Chiara Michieli, Junior Policy Analyst
Immagine di copertina: Geert Vanden Wijngaert / AP
Le ultime elezioni Europee hanno confermato l’inversione di rotta in termini di affluenza alle urne iniziata nel 2019. A livello comunitario, difatti, si sono recati a votare più della metà degli aventi diritto (51.05%), in leggero aumento rispetto alla tornata precedente (50.66%) e decisamente in controtendenza rispetto allo storico delle elezioni del PE, che ha visto l’affluenza in costante calo dal 1979¹.
Non è un risultato scontato: se le elezioni del 2019 avevano beneficiato della massiccia mobilitazione giovanile per il clima, quest’anno l’elettorato europeo è stato chiamato (anche) a valutare l’operato della Commissione più ambiziosa degli ultimi 25 anni nel quinquennio più turbolento degli ultimi 30. La pandemia di CoVid-19, l’aumento della competizione geoeconomica in un mondo sempre più chiaramente multipolare e il “ritorno” della guerra in Ucraina e Palestina hanno mostrato la necessità di un’Unione più presente sullo scacchiere internazionale, evidenziando al contempo il divario esistente fra aspirazioni e reali possibilità di agire in maniera incisiva e coerente. Internamente, tuttavia, si è visto quanto le istituzioni europee possano essere perno e motore per affrontare sfide transnazionali e globali: la mobilitazione di fondi senza precedenti a seguito della pandemia ne è la testimonianza più evidente, così come la direzione che l’Europa (e ogni sua parte) deve prendere nei prossimi anni dimostra quanto l’ambizione dei singoli Stati Membri possa essere influenzata dalle dinamiche comunitarie.
Insomma, per l’elettore europeo c’era molto da valutare, molte ragioni per andare a votare ma anche, forse proprio in virtù di una crescente complessità, per rimanere a casa e scegliere di non scegliere. Se l’affluenza a livello complessivo dà motivo di sperare in una rinvigorita partecipazione nella democrazia europea, è pur vero che una vasta gamma di grigi emerge analizzando le tendenze all’interno dei singoli Stati.
Alcuni fra i paesi più popolosi hanno infatti registrato un netto calo della partecipazione, dal vero e proprio crollo spagnolo (-11.52%) ai più contenuti ma ad ogni modo preoccupanti -5.03% e -6.19% di Polonia e Italia, rispettivamente. Nel Nord Europa (tra cui spicca il -7.83% danese) e nei paesi CEE si concentrano gli altri cali di affluenza, nonostante alcuni paesi dell’ex blocco Sovietico abbiano visto alcuni tra gli aumenti più significativi (Ungheria e Slovacchia) (Parlamento Europeo, 2024).
Come accennato, l’Italia si posiziona in controtendenza con la media europea, proseguendo in quella che pare un’inesorabile avanzata dell’astensionismo e posizionandosi - per la prima volta - al di sotto della media europea in termini di partecipazione elettorale, con meno di un elettore su due che si è recato ai seggi tra l’8 e il 9 giugno scorsi (affluenza al 48.31%).
Il caso Italiano tra dinamiche nazionali ed europee
L’affluenza deludente registrata in Italia non può essere districata da dinamiche nazionali, di carattere politico, socio-economico e culturale. Se le elezioni Europee hanno in effetti da sempre suscitato minor interesse da parte dell’elettore dei processi democratici esclusivamente domestici - dato generalizzabile all’intera Unione e da attribuire a deficit comunitari -, è innegabile che tutti gli appuntamenti elettorali in Italia hanno visto un graduale calo della partecipazione per oltre 40 anni.
Questa considerazione porta naturalmente a individuare due insiemi di fattori influenzanti il tasso di affluenza alle elezioni per l’Europarlamento: quelli ‘domestici’ radicati nel panorama nazionale, e quelli più propriamente ‘europei’.
Per quanto riguarda la prima categoria, l’astensionismo in Italia è stato considerato un ‘problema’ fin dal secolo scorso. Già nel 1999, Antonio Agosta tracciava il quadro della bassa affluenza degli italiani alle urne, identificando alcuni elementi culturali accanto ad altri strutturali alla base di tale fenomeno, tuttora attuali (Agosta, 1999).
Egli individua a livello socio-culturale un mutato sentimento nei confronti del diritto di voto, soprattutto nelle giovani generazioni. Maggiore la distanza dalla nascita dell’Italia repubblicana, maggiore la percezione del voto come “facoltà acquisita” piuttosto che come dovere civico.
Parallelamente, la “fine delle ideologie” a seguito della conclusione della Guerra Fredda avrebbe ridotto la capacità mobilitativa dei partiti tradizionali ed estinto il ruolo di posizionamento sociale e affiliazione a un gruppo ben definito racchiuso nella scelta elettorale. Oggi potremmo aggiungere come questo clima solo apparentemente post ideologico abbia favorito un’atomizzazione del panorama elettorale (italiano e non solo), con l'emergere di innumerevoli liste e partiti dal peso politico relativo ma che permettono una crescente frammentazione del voto.
Il principale elemento strutturale a dissuadere l’elettore dall’esercizio del proprio diritto di voto è un sistema elettorale di stampo maggioritario. Pur non essendo questa una caratteristica delle elezioni Europee (l’Europarlamento è eletto secondo il sistema proporzionale), non è difficile immaginare come la socializzazione a un sistema maggioritario possa disincentivare il cittadino dall’andare a votare e al contrario alimentare la disillusione nei confronti della ‘politica’ tutta. Un’attitudine negativa verso il voto è inoltre rafforzata da considerazioni di rational choice theory².
Alcuni elementi appena discussi - un disorientamento ideologico, l’aumento della complessità del panorama politico - si possono applicare anche alle elezioni Europee. Altri si configurano come dipendenti dal sistema UE in quanto tale, e possono riassumersi in principio nella rilevanza/vicinanza del Parlamento Europeo alla propria base elettorale.
Da sempre si parla di Europee come “elezioni di second’ordine” (Reif e Schmitt, 1980), ad indicare - tra l’altro - come il voto sia spesso deciso sulla base di quanto accade nell’arena politica primaria: quella nazionale. Il modo in cui vengono condotte le campagne elettorali non fa che rafforzare questa dimensione: sempre più spesso il focus è interno e autoreferenziale, si invocano plebisciti a favore o contro le formazioni politiche al governo, si trattano le elezioni Europee alla stregua di un ‘doppione’, di un banco di prova/test per le Politiche.
Alla base di questa dinamica resta però l’innegabile distanza tra le istituzioni europee e i cittadini europei, che le prime non sembrano riuscire a colmare. La scarsa informazione riguardo a quando e come si tengono le elezioni (secondo l’Eurobarometro primaverile 2024, solo il 14% dei cittadini era in grado di indicare con precisione quando si sarebbero svolte le elezioni) testimonia da sola la difficoltà nel raggiungere la cittadinanza in maniera efficace e sopratutto diretta da parte di Bruxelles.
Tuttavia, l’importanza e l’entità degli interventi attuati negli ultimi anni a livello europeo potrebbero alimentare un’immagine più autonoma dell’UE, favorendo l’interesse nei propri confronti e una partecipazione più attiva dell’elettorato europeo. In questo senso, l’aumento dell’interesse nelle elezioni Europee - 60%, +11pt rispetto al 2019 - è incoraggiante (Eurobarometro Primavera 2024).
Perché l’affluenza alle elezioni Europee ci riguarda tutti
Per quanto spesso ridotti al semplice inanellamento di percentuali e numeri, il tasso di partecipazione alle elezioni (Europee) è importante e ci riguarda tutti, per almeno tre serie di ragioni.
La prima è più importante: la legittimità e rappresentatività del Parlamento Europeo. Quanto può un’assemblea eletta da appena la metà degli aventi diritto dirsi ‘voce’ del ‘popolo’ europeo?
La seconda: l’astensionismo gioca tradizionalmente a favore dei partiti populisti di (estrema) destra. Specialmente nel contesto europeo, ciò significa dare sempre maggiore spazio a formazioni euroscettiche o addirittura antieuropeiste.
La terza: il voto dei giovani. Non solo la partecipazione alle elezioni può stimolare un approccio in generale più attivo alla vita politica, ma l’esperienza delle Europee 2019 evidenzia quanto la popolazione giovane costituisca un bacino elettorale spesso sottovalutato dalla politica tradizionale ma capace di mobilitarsi intorno a tematiche trasversali: politiche climatiche, guerra, giustizia.
Se è vero che una quota di voti ‘persi’ è fisiologica in democrazia (talvolta persino benvenuta), un tasso di partecipazione eccessivamente basso rischia di delegittimare e indebolire l’unico organo europeo eletto dai cittadini, in particolare all’interno di un contesto polarizzato come quello attuale.
Note:
¹ Anno in cui si è votato per la prima volta per l’Europarlamento. Da quelle elezioni, l’affluenza ha subito un calo costante, passando dal 61.99% al minimo storico del 41.61 nel 2014.
² Secondo Downs l’elettore razionale vota solo se l’utilità di recarsi alle urne è maggiore di quella data dall’astenersi. Essendo la probabilità che il voto individuale sia determinante per l’esito delle elezioni tendente a zero, il cittadino dovrebbe razionalmente decidere di astenersi percependo i costi associati all’esercizio del proprio diritto maggiori dei potenziali benefici. Il reale comportamento del corpo elettorale è, pertanto, irrazionale (ecco il paradosso del non voto).
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