Il conflitto israelo-palestinese - Strategie di difesa a confronto: La Cultura Strategica Israeliana e la Guerra Irregolare Palestinese

  Focus - Allegati
  16 gennaio 2025
  16 minuti, 51 secondi

Abstract

Proseguiamo il nostro ciclo di pubblicazioni sul Conflitto israelo-palestinese analizzando il rapporto tra la sproporzione militare e la resilienza delle parti in conflitto, evidenziando come le capacità tecnologiche e organizzative israeliane si contrappongano alle strategie irregolari adottate da Hamas. Il conflitto tra Israele e le organizzazioni palestinesi, come Hamas, rappresenta uno dei più complessi e prolungati esempi di guerra asimmetrica contemporanea.

Autori

Jaohara Hatabi - Senior Researcher G.E.O. Politica

Alessandro Moretti - Junior Researcher G.E.O. Politica

Introduzione

All’interno della definizione di guerra asimmetrica si possono trovare diverse accezioni in base al carattere dell’asimmetria considerata (Gray, 2007). La prima riguarda la natura degli attori: il confronto tra un attore statale e uno non-statuale presuppone un’asimmetria nello status politico e legale dei belligeranti. Con la seconda invece si pone il focus sulle tattiche e sui metodi impiegati nel corso delle operazioni: le operazioni convenzionali utilizzate dagli eserciti regolari vengono a scontrarsi con metodi non convenzionali come terrorismo e azioni di guerriglia (Calwell, 2007).

Questo quadro concettuale trova una chiara applicazione nel confronto tra la cultura strategica israeliana e la guerra irregolare palestinese. Da un lato, Israele, in quanto Stato, fa affidamento su una strategia basata sulla deterrenza, la superiorità tecnologica e la proiezione di forza militare, elementi che riflettono una visione centrata sulla sicurezza nazionale e sulla sopravvivenza in un contesto ostile. Dall’altro lato, le organizzazioni palestinesi non-statuali come Hamas, operano attraverso tattiche non convenzionali, tra cui il terrorismo, la guerriglia urbana e l’utilizzo strategico della popolazione civile, incarnando le dinamiche tipiche di una guerra irregolare. Questa contrapposizione non solo evidenzia le differenze operative e ideologiche tra i due attori, ma pone anche interrogativi sulla capacità di Israele di adattare la propria cultura strategica a un conflitto intrinsecamente asimmetrico e prolungato.

Cultura strategica israeliana: nascita e sviluppo storico

La storia del Popolo ebraico è costellata da ondate di violenza protratte dall’antichità ai giorni nostri. La storiografia ebraica riporta la relazione degli ebrei con l’ambiente circostante come un “agnello in mezzo ai lupi”, un’eterna vittima dei propri vicini; questa auto-percezione viene definita dall’espressione am levadad yishkon, cioè una Nazione (intesa come popolo) che dimorerà in solitudine (Arian, 1989). Questa visione, consolidata nella Diaspora dopo numerose esperienze negative, ha lasciato un segno sulla percezione del Popolo ebraico, venendo trasposta nel tempo alla realtà geopolitica in evoluzione in risposta alla necessità di sopravvivenza in un contesto regionale ostile allo Stato di Israele.

Nel periodo immediatamente successivo al 1948, due scuole di pensiero strategico presero forma: la scuola interventista, guidata da Ben-Gurion, e la scuola moderata, guidata da Moshe Sharett. La prima era orientata al mantenimento della sicurezza attraverso il ricorso al potere militare per mostrare alla popolazione araba l’inutilità e i potenziali costi di un conflitto. La forza era considerata l’unico linguaggio che gli arabi capivano e, di conseguenza, Israele doveva dimostrare, di tanto in tanto, la propria forza e la volontà di usarla. La pace sarebbe giunta solo come sottoprodotto della consapevolezza, da parte degli arabi, che Israele non poteva essere sconfitto. Al contrario, la scuola di pensiero di Sharett, rigettava la conclusione che Israele sarebbe stato costretto a combattere per sempre contro i palestinesi e il mondo arabo, pur condividendo l’idea che l’uso della forza fosse un’arma inevitabile in situazioni estreme, Sharett insisteva sul fatto che il suo utilizzo dovesse essere scrupoloso e selettivo. Secondo la scuola "moderata", Israele mancava delle risorse necessarie per sfidare il mondo arabo in un conflitto prolungato e, pertanto, doveva contenere, quando possibile, l’ostilità araba. Infatti, questa scuola nutriva fiducia nella possibilità della pace, aveva un’immagine degli arabi più flessibile rispetto agli "interventisti" e mostrava una maggiore empatia per gli effetti che il comportamento israeliano poteva avere sulla popolazione araba.

Successivamente, il sociologo Baruch Kimmerling, ha identificato tre “orientamenti” all’interno della società israeliana: l’orientamento alla sicurezza, l’orientamento al conflitto e l’orientamento alla pace. Secondo l’orientamento alla sicurezza, Israele si trova impegnato in una battaglia per la sopravvivenza contro i suoi vicini arabi, e una grave sconfitta militare significherebbe l’annientamento della popolazione ebraica israeliana. Il mezzo principale per prevenire ciò è il mantenimento di una superiorità militare assoluta e permanente nella regione. L’orientamento al conflitto presuppone che il conflitto tra arabi ed ebrei non sia altro che un’ulteriore rappresentazione dell’antisemitismo storico. Questo gruppo crede che il potere e la forza militare siano gli unici fattori rilevanti nelle relazioni tra gruppi nazionali, etnici o religiosi. Le guerre periodiche sono inevitabili e devono essere vinte, subordinando tutti gli altri obiettivi collettivi o privati a questa priorità. In ultimo, l’orientamento alla pace si colloca all’estremità opposta rispetto al precedente, e considera il conflitto arabo-israeliano al pari di una qualsiasi altra controversia che può essere risolta attraverso un negoziato. Tale gruppo inquadra il conflitto principalmente in termini di interessi materiali, come terra, mercati, confini e risorse idriche. Secondo questa visione, la pace rappresenta la strada per un ulteriore sviluppo di democrazia, crescita economica e progresso culturale in Israele. La pace è definita come l'accettazione di Israele nella regione come Stato e società legittimi.

Principi fondamentali e dottrine operative

Lo sviluppo della dottrina militare israeliana e la sua applicazione in guerra, comprese le relative limitazioni, offrono numerosi esempi di come la cultura strategica contribuisca a determinare i mezzi e i fini appropriati per garantire la sicurezza. La cultura strategica israeliana si fonda su un insieme di principi fondamentali e dottrine operative che riflettono le sfide esistenziali affrontate dallo Stato di Israele sin dalla sua nascita. La posizione geopolitica vulnerabile, la mancanza di profondità strategica e le limitate risorse hanno modellato un approccio alla sicurezza centrato sulla deterrenza, sulla superiorità militare e sulla mobilitazione rapida. Israele considera la sopravvivenza nazionale il suo obiettivo primario, con un’enfasi particolare sul mantenimento di una forza militare capace di dissuadere eventuali aggressioni e, se necessario, di vincere rapidamente eventuali conflitti. La necessità di garantire la sicurezza ha portato a privilegiare strategie offensive piuttosto che difensive, come dimostrato dalla guerra dei Sei Giorni del 1967, in cui un attacco preventivo fu ritenuto indispensabile per ristabilire la deterrenza di fronte alle minacce egiziane.

La dottrina militare israeliana si caratterizza anche per la capacità di adattarsi a conflitti asimmetrici e irregolari, come quelli con i gruppi palestinesi. Da un lato, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) mantengono un’elevata efficienza operativa, sostenuta da tecnologie avanzate e da un sistema di riserva che mobilita gran parte della popolazione maschile adulta. Tuttavia, questa mobilitazione ha limiti temporali ed economici significativi, come evidenziato durante la guerra di logoramento del 1970, che costrinse Israele a intensificare le proprie operazioni contro l’Egitto. Allo stesso tempo, l’esperienza di conflitti prolungati come l’Intifada del 1987 ha dimostrato i limiti delle soluzioni esclusivamente militari. In quella circostanza, il comando dell’IDF, guidato da Dan Shomron, riconobbe che l’insurrezione palestinese richiedeva una risoluzione politica piuttosto che una repressione militare totale, per evitare di compromettere le norme sociali e la coesione nazionale.

Un altro aspetto fondamentale della cultura strategica israeliana è il legame tra sicurezza e identità nazionale. La dottrina israeliana riflette spesso un ethos biblico e storico, in cui la sopravvivenza ebraica è vista come un imperativo morale. Questo si è manifestato, ad esempio, nell’“Operazione Ira di Dio” dopo il massacro di Monaco del 1972, quando Israele intraprese una campagna mirata contro i membri di Settembre Nero, basandosi sul principio di "occhio per occhio". Tuttavia, l’approccio israeliano è condizionato anche da vincoli etici che impediscono soluzioni estreme, come l’annessione completa dei territori occupati o la creazione di uno Stato binazionale, poiché tali opzioni sarebbero in conflitto con i valori fondamentali dello Stato ebraico.

Struttura militare

Le strutture militari e di intelligence israeliane rappresentano il pilastro operativo della cultura strategica del paese e incarnano una relazione simbiotica con la società israeliana. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e le agenzie di intelligence, come il Mossad e lo Shin Bet, non sono solo istituzioni funzionali alla sicurezza dello Stato, ma vere e proprie espressioni della coesione nazionale e della visione collettiva della sopravvivenza in un contesto ostile. Israele adotta un modello di “popolo in armi”, dove il servizio militare obbligatorio per uomini e donne non è semplicemente un obbligo legale, ma un rito di passaggio che rafforza l’identità nazionale e cementa il legame tra individui e Stato.

Le IDF sono state create per “difendere l’esistenza, l’integrità territoriale e la sovranità della Stato di Israele” e per “proteggere gli abitanti di Israele e combattere ogni forma di terrorismo che minacci la vita quotidiana”. Si può dire che la storia delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) affondi le proprie radici nella guerra irregolare: queste origini risalgono alla creazione delle "Special Night Squads" (SNS) durante la rivolta araba (1936–1939). Le SNS, organizzate dal capitano scozzese Charles Orde Wingate, erano unità di milizia miste (composte da inglesi ed ebrei), attive dal giugno 1938, che conducevano pattugliamenti e incursioni in profondità nei territori nemici. Tecnicamente, le SNS non erano forze speciali (SOF) in senso stretto, ma presentavano molte caratteristiche strutturali e un modus operandi tipico delle SOF: erano costituite da volontari, dovevano soddisfare criteri di selezione piuttosto elevati e operavano in unità di piccole dimensioni, di forza pari a una compagnia o inferiore. Sebbene l’esperienza delle SNS sia durata poco più di un anno, la loro eredità può essere considerata di fondamentale importanza, poiché ha contribuito in modo significativo alla nascita dell’ethos delle IDF. Moshe Dayan, Yigal Allon e molte altre figure di spicco che avrebbero plasmato lo spirito di corpo delle IDF prestarono infatti servizio nelle SNS.

Il legame tra le strutture militari e di intelligence e la società israeliana si manifesta anche attraverso una profonda penetrazione nella vita quotidiana e culturale. Il servizio militare, obbligatorio per quasi tutti i cittadini, funge da esperienza unificante che trascende le differenze etniche, religiose e sociali, anche se con eccezioni significative, come il trattamento riservato alle comunità ultra-ortodosse e arabe israeliane. Questa immersione nell’apparato di sicurezza non solo crea un senso di appartenenza e di missione condivisa, ma genera anche un’impronta duratura nella mentalità collettiva. La presenza di ex militari nelle posizioni chiave del governo, dell’economia e dell’industria tecnologica è un esempio tangibile di come le competenze acquisite durante il servizio militare si traducano in leadership civile e innovazione, contribuendo al dinamismo del paese.

L’interconnessione tra sicurezza e società è ulteriormente rafforzata dalla narrativa storica e culturale israeliana, che pone la sopravvivenza del popolo ebraico come valore supremo. Questo principio giustifica non solo l’investimento massiccio nelle strutture di sicurezza, ma anche la loro intrusione nelle politiche quotidiane e nelle scelte di vita dei cittadini. La costante minaccia percepita, sia interna che esterna, favorisce un atteggiamento di vigilanza permanente e una disponibilità a sacrificare diritti individuali per la sicurezza collettiva. Ad esempio, il Mossad e lo Shin Bet hanno un mandato che spesso li porta a operare nella cosiddetta gray zone.

Guerra irregolare palestinese: nascita e sviluppo storico

Il ricorso palestinese alla guerriglia può essere fatto risalire agli Anni ’30, ma raggiunse forme più organizzate negli Anni ’60, quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) iniziò a lanciare attacchi contro Israele dalle sue basi in Giordania. Con l’elezione di Arafat a portavoce del movimento e l’abbandono della strategia degli attacchi al di fuori della Palestina e del ricorso alla guerriglia, l’OLP si trasformò gradualmente in un movimento più politico che militare. Questa trasformazione non convinse tutti i suoi membri, tanto che nel 1987, da membri fuoriusciti della Fratellanza Musulmana e dell’OLP, nacque Hamas. Il movimento si distinse da subito per la sua intransigenza e per l’obiettivo dichiarato di eliminare lo Stato di Israele e creare uno Stato islamico in Palestina. Nel 2008, dopo un cessate il fuoco con Israele, Hamas riesce a prevalere sulla fazione rivale Fatah, corrente dell’OLP, consolidando il suo controllo sulla Striscia di Gaza e affermandosi come Potenza dominante, in modo particolare nella Striscia di Gaza.

Strategia e tattiche (tunnel, razzi e missili, propaganda)

Dal 2007, anno in cui Hamas prese effettivamente il controllo della Striscia, due anni dopo il disengagement israeliano dall’area, il movimento iniziò a fortificare Gaza.

Uno dei pilastri fondamentali su cui si basa la dottrina militare del braccio armato di Hamas, ossia le brigate al-Qassām, è l’utilizzo dei tunnel. Infatti, un complesso sistema di tunnel attraversa la Striscia e offre basi sotterranee difficili da individuare e colpire dalle operazioni aeree israeliane. La distruzione di questi tunnel è un’operazione complessa e costosa, con implicazioni politiche significative. I tunnel attraversano le zone più densamente popolate della Striscia e i loro ingressi si trovano spesso nei pressi di infrastrutture civili.

Questo aspetto, come dimostrato dal conflitto in corso, rappresenta un ulteriore pilastro della dottrina militare di Hamas: esercitare una forte pressione sull’opinione pubblica internazionale. La leadership del movimento ha sempre ritenuto che il tempo fosse il suo più grande alleato. Le operazioni militari israeliane nella Striscia, soprattutto quelle terrestri, comportano un elevato rischio di causare vittime collaterali, dato l’elevato livello di densità abitativa e le regole di ingaggio dell’esercito israeliano.

Più a lungo durano queste operazioni, più alto è il numero di morti civili, generando tre effetti principali: pressioni internazionali sempre più intense per interrompere le operazioni israeliane; un crescente malcontento nelle opinioni pubbliche arabe, che potrebbe spingere i Governi della regione a intervenire militarmente; e un aumento delle tensioni interne in Israele, con possibili proteste da parte delle minoranze palestinesi o arabe. Inoltre, una prolungata escalation potrebbe favorire l’intervento di Hezbollah o di altri gruppi armati, amplificando ulteriormente il conflitto e aprendo altri fronti per Israele.

Un altro cardine nella dottrina militare di Hamas è il ricorso a razzi, missili e mortai, come dimostrato sin dal 2008 durante l’operazione israeliana Piombo Fuso. Il movimento, seppur sconfitto in quell’occasione, riuscì a ricorrere massicciamente all’uso di razzi e artiglieria, con truppe terrestri impiegate per difendere le unità di lancio e la propria leadership. La componente missilistica delle Brigate al-Qassam è tuttora il fulcro della capacità offensiva di Hamas ed è equipaggiata con materiale proveniente da Libia, Siria, Iran e una parte di produzione autoctona.

Nonostante i tentativi di Israele di imporre un blocco navale, Hamas è riuscita ad accumulare un arsenale missilistico significativo, stimato nel 2021 in circa 30.000 razzi. Tra questi ci sono i Qassam Q-12 e Q-20, prodotti localmente, con una gittata di 12 e 20 km, i razzi S-40 e Sajjeel-55, che raggiungono rispettivamente 40 e 55 km. Razzi come gli M-75, J-80 e J-90, con una gittata superiore ai 75 km, possono colpire Tel Aviv da Gaza.

Tra le armi di origine iraniana vi sono i razzi da 107 mm (8 km di gittata) e i missili Fajr-5, capaci di raggiungere fino a 75 km di gittata. Inoltre, le brigate Al-Qassam dispongono di missili siriani M302, in grado di colpire obiettivi fino a 180 km.

L’utilizzo dei razzi sia a livello tattico che strategico è una costante del modo di combattere palestinese, tanto che le forze di terra spesso sono utilizzate come scudo per permettere ai lanciatori di continuare a sparare razzi e missili, mantenendo la pressione sul nemico e dimostrando la propria resilienza alle invasioni di terra. La centralità dei razzi è stata ribadita anche dalla Guardia Rivoluzionaria Iraniana, che tra le proprie priorità strategiche del 2014 poneva al primo posto lo sviluppo in Palestina di una produzione autoctona di razzi. A dimostrazione di ciò, nel corso dell’operazione Piombo Fuso del 2008, Hamas organizzò le difese in tre linee, facendo massiccio ricorso a tattiche basate su IED, imboscate e fuoco di mortaio e razzi. In quell’occasione Hamas subì perdite significative, pur riuscendo a proteggere la maggior parte della propria leadership. La resilienza delle capacità missilistiche di Hamas fu dimostrata dal fatto che l’organizzazione riuscì a mantenere per tutta la durata del conflitto, seppur con un trend calante, una pressione sul nemico tramite l’utilizzo dei razzi.

Comparazione tra le due fazioni

Entrambe le fazioni del conflitto si scontrano con alcuni evidenti vulnus. Israele affronta difficoltà legate alla complessità delle operazioni in ambienti urbani densamente popolati e alla gestione delle perdite civili, oltre che alle proprie. Non è inoltre scontato che l’opinione pubblica israeliana sia a favore di conflitti di lunga durata entro la Striscia e ciò pone effettivamente il fattore tempo tra i vantaggi di Hamas nella maggior parte degli scenari. Il tempo può giocare a favore di Hamas per un’altra ragione: in termini strettamente economici, un conflitto nella Striscia ha dei costi esorbitanti per lo Stato di Israele, così come l’intercettazione dei razzi. Si stima infatti che per abbattere un razzo Qassam del costo di 300-800 dollari, Israele spenda tra i 50.000 e i 100.000 dollari.

Da un punto di vista capacitivo, l’IDF è tra gli eserciti più potenti del mondo, secondo il Global Firepower Index, un database che valuta fattori quali numero di truppe, armamenti, tecnologia e risorse finanziarie. L'arsenale israeliano comprende imbarcazioni missilistiche avanzate, carri armati, elicotteri d'attacco e una grande flotta di droni. Ma la forza principale dell'IDF risiede nella sua aeronautica, che è in gran parte composta da velivoli americani all'avanguardia, tra cui centinaia di F-16 e F-35.
Hamas invece, oltre a un’intrinseca inferiorità tecnologica rispetto al suo avversario deve scontrarsi anche con una non ottimale conformazione del proprio territorio. La lunga e sottile Striscia di Gaza, infatti, non offre ai miliziani alcuna profondità strategica, concedendo allo stesso tempo numerosi punti d’ingresso alle forze israeliane, come è stato dimostrato dall’invasione di terra di Gaza nell’ottobre 2023.

Si può affermare che il conflitto tra Israele e le organizzazioni palestinesi evidenzi la complessità delle guerre asimmetriche, dove la sproporzione di risorse e capacità militari si intreccia con dinamiche sociali, politiche e ideologiche. Israele, forte di un esercito altamente tecnologico e ben organizzato, affronta un avversario che sfrutta l'elemento territoriale, la resilienza della popolazione civile e strategie irregolari per colmare il divario militare. Hamas, dall’altro lato, pur trovandosi in una posizione svantaggiata in termini di potenza di fuoco, trova forza nella capacità di mobilitare la propria base sociale e di attirare l’attenzione internazionale sulla causa palestinese. Questo scenario, aggravato da cicli di violenza reiterati, mette in evidenza l'urgenza di un approccio multilaterale che vada oltre la risposta militare e consideri soluzioni politiche e umanitarie che possano spezzare il ciclo di ostilità.

Nella prossima pubblicazione di questo ciclo, verranno analizzate le dinamiche regionali rispetto al conflitto, esplorando sia le risposte da parte dei Paesi arabi sia della comunità internazionale.

BIBLIOGRAFIA

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