Equilibrio - L’eredità di Kissinger per l’ordine mondiale

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  15 febbraio 2024
  18 minuti, 37 secondi

Abstract

Pochi uomini hanno dato un contributo alla teoria delle relazioni internazionali quanto Henry Kissinger. Lo scopo di questo paper è di ripercorrere le principali tappe della sua carriera, dagli anni accademici fino alla guerra del Kippur, per evidenziare non solo l’evolversi del suo pensiero, ma anche il suo contributo alla storia. Il grande analista ci ha lasciato il 29 novembre 2023, ma la sua influenza sulla politica internazionale è destinata a sopravvivergli a lungo.

Autori

Michele Gioculano - Head Researcher, Mondo Internazionale G.E.O. - Politica

Federico Luciano - Junior Researcher, Mondo Internazionale G.E.O. - Politica

Gabriele Junior Pedrazzoli - Junior Researcher, Mondo Internazionale G.E.O. - Politica

Introduzione

Sono passati poco più di due mesi dalla morte di Henry Kissinger, ex Segretario di Stato degli Stati Uniti e protagonista della politica internazionale degli ultimi decenni. Il cordoglio dei leader politici mondiali, le copertine dei principali canali di informazione, le analisi e i dibattiti sulla sua figura, testimoniano l’importante eredità delle sue teorie sulle relazioni internazionali.

La vita di Kissinger, come studioso, analista, statista e politico, ha visto un’evoluzione storica e personale della sua figura che, al tempo stesso, ha mantenuto delle caratteristiche stabili ed emblematiche. Queste sono ben visibili nelle varie produzioni durante le diverse fasi della sua carriera: l’ordine ispirato allo scacchiere europeo post Congresso di Vienna, la consapevolezza delle conseguenze portate dalle grandi rivoluzioni e il suo modello diplomatico, basato sull’equilibrio e non sull’annientamento della minaccia, sono solamente alcuni tratti distintivi di Kissinger.

La sua ribalta è legata all’ingresso nella politica americana: dopo l’esperienza non entusiasmante con Kennedy, la diretta constatazione degli errori di Washington nella guerra in Vietnam ma soprattutto con l’arrivo del Presidente Nixon, Kissinger fa emergere la sua abilità diplomatica sui principali palcoscenici internazionali, favorendo l’uscita dal conflitto indocinese, l’instaurazione di rapporti con la Cina Popolare e la conclusione della Guerra dello Yom Kippur.

Kissinger studioso

Heinz Alfred Kissinger nasce, nel 1923, in Baviera, in una famiglia ebreo-tedesca. La sua origine europea, oltre ad essere un dato biografico, sarà un elemento caratterizzante delle sue innovative teorie di politica estera, in particolare nella prima fase, che molti critici classificano come quella del “Kissinger studioso”. Dopo la fuga dalla Germania nel 1938, a seguito dell’inizio delle persecuzioni antisemite dei nazisti, Kissinger si trasferisce a New York: inizialmente segue studi serali per poter lavorare durante il giorno ma, con lo scoppio della Guerra, nel 1943, diventa ufficialmente cittadino americano grazie al suo arruolamento nell’esercito statunitense, ove verrà ingaggiato, principalmente, come interprete per la lingua tedesca.

Terminata la Guerra, Kissinger avvia la sua vera e propria vita accademica: conclude cum laude il suo percorso di studi presso l’Università di Harvard con un’emblematica tesi di dottorato: Peace, Legitimacy and the Equilibrium. A study of the Statesmanship of Castlereagh and Metternich. Nel suo enunciato, Kissinger fa emergere lo studio approfondito della storia europea, caposaldo della sua prima visione del mondo. L’analisi dello scacchiere post Congresso di Vienna rappresenta, infatti, l’efficacia dell’ordine, elemento di ancoraggio di una stabilità europea inclusiva degli elementi di legittimità e potere. Dai primi lavori accademici emerge, sin da subito, il suo “distacco teorico” per la posizione americana maggioritaria secondo cui è necessario cambiare l’ordine mondiale identificando una minaccia da sconfiggere. Secondo la sua visione dell’equilibrio internazionale è, infatti, fondamentale per gli attori coinvolti riconoscersi all’interno di quell’ordine, eliminando, di conseguenza, tutte le componenti sovversive.

Per Kissinger, il concetto di ordine è l’anello di congiunzione degli scritti elaborati durante la sua vita accademica: nel 1957, con la pubblicazione di Nuclear Weapons and Foreign Policy, viene ribadito il rapporto tra forza e diplomazia, questa volta basato sul cosiddetto “equilibrio del terrore”. Con l’avvento del dilemma atomico cambiano, inevitabilmente, le dinamiche dei conflitti: se da un lato Kissinger riconosce l’allontanamento dai vincoli sulla limitazione della guerra, dall’altro sottolinea che, nell'era nucleare, il possesso di queste armi è fondamentale per collegare potere fisico e volontà politica, superando la necessità di alleati. Ponendo l’era nucleare nella sfera dell’ordine, è rilevante il richiamo della sua posizione in merito all’eliminazione delle forze sovversive, al punto che il Comunismo è presentato non come una minaccia ma bensì come un elemento fondamentale, in quanto le Potenze rivoluzionarie rappresentano un vantaggio per gli Stati Uniti.

Successivamente ai suoi studi, nel 1962, Kissinger è nominato professore all’Università di Harvard e inizia a svolgere le prime consulenze per il Governo Federale in materia di politica estera e gestione degli armamenti. In questa fase è fondamentale il suo rapporto con Nelson Rockefeller, miliardario di prestigio e collaboratore del Presidente Eisenhower. Inizialmente, ingaggiato dalla Fondazione Rockefeller, Kissinger entrerà nel mondo della politica nelle vesti di consulente, soprattutto per merito della sua visione dell’era nucleare che spingerà i consiglieri del Presidente Kennedy a offrirgli una prima collaborazione.

Kissinger analista

La Presidenza Kennedy segna l’ingresso di Henry Kissinger nelle stanze del potere statunitense. Sotto le presidenze democratiche di quegli anni ricopre incarichi secondari, la sua influenza è scarsa e la sua figura assolutamente non determinante. Ciò nonostante, sono anni fondamentali per Kissinger che, a contatto diretto con le élite del potere, maturerà la concezione dell’ordine mondiale che caratterizzerà il suo operato durante le Presidenze Nixon e Ford.

Negli anni che seguono la Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno ridefinito la loro posizione internazionale. Sotto l’Amministrazione Truman il mondo si è polarizzato nei due blocchi che avrebbero poi caratterizzato la Guerra Fredda: l’Unione Sovietica insisteva per dare all’Europa Orientale una nuova struttura sociale, politica e internazionale sulla base di un unico fattore oggettivo, la capacità di proiezione e controllo militare. Al contempo, la NATO rappresentava una nuova tendenza nell’impianto sicuritario europeo. Ciò che l’America aveva costruito era una garanzia unilaterale sotto forma di alleanza tradizionale. Si stavano delineando quelle che il Segretario di Stato Dean Acheson avrebbe chiamato “situazioni di forza”. Da questo momento la diplomazia est-ovest avrebbe rispecchiato l’equilibrio del potere mondiale.

Acheson, e il suo successore John Foster Dulles, concepivano potenza e diplomazia come fasi successive: prima l’America avrebbe consolidato e dimostrato la sua potenza (tramite una politica di contenimento costituita da alleanze militari lungo tutta la periferia sovietica) e a quel punto l'URSS sarebbe stata costretta ad arrivare ad un compromesso con il mondo non comunista, rientrando finalmente nell’ordine internazionale.

Kissinger avrà il merito di rielaborare e sistematizzare questa visione abbandonando i principi di moralità tipici del sistema Wilsoniano in favore di un parziale recupero delle regole di equilibrio Vestfaliane.

A pochi mesi dal suo insediamento, nel 1961, Kennedy si trova coinvolto in uno dei momenti di massima tensione della Guerra Fredda: la crisi di Berlino. La posizione forte tenuta dal Presidente in risposta al documento ultimativo sovietico provoca l’edificazione del muro nella notte del 13 agosto. Kennedy ritiene necessaria una solerte presa di posizione, che però non si concretizza in nessun’azione offensiva verso Berlino Est. I militari, tuttavia, sostengono la “linea dura” di Paul Nitze, non quella conciliante del Presidente, e le azioni provocatorie del Generale Clay hanno come conseguenza il confronto dei carri armati americani e sovietici presso il checkpoint Charlie. I dirigenti sovietici e statunitensi non sono affatto propensi ad un confronto armato diretto, al contrario, cercano una via d'uscita dalla pericolosa situazione. Così, la crisi si risolve con la ritirata quasi simultanea dei due eserciti.

Kennedy coglie l’elemento fondamentale della crisi: il muro non costituisce una minaccia per gli interessi statunitensi. Da un punto di vista propagandistico una così netta divisione della città presenta al mondo la superiorità del sistema democratico, ma soprattutto, la costruzione di una barriera invalicabile ha come conseguenza l’esasperazione della polarità degli schieramenti. La dottrina delle “situazioni di forza” di Acheson viene portata alle estreme conseguenze.

L’esperienza per Kissinger è fondamentale. La dottrina del contenimento e dell’ordine mondiale come equilibrio tra le due superpotenze rimane un punto cardine della strategia americana per tutta la durata della Guerra Fredda.

Un altro momento fondamentale per la formazione di Kissinger è la guerra in Vietnam. Il Presidente Johnson prende parte al conflitto convinto che l’attacco nordvietnamita al Vietnam del Sud sia la prima avvisaglia di una campagna sino-sovietica per il dominio globale e che le forze americane debbano opporsi per evitare che l’intero Sudest Asiatico cada sotto controllo comunista.

A differenza degli eventi di Berlino, Kissinger si trova da subito in disaccordo con l’Amministrazione. Innanzitutto, l’unità sino-sovietica non esiste più. La Cina, dilaniata dal “Grande Balzo in Avanti”, considera sempre più l’Unione Sovietica come un pericoloso avversario. Inoltre, i principi del contenimento applicati in Europa non sono adatti ad ogni contesto indistintamente: l’instabilità in Europa si è manifestata quando la crisi economica causata dalla guerra ha minacciato di sovvertire le tradizionali istituzioni politiche. Nel Sudest asiatico queste istituzioni devono ancora essere create, in particolare nel Vietnam del Sud che non era mai esistito come Stato.

I dilemmi del Vietnam erano conseguenza delle teorie accademiche sull’escalation progressiva che erano state alla base della Guerra Fredda, coerenti in riferimento ad un conflitto tra superpotenze nucleari, ma fuorvianti se applicate ad un conflitto asimmetrico.

Nel 1969 viene eletto il Presidente Nixon, che si impegna fin da subito a porre fine alla partecipazione statunitense al conflitto. Nixon (in linea con le indicazioni di Kissinger) vuole stabilizzare il quadrante sul modello già sperimentato in Corea: due schieramenti l’uno incapace di prevalere sull’altro. Sostanzialmente: equilibrio. Il sostegno economico americano avrebbe favorito lo sviluppo di un sistema democratico capitalistico e la graduale crescita del nuovo stato.

Nixon opera quindi un ritiro completo, tuttavia pochi anni dopo, nel clima estremamente teso del periodo successivo alla crisi del Watergate, il Congresso impone rigide restrizioni agli aiuti nel 1973 e, nel 1975 li taglia completamente. Questa crisi, assolutamente interna all’apparato statunitense, provoca una seconda invasione da parte del Vietnam del Nord che si concluderà con la conquista dell’intero Paese.

Kissinger statista

A fronte dei traguardi accademici conseguiti e del contributo teorico apportato, è possibile affermare che la consacrazione di Henry Kissinger giunge relativamente tardi. Infatti, solo nel 1969, con l’avvento dell’Amministrazione Nixon, egli ottiene un incarico ufficiale di rilievo quale quello di Consigliere per la Sicurezza Nazionale, cui quattro anni dopo si aggiunge quello di Segretario di Stato. Da allora, anche grazie all’ampia fiducia in lui riposta dal Presidente, Kissinger ha modo di applicare, nel concreto, le sue teorie, mostrando agli Stati Uniti e al mondo quanto fosse necessario un cambio di passo. All’inizio di questa fase, Kissinger vede gli Stati Uniti attraversare un periodo di enorme debolezza, frutto di tensioni interne e del sanguinoso conflitto in Vietnam del quale non si intravede la fine. Egli intuisce che è quanto mai indispensabile adattare all’interesse americano lo scenario globale, fondato sui precari equilibri della Guerra Fredda che mal digeriscono un eccessivo sbilanciamento di potere in favore dell’Unione Sovietica. Il suo obiettivo diviene, dunque, quello di ristabilire una parità, non necessariamente tramite l’accumulo di vantaggi e potere ma pure tramite l’aiuto di terze parti, anche avversarie, purché giovi all’interesse nazionale o alla stabilità dell’ordine globale.

Il maggiore passo per riportare in asse le forze, è quello di portare in campo un nuovo Attore, a lungo ignorato da Washington, quasi non esistesse, un Paese rimasto per troppo tempo escluso dal gioco: la Cina. Con perizia e abilità non comuni, operando un’analisi fredda e distaccata, riesce ad approfondire la conoscenza di un mondo rimasto, in gran parte, ignoto alla diplomazia americana. Andando oltre la superficiale etichetta di “Stato comunista”, comprende che un’importante distanza separa l’Unione Sovietica dalla Repubblica Popolare. Di conseguenza, al fine di recuperare lo svantaggio sui russi, Kissinger lavora per allargare la frattura tra Mosca e Pechino, presentando gli Stati Uniti come il partner alternativo che, sino ad allora, la Cina non ha mai avuto. Superando gli steccati ideologici, nel 1972, il Presidente Nixon incontra Mao Zedong, tendendo una mano alla Repubblica Popolare e ponendo le basi per il riconoscimento e l’instaurazione, nel 1979, di relazioni diplomatiche stabili tra i due Paesi.

Da un lato, tale percorso, interamente ideato e condotto da Kissinger, spazza via i pregiudizi e le questioni di principio che affliggono la politica americana e dal Dipartimento di Stato. La Cina non è più un paria internazionale da isolare in favore di Taiwan, non più un regime comunista da convertire alla democrazia e al liberalismo, ma una Potenza, riconosciuta e legittimata, in grado di fare la differenza e di aiutare Washington contro l’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti di Kissinger partendo da una concezione fortemente statica e ideologica si muovono verso un approccio pragmatico e realista. Dall’altro lato, dimostra l’importanza di mantenere canali di comunicazione aperti con tutti, instillando l’idea che la conoscenza di un Paese, della sua storia e della sua cultura, siano fondamentali per potersi confrontare, per mantenere relazioni fruttuose e durature e per trattare in modo consapevole, su un piano di parità. Non a caso, Kissinger ha mantenuto, sino alla morte, solidi legami con la leadership cinese, incluso l’attuale Presidente Xi Jinping. Molti sostengono, per esempio, un suo sostanziale contributo alla realizzazione del vertice sino-americano svoltosi a San Francisco lo scorso anno.

Altro contesto nel quale Kissinger dà prova di tutta la sua abilità, applicando le sue teorie e sovvertendo i principi sui quali si basava la politica estera americana, è quello della Guerra dello Yom Kippur. Al culmine della tensione, quando lo Stato d’Israele è riuscito a contrattaccare e la 3° Armata egiziana è intrappolata nel Sinai, egli comprende, contrariamente alla dottrina allora imperante, che a Tel Aviv dev’essere impedito conseguire una vittoria assoluta. Di conseguenza, consapevole delle ricadute potenzialmente globali che potrebbe avere un allargamento del conflitto, il neo nominato Segretario di Stato opera un’abile mediazione tra le parti: gli egiziani accettano la sconfitta e la temporanea occupazione del Sinai mentre gli israeliani risparmiano la 3° Armata e interrompono l’avanzata. In questo modo, non pregiudicano la sopravvivenza di un regime filosovietico e tenendo a freno un alleato, Washington consegue un importante traguardo strategico: il raggiungimento di un equilibrio tra le due principali Potenze del Medio Oriente e il raggiungimento di una tregua nel giro di pochi giorni. Impedendo la completa distruzione delle forze armate egiziane e la conseguente umiliazione del Paese, Kissinger pone le basi per gli Accordi di Camp David del 1978 ma anche i presupposti di un progressivo distacco dell’Egitto dall’Unione Sovietica e di un suo lento ma costante avvicinamento agli Stati Uniti.

In questo caso, Kissinger impone un sostanziale pareggio che consente agli Stati Uniti di apparire come garanti della pace mondiale e come veri vincitori della guerra. Infatti, non perseguendo una vittoria sul campo per non esacerbare lo scontro, divengono protagonisti della pacificazione del Medio Oriente. Il Segretario di Stato pone le basi per una pace diversa, senza oppressione del vinto da parte del vincitore, affinché ambo le parti possano trarre qualche vantaggio. L’idea di Kissinger, secondo cui le guerre devono essere pensate in funzione della pace che dovrà seguire e non dei semplici obiettivi dei belligeranti, inaugura una stagione in cui Washington tenterà di proiettare il suo potere nel mondo più con la forza della diplomazia o dell’economia piuttosto che con quella delle armi. È l’inizio del soft power degli Stati Uniti.

Conclusioni

La caratteristica fondamentale e più evidente di Henry Kissinger, l’attributo che più di ogni altro contraddistingue il campione delle politica estera degli Stati Uniti, è, senza dubbio, la conservazione di un tratto marcatamente europeo. Come ampiamente esposto, egli non ha mai creduto nella vocazione missionaria degli Stati Uniti, né ha mai guardato con favore ai tentativi di esportazione della democrazia o alla retorica della costante minaccia nemica da eliminare. Al contrario, prediligendo un contegno assai meno radicale di quanto si possa credere, Kissinger desidera, più semplicemente, adattare lo status quo preesistente al mutato contesto internazionale e/o alle mutate esigenze della politica estera nazionale. Consapevole del fatto che i grandi mutamenti e le rivoluzioni richiedono tempi assai più lunghi di quelli a disposizione di uno statista, vuole sempre cercare di trarre il miglior risultato dalla realtà contingente, giammai vuole mutare completamente la realtà stessa.

Kissinger ispira la sua azione al modello diplomatico del Congresso di Vienna: grande consesso internazionale, oggetto dei suoi primi studi, in grado di restituire stabilità ad un'Europa dilaniata dalle Guerre Napoleoniche. Fondato su principi quali la legittimità e l’equilibrio, accantonando la pura volontà di potenza, con lungimiranza ridisegna la carta del Continente, soddisfando i vincitori senza umiliare i vinti. Basti ricordare che la Francia sconfitta prende parte ai lavori e conserva i propri confini storici, proprio nell’ottica di preservare il giusto bilanciamento tra i vari Attori. Di contro, Kissinger è un fermo detrattore della Conferenza di Parigi, in particolar modo del Trattato di Versailles, il quale, al termine della Prima Guerra Mondiale, mira ad umiliare la Germania e a ridurla a Potenza di secondo piano sullo scacchiere internazionale. La tracotanza e la sete di vendetta dei vincitori, così come il tentativo di mutare, in breve tempo, il Reich guglielmino in una democrazia avanzata, pongono le basi di un’ulteriore fase di instabilità che raggiunge il punto di rottura con l’ascesa al potere del Nazismo e, poi, in un nuovo e ancor più devastante conflitto. Per lui è, dunque, la concezione dell’altro a fare la differenza.

Kissinger introduce, nel dibattito geopolitico statunitense, l’idea che un avversario non solo non debba essere necessariamente sconfitto ma che, al contrario, talvolta, debba essere persino sostenuto e tenuto in vita. La sua polemica secondo cui “gli americani tendono a credere che quando c’è un un problema debba esserci anche una soluzione” riassume bene il suo pensiero. (Kissinger, 2022) Tale postura non poggia solo sul presupposto dell’utilità del nemico, soprattutto al fine di compattare e indirizzare un Paese, ma origina anche sull’assunto dell’impossibilità, per una singola Potenza, di controllare stabilmente l’intera arena internazionale. Molti commentatori hanno, per esempio, definito il Segretario di Stato come un “nostalgico dell’Unione Sovietica” affermando che, fosse stato per lui, questa non sarebbe mai crollata o, quantomeno, Washington non si sarebbe mai adoperata perché ciò avvenisse. Del resto, aldilà di un illusorio entusiasmo iniziale, la fine della Guerra Fredda non ha prodotto alcun vantaggio di lungo periodo per gli Stati Uniti. Al contrario, essa ha generato il dilemma strategico che da oltre trent’anni affligge Washington, divisa tra una declinante egemonia globale e un impraticabile ritiro in uno splendido isolamento. Pertanto, egli ritiene ineludibile il riconoscimento del ruolo dell’avversario, così come il raggiungimento di un compromesso che porti ad una concordata distribuzione del potere e delle sfere d’influenza. Una lettura d’ordine, estranea ai codici operativi del Dipartimento di Stato, interamente basati una contrapposizione volta ad abbattere la controparte, ma affine a quelli delle cancellerie europee, abituate ad interfacciarsi con una miriade di Attori con i quali stabilire un modus vivendi. Naturalmente ciò non porta sempre, immancabilmente, ad evitare le scontro ma, certamente, ne riduce la probabilità e l’intensità, evitando di minare le fondamenta dei rapporti fra gli Stati.

Il valore attribuito da Kissinger allo studio delle realtà esterne è un ulteriore elemento di modernità, imprescindibile per una Potenza che necessità rapportarsi con tutti. Egli ha sempre esaltato l’importanza della comprensione e dell’integrazione del punto di vista altrui al fine di produrre una lettura vincente. Nel suo ultimo saggio, Leadership, egli sottolinea, ancora una volta, quanto la comprensione “dell’idea che i Paesi e gli statisti hanno di loro stessi” possa fare la differenza nell’ambito di una strategia. Tale conoscenza porta, invariabilmente, alla consapevolezza che il relativo vantaggio di un Paese può essere conservato e accresciuto solo attraverso la legittimazione di tutte le altre Potenze, dando vita ad un nuovo concerto internazionale basato su un reciproco rispetto.

In conclusione, è possibile affermare che l’eredità di Kissinger risulta assolutamente monumentale, condizionando per sempre la teoria delle relazioni internazionali. Probabilmente, anche alla luce degli accadimenti più recenti, egli non è riuscito a invertire le tendenze sistemiche della politica estera americana introducendo concezioni e principi strategici tipicamente europei. Tuttavia, non ha mancato di fornire un contributo sostanziale al suo rinnovamento, all’introduzione di elementi innovativi mettendo in discussione un approccio eccessivamente idealista e, spesso, poco aderente alla realtà.

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