Crisi nel Mar Rosso - La preoccupante divisione dell’Occidente

  Focus - Allegati
  07 marzo 2024
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Abstract

L’esplodere di una nuova crisi nel Mar Rosso, in grado di insidiare il libero commercio in uno degli snodi marittimi più importanti del mondo, mette alla prova, ancora una volta, le capacità e le volontà dell’Occidente di rispondere a nuove minacce. Difatti, Stati Uniti ed un’Unione Europea, hanno reagito in modo diverso, manifestando metodi e sensibilità ben distinti e, in ultima analisi, una diversa concezione d’intervento e proiezione internazionale. Aspetti strutturali c he rischiano di avere conseguenze importanti, oltre le attuali contingenze.


Autore

Michele Gioculano - Head Researcher, Mondo Internazionale G.E.O. - Politica


Introduzione

Sin dallo scorso autunno, i ribelli Houthi hanno aggredito numerose navi, civili e militari, nello Stretto di Bab el-Mandeb, area strategica sita tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden in cui transita circa il 15% del commercio globale. Ad oggi, il timore di attacchi ha indotto un quinto del naviglio mercantile a preferire la circumnavigazione del continente africano al transito attraverso Suez, provocando un conseguente aumento dei costi di trasporto e dei tempi di navigazione e consegna. Il rischio è che tali rincari possano investire anche il settore petrolifero, essendo lo snodo in questione fondamentale anche per l’importazione degli idrocarburi provenienti dai Paesi del Golfo. Ciò provocherebbe un nuovo shock energetico in una fase di diffusa incertezza, con un Medio Oriente in fermento e un conflitto russo-ucraino di cui non si intravede la fine.

Gli Houthi hanno affermato di stare agendo a supporto dei palestinesi, di volere esercitare pressioni sulla comunità internazionale affinché spinga Israele a consentire l’ingresso di viveri e aiuti umanitari all’interno della Striscia di Gaza. Tuttavia, benché l’escalation militare, tra Hamas e Tel Aviv, seguita agli attacchi terroristici del 7 ottobre scorso, abbia funto da detonatore della crisi, le sue ragioni sono ben più profonde, riconducibili ad un confronto geopolitico decisamente più ampio. Il rinnovato attivismo dei ribelli rappresenta uno dei prodromi del conflitto latente tra l’Iran e l’Occidente, il quale vede, schierati in prima linea, gli Stati Uniti e lo Stato d’Israele. La Guerra Civile in Yemen è stata, senz’altro, il terreno di scontro più “caldo” tra Washington – vicina al Governo legittimo del Presidente Hādī, e Teheran – principale sostenitrice dei ribelli. Il protrarsi, per quasi dieci anni, degli scontri ha determinato una netta radicalizzazione delle posizioni e un rafforzamento del ruolo della Repubblica Islamica, ormai egemone su ogni azione intrapresa dagli Houthi. Pertanto, malgrado le ripetute smentite, è verosimile credere che il disturbo del traffico marittimo nello Stretto di Bab el-Mandeb sia frutto della volontà dell’Iran di minare la sicurezza dei commerci e degli approvvigionamenti occidentali. In tal modo, servendosi dei ribelli yemeniti, esso punta a vendicare l’invasione di Gaza e a fiaccare il supporto fornito a Tel Aviv.

Gli interventi internazionali

Rischiando di interferire pesantemente con i traffici mondiali, lo scacco inferto dagli Houthi alla libertà di navigazione nel Mar Rosso ha posto l’Occidente dinanzi ad un’ulteriore sfida. Tuttavia, pur ponendoli tutti sullo stesso lato del fronte, la crisi ha mostrato le notevoli fratture tra i vari alleati di Washington, avendo dato corso a risposte diverse e in tempi diversi. Un circostanza debitamente registrata dall’Iran e da tutte le altre Potenze, Cina e Russia in testa, che mirano a ridisegnare l’ordine globale a proprio vantaggio.

Il 19 dicembre scorso, gli Stati Uniti hanno avviato l’Operazione Prosperity Guardian, con l’obiettivo di dissuadere i ribelli dal lanciare ulteriori attacchi e di salvaguardare le navi transitanti nell’area, schierando una nutrita squadra navale e, se necessario, rispondendo ad eventuali incursioni. Pur vedendo aderire alleati tradizionali, come il Canada e il Regno Unito, e alcuni Stati marittimi come la Grecia, la Norvegia e i Paesi Bassi, la missione è stata accolta freddamente dagli altri partner europei e, soprattutto, da quelli mediorientali. Eccezion fatta per il Bahrain, ospitante la V Flotta della US Navy, nessun altra Monarchia del Golfo ha accettato di farne parte, neppure l’Arabia Saudita, storica rivale degli Houthi ma timorosa di venire accusata di sentimenti filo israeliani. All’inizio di gennaio, dinanzi al ripetersi degli assalti, le risposte della task force, prima rivolte unicamente contro i missili e le imbarcazioni dei ribelli, hanno cominciato ad interessare anche basi sulla terra ferma, aprendo la strada a ritorsioni più estese. Dal canto suo, l’Unione Europea, il 19 febbraio, ha approvato l’Operazione Aspides, la quale vedrà impegnate forze aeronavali francesi, italiane e tedesche in attività di carattere puramente difensivo e di scorta al naviglio mercantile transitante nelle acque di Bab el-Mandeb. Il quartier generale sarà stabilito a Larissa mentre il comando operativo andrà al Contrammiraglio Costantino, comandante del Cacciatorpediniere Caio Duilio, il quale si servirà del porto di Gibuti come base d’appoggio. Un’iniziativa autonoma rispetto alla NATO, condotta dalle tre maggiori Potenze continentali, che ha suscitato diverse polemiche, tanto a Washington quanto tra i maggiori sostenitori dell’Alleanza Atlantica, come i Paesi dell’Est, particolarmente ostili all’idea di allentare i legami d’oltreoceano. Inoltre, Aspides sarà coadiuvata dalle operazioni Atalanta e Agenor, già attive da tempo nel contrasto alla pirateria nel Corno d’Africa e nello stretto di Hormuz.

L’opposto carattere, offensivo o difensivo, delle due operazioni avviate dalle Potenze occidentali rappresenta, plasticamente, il differente approccio che separa Stati Uniti ed Europa in fatto di risposta alla minaccia e di proiezione internazionale. Malgrado i risultati, non sempre brillanti, registrati in passato, il Dipartimento di Stato e il Pentagono seguitano, quasi sempre, ad agire alle radici del problema, al fine di sradicare quella che ritengono una minaccia alla loro sicurezza. Per questo, potendo anche contare su unità e mezzi importanti, tendono a far valere tutto il proprio peso militare, tanto a fini dissuasivi quanto impegnandosi sul terreno, colpendo le basi e le vie di rifornimento. Al contrario, le cancellerie europee usano spesso essere più caute, rifuggendo attacchi non giustificati da una risoluzione internazionale e prediligendo missioni di tipo difensivo, miranti semplicemente a proteggere i propri interessi. Caratterizzate da forze limitate e da una politica, tendenzialmente, più ostile nei confronti degli interventi armati rispetto a quella di Washington, si rivelano indisponibili ad impegnarsi oltre lo stretto necessario. Ad ogni modo, ambedue le strategie presentano dei limiti di fondo: se quella statunitense ignora i risvolti internazionali di un’azione invasiva, quella europea tende ad essere fin troppo superficiale e poco incisiva. Unico punto di contatto tra le due realtà sembra essere quello delle opinioni pubbliche, sempre meno favorevoli all’impiego di risorse in missioni percepite come troppo distanti dai loro interessi.

Conclusioni

La crisi nel Mar Rosso rischia di incidere, in modo significativo, sugli scambi commerciali e gli approvvigionamenti energetici occidentali. L’aumento dei rischi lungo una delle rotte marittime più trafficate al mondo potrebbe dar vita ad un nuovo fronte di guerra in una fase già sufficientemente turbolenta. Il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese ha fornito l’occasione per il rientro in scena degli Houthi, protagonisti di una guerra civile yemenita, fino a ieri considerata di scarso rilievo, e fedeli alleati di un Iran antiamericano e antisemita. Gli attacchi contro le navi nello Stretto di Bab el-Mandeb rappresentano quindi un ulteriore mezzo adottato da Teheran per mostrare la sua vicinanza alla causa palestinese e per indebolire l’Occidente nel suo complesso.

Le risposte, disorganiche e scoordinate, fornite da Europa e Stati Uniti con le rispettive operazioni, non solo non paiono, al momento, in grado di dissipare la minaccia degli Houthi ma sottolineano, ancora una volta, le molte lacerazioni interne al blocco. I distinguo in termini di approccio, unite all’incapacità di concertare una reazione comune, segnano un aumento della distanza tra le due sponde dell’Atlantico. Benché impegnata su molti fronti, Washington continua ad intervenire in modo muscolare ogni qual volta vede profilarsi una minaccia all’orizzonte, Tuttavia, la sua forza attrattiva è sempre più esigua mentre le contraddizioni interne alla sua sfera di influenza emergono, via via, con maggiore evidenza. Il rinvio, a data da destinarsi, della normalizzazione delle relazioni israelo-saudite ha mostrato, nuovamente, l’ambigua posizione che contraddistingue gli alleati mediorientali in determinate circostanze. Al contempo, l’Unione Europea appare divisa tra fautori di un progetto di difesa comune e fedelissimi della NATO. Sebbene l’avvio di un’operazione del tutto indipendente sembra veder prevalere i primi sui secondi, al di là delle dichiarazioni d’intenti, gran parte del Vecchio Continente è ancora riluttante ad assumere su di se il peso della propria sicurezza. Una questione assai spinosa, destinata a tornare al centro del dibattito con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Infatti, l’eventuale ritorno alla Casa Bianca del repubblicano Donald Trump, potrebbe inaugurare una stagione isolazionista che rischierebbe di avere serie conseguenze per l’Europa.

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Bibliografia:

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