito federale e la Guardia Nazionale per compiti di polizia. Si tratta di una misura firmata dal T. Jefferson e invocata l’ultima volta nel '92 per un caso similare a quello di Floyd, ovvero per placare le proteste a Los Angeles dopo l’assoluzione degli agenti che picchiarono a morte l’afroamericano Rodney King. Questa norma è però in contraddizione con il Posse Comitatus Act del 1878 che, invece, inibisce l’utilizzo dell’esercito con funzioni di polizia.

Quanto accaduto in data 25 maggio 2020, sulla spinta dello sdegno dell’opinione pubblica, ha reso possibile lo sblocco della mission impossibile di riformare il sistema di polizia statunitense. Il 26 giugno del 2020, un mese dopo l'uccisione di George Floyd, la Camera degli Stati Uniti, a maggioranza democratica, ha approvato un ampio progetto di riforma strutturale della polizia, redatto da Black Caucus, con 236 voti a favore, dei quali 3 repubblicani (ma apertamente schierati contro la linea del presidente Trump) e 181 contrari.

THE GEORGE FLOYD JUSTICE IN POLICING ACT OF 2020

Questo disegno di legge incide sui poteri di polizia. Il bill, in particolare, comprende misure per aggravare la responsabilità degli agenti nel caso in cui si configuri una cattiva attuazione del precetto legale. La finalità perseguita tramite queste modifiche è quella di migliorare la trasparenza e di elidere le pratiche discriminatorie esercitate dalla polizia statunitense.

Il disegno di legge facilita l'applicazione della legge federale nel caso di violazioni costituzionali (ad esempio, l'uso eccessivo della forza) effettuate da parte delle forze dell'ordine statali e locali.

Tra l’altro:

  • abbassa gli standard dell’intenzione criminale: per condannare un agente di polizia per cattiva condotta in un procedimento federale, si passa dall'interpretazione della condotta da intenzionale a consapevole o imprudente;
  • limita l’immunità qualificata come difesa contro la responsabilità in un’azione civile privata contro un agente di polizia o un agente penitenziario statale;
  • autorizza il Dipartimento di giustizia a emettere mandati di comparizione nelle indagini dei dipartimenti di polizia per un modello o una pratica di discriminazione.

Il disegno di legge include la creazione di un registro nazionale, il National Police Misconduct Registry, ideato per compilare i dati sulle denunce e per rubricare gli atti di cattiva condotta dei Policemen. Inoltre, stabilisce un quadro per vietare il profiling razziale a livello federale, statale e locale. Sono talvolta previsti nuovi requisiti per l’applicazione della legge nei confronti dei pubblici ufficiali; tra questi è indispensabile la segnalazione di eventuali incidenti provocati dagli stessi e causati dall’uso eccessivo della forza. Conseguentemente al verificarsi di tale precedente, l’agente di polizia dovrà indossare delle body cameras affinché possa essere sorvegliato nell'adempimento delle sue mansioni. [3]

In conclusione, non rimane che condividere il pensiero di Churchill, per cui:

“Gli Stati Uniti fanno sempre la cosa giusta, dopo che hanno esaurito tutte le alternative”.

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