Il Delta del Niger tra Sfruttamento Petrolifero e Resistenza Comunitaria

  Focus - Allegati
  05 luglio 2025
  17 minuti, 47 secondi

Alessandro Bachechi (Junior Researcher G.E.O Ambiente)

Abstract

Il Delta del Niger è una regione ricca di risorse ma segnata da gravi disuguaglianze, degrado ambientale e marginalizzazione politica, In questo contesto, l’attivismo violento è emerso come risposta estrema alla repressione statale, al fallimento delle proteste pacifiche e alla mancata redistribuzione delle risorse. Le compagnie petrolifere, attraverso forme di responsabilità sociale spesso tardive e strumentali, non sono riuscite a rispondere alle istanze locali, contribuendo ad alimentare tensioni e conflitti.

Introduzione

Il Delta del Niger è un’area situata lungo la costa atlantica del sud della Nigeria, nota per la sua straordinaria biodiversità e ricchezza culturale. Rappresenta la terza zona umida più estesa al mondo e copre da sola quasi il 10% dell'intero territorio nazionale. La regione ospita tra i 20 e i 36 milioni di abitanti, suddivisi in circa 40 gruppi etnici che parlano oltre 250 dialetti. Questa complessa composizione etnica è cruciale per comprendere le tensioni legate alla distribuzione dei proventi derivanti dall’esportazione del petrolio.

I conflitti del Delta del Niger affondano le radici in una lunga storia di emarginazione, trascuratezza e esclusione politica nei confronti delle minoranze etniche da parte dei governi nigeriani. Questa situazione ha alimentato un forte senso di ingiustizia, favorendo dinamiche di competizione etnica ed accrescendo il malcontento verso la distribuzione iniqua della ricchezza petrolifera ed i gravi danni ambientali subiti dalla regione.

A livello globale, il Delta del Niger è noto per la presenza di almeno 600 giacimenti petroliferi, situati sia sulla terraferma che in mare aperto. L’estrazione del greggio rappresenta la principale fonte di reddito per la Nigeria, contribuendo tra l’80 e il 90% alle entrate dello Stato. Tuttavia, paradossalmente, il Delta del Niger è una delle zone più povere del Paese.

L’attività estrattiva, iniziata già durante il periodo coloniale britannico, ha avuto un impatto ambientale devastante. Le perdite di petrolio e l’inquinamento hanno compromesso in modo irreversibile l’ecosistema locale, rendendo impraticabili le attività tradizionali di sussistenza come la pesca e l’agricoltura. Inoltre, il controllo fortemente centralizzato delle risorse petrolifere ha impedito lo sviluppo di infrastrutture e di un’economia locale capace di sostenere le comunità, contribuendo a radicare un diffuso senso di abbandono e bisogno di protesta.

Storia dello Sfruttamento del Delta del Niger

Lo sfruttamento del petrolio nel Delta del Niger ha avuto inizio tra gli anni ’50 e ’60 con l’arrivo di Shell British Petroleum, ancora oggi tra le principali compagnie attive nella regione. Dopo l’indipendenza del 1960, il governo nigeriano cercò rapidamente di centralizzare il controllo delle risorse, considerandole strategiche per l’economia nazionale. All’epoca, la Nigeria era divisa in quattro regioni, inclusa quella Orientale, a maggioranza Igbo, che comprendeva anche le minoranze del Delta.

Nel 1967, con la guerra civile tra il governo federale e il secessionismo del Biafra, guidato dagli Igbo, il Paese fu riorganizzato in 12 Stati federati. Sebbene presentata come una mossa verso una maggiore autonomia, questa riforma ridusse l’influenza delle minoranze del Delta, limitando il loro accesso diretto ai giacimenti petroliferi. Mentre l’élite Igbo appoggiò il Biafra, molte minoranze del Delta sostennero il governo centrale nella speranza di ottenere maggiore autonomia. Tuttavia, dopo la sconfitta del Biafra nel 1970, queste comunità si ritrovarono ulteriormente emarginate.

Le compagnie petrolifere internazionali giocarono un ruolo ambiguo, sostenendo economicamente entrambi gli schieramenti in base ai propri interessi. La guerra è spesso letta come un conflitto per il controllo delle risorse, e con la vittoria del governo federale, il processo di centralizzazione fiscale si intensificò: nuove leggi permisero allo Stato di trattenere la quasi totalità dei proventi derivanti dal petrolio, riducendo l’autonomia finanziaria delle regioni produttrici.

Le minoranze, tra cui gli Ijaw e gli Ogoni, si sentirono tradite e private del controllo sulle risorse delle loro terre, divenendo simbolo della marginalizzazione. Un fattore chiave di questa dinamica è il principio di derivazione: se nel 1966 le regioni produttrici ricevevano il 50% dei ricavi, negli anni ’90 questa quota scese all’1,5%, aggravando la percezione di spoliazione.

Questa redistribuzione iniqua ha alimentato un forte risentimento e un diffuso senso di ingiustizia, spesso descritto dalle comunità locali come una vera e propria forma di colonialismo interno.

L’Impatto dell’industria petrolifera sull’Ambiente e sulle Comunità

Nel delicato contesto del Delta del Niger, le questioni ambientali rappresentano uno dei principali fattori scatenanti delle difficoltà sociali, economiche e sanitarie che affliggono le popolazioni locali. Da oltre sessant’anni, le operazioni legate all’estrazione di petrolio hanno generato effetti devastanti sull’ambiente, compromettendo irreversibilmente la qualità della vita delle comunità che abitano la regione.

Le attività dell’industria petrolifera hanno comportato:

  • Fuoriuscite di petrolio: oltre 13 milioni di barili sversati dal 1958 secondo le Nazioni Unite, con incidenti frequenti causati da perdite strutturali, sabotaggi e infrastrutture obsolete. Gli sversamenti hanno contaminato terreni agricoli e corsi d'acqua, riducendo drasticamente la fertilità del suolo e la disponibilità di pesce.
  • Gas flaring: la combustione a cielo aperto del gas associato all’estrazione, nonostante sia vietata in molti paesi, è ancora largamente praticata in Nigeria. Oltre il 75% del gas viene bruciato, rilasciando sostanze tossiche e metalli pesanti nell’atmosfera, con gravi conseguenze per la salute pubblica.
  • Scarico di rifiuti chimici: fanghi di perforazione, acque reflue e rifiuti tossici vengono dispersi in stagni, zone umide e acque costiere, provocando danni permanenti agli ecosistemi marini e terrestri.
  • Distruzione degli ecosistemi: terre arabili, foreste e habitat naturali sono stati compromessi, rendendo difficile la sopravvivenza tramite l’agricoltura e la pesca, attività tradizionali per molte comunità del Delta.

Gli effetti sulle comunità locali sono drammatici. La contaminazione dell’acqua potabile, documentata anche da un rapporto del Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) nel 2011, ha mostrato livelli di benzene fino a 900 volte superiori ai limiti dell’OMS. Secondo lo stesso rapporto, sarebbero necessari dai 25 ai 30 anni per una bonifica completa della zona. Le popolazioni colpite, come gli Ogoni, denunciano un’alta incidenza di tumori, un tasso di mortalità infantile elevato, e l’impossibilità di accedere a fonti alimentari sicure.

La percepita negligenza delle compagnie petrolifere internazionali nell’affrontare questi impatti ambientali negativi e la conseguente distruzione dei mezzi di sussistenza rappresentano uno dei motivi centrali delle rivendicazioni delle comunità. Gli abitanti del Delta si sentono trascurati, emarginati e traditi, esclusi dalla redistribuzione dei profitti generati dal petrolio estratto dalle loro terre, pur sopportando tutti i costi ambientali e sociali. Le comunità sostengono che le compagnie debbano sostenere le spese per i danni ambientali e l’uso del suolo, oltre a fornire sostegno per lo sviluppo e mezzi di sussistenza alternativi. In più occasioni, compagnie e autorità governative sono state accusate di distorcere l’immagine delle comunità, etichettandole negativamente nel contesto delle richieste di risarcimento, e oscurando le vere radici del problema.

Questa situazione è al centro del processo avviato a Londra nel febbraio 2025, dove circa 50.000 membri di due comunità Ogoni hanno citato in giudizio la compagnia Shell, accusandola di essere responsabile dell’inquinamento del Delta del Niger avvenuto tra il 1989 e il 2020. Nonostante un accordo di risarcimento ed il successivo avvio di un progetto di bonifica, le comunità locali denunciano che l’inquinamento persiste, che l'acqua non è potabile, e che agricoltura e pesca sono ancora impraticabili.

Shell, dal canto suo, sostiene di aver agito responsabilmente e accusa le attività illegali di furto di greggio di essere responsabili di parte dei danni. Tuttavia, la percezione diffusa tra le comunità è quella di abbandono e sfruttamento, alimentata dall’assenza di risposte efficaci, dalla mancanza di compensazioni adeguate e dal degrado ambientale ancora visibile.

La Risposta delle Comunità Locali

Le popolazioni etnicamente marginalizzate, in particolare quelle contrarie allo sfruttamento indiscriminato del petrolio, hanno sviluppato nel tempo una varietà di strategie per esprimere il loro dissenso e rivendicare giustizia. Dall’attivismo nonviolento degli Ogoni negli anni Novanta, alle azioni armate di gruppi come il MEND (Movement for the Emancipation of the Niger Delta) ed i Niger Delta Avengers, il filo conduttore è sempre lo stesso: la difesa di un territorio devastato e di diritti negati.

Negli anni Novanta, sotto la guida carismatica di Ken Saro-Wiwa, il Movement for the Survival of the Ogoni People (MOSOP) adottò una linea d’azione pacifica. Gli Ogoni chiedevano autonomia locale, controllo delle risorse e giustizia ambientale, denunciando i disastri causati dalle operazioni di Shell. Le loro armi erano le manifestazioni, le campagne mediatiche e l’appello alla comunità internazionale. Ma la risposta dello Stato nigeriano fu brutale: la repressione culminò nella controversa esecuzione di Saro-Wiwa e di altri otto attivisti nel 1995. Quell’evento segnò una svolta drammatica, trasformando la lotta per il Delta del Niger da resistenza civile a conflitto armato.

Come affermato da un testimone citato da Zainab Ladan Mai-Bornu (2020):

“Abbiamo cominciato a chiederci: perché continuiamo con questa strategia pacifica? Non funziona. Il governo ascolta solo quando c’è violenza.”

La frustrazione crescente ha alimentato un cambiamento di strategia. Molti giovani hanno iniziato a utilizzare la violenza come mezzo per attirare l’attenzione dello Stato e costringerlo a modificare politiche percepite come ostili verso le comunità produttrici di petrolio. La protesta, inizialmente verbale, si è progressivamente trasformata in un linguaggio fatto di blocchi stradali, sabotaggi e minacce alle infrastrutture petrolifere. Questo è particolarmente evidente tra gli Ijaw, uno dei gruppi etnici più numeroso della regione.

Per decenni, le richieste delle comunità locali per compensazioni ambientali sono rimaste inascoltate. Le compagnie petrolifere si sono trincerate dietro gli accordi firmati con il governo centrale, scaricando la responsabilità dello sviluppo dell’area sullo Stato. Ma né le aziende né lo Stato hanno garantito benefici concreti agli abitanti.

Nel frattempo, lo Stato ha risposto sia alla protesta pacifica che a quella violenta con la repressione, militarizzando progressivamente l'intera regione. Gruppi armati sono stati repressi con operazioni come Operation Fire for Fire, Operation Restore Hope, e Operation Hakuri, spesso impiegando la forza militare in modo eccessivo e indiscriminato.

Un ulteriore punto di rottura si verificò nel novembre 1999 con il massacro di Odi. Dopo l’uccisione di sette poliziotti e tre soldati da parte di militanti locali, oltre 3000 soldati entrarono nella città con più di 50 camion, radendola al suolo. Il bilancio fu devastante: tra 1000 e 2500 morti, intere famiglie massacrate, molte donne furono stuprate, e oltre il 95% della popolazione sfollata. La reazione dello Stato, definita la più grande operazione militare interna mai registrata nella regione, fu interpretata da molti come un segnale definitivo: il governo civile era disposto a usare metodi violenti contro la propria popolazione.

È in questo contesto che nacquero e si rafforzarono gruppi armati organizzati come il Movement for the Emancipation of the Niger Delta (MEND). Fondato nel 2005 da una coalizione di gruppi armati Ijaw, il MEND dichiarava di voler ottenere il controllo diretto delle risorse petrolifere da parte delle popolazioni indigene. Le sue azioni, rapimenti, sabotaggi, attacchi a impianti e oleodotti, portarono a gravi danni all’economia nigeriana. Nel 2009, attacchi simultanei alle infrastrutture di Shell, Chevron e Agip portarono alla chiusura temporanea di molte operazioni.

Questi gesti estremi sono il riflesso di un sentimento condiviso: le comunità si vedono come stakeholder legittimi, i cui diritti sono stati violati. La violenza diventa così una forma di comunicazione, un modo per affermare la propria centralità in un sistema che li ha ignorati per troppo tempo.

Nel 2016, dopo il fallimento del processo di pace e del programma di amnistia del 2009, nacquero i Niger Delta Avengers (NDA). Con l’operazione “Red Economy”, il gruppo annunciò l’obiettivo di distruggere l’economia nigeriana colpendo l’infrastruttura petrolifera. In pochi mesi, gli attacchi del NDA causarono una riduzione del 50% della produzione nazionale di petrolio, facendo crollare le esportazioni e aggravando la crisi economica del paese. Anche se una tregua fu negoziata alla fine del 2016, la stabilità rimane fragile: nel 2021, nuovi gruppi giovanili hanno minacciato un ritorno delle ostilità e tra il 2014 ed il 2025 si osserva la ripresa delle attività da parte di gruppi armati delle comunità locali.

Il Ruolo delle Compagnie Petrolifere

Le compagnie petrolifere internazionali (MNOCs) sono i principali attori dell’esplorazione e produzione di petrolio e gas nel Delta del Niger. Aziende come Shell, Chevron Texaco, Exxon Mobil, TotalFina e Agip (ENI) controllano la maggior parte della produzione nazionale, con Shell che per anni ha coperto da sola circa metà della produzione giornaliera.

La risposta delle compagnie alla crescente ostilità da parte delle comunità è stata inizialmente di supporto alla repressione statale. Molte imprese hanno richiesto la presenza di forze di sicurezza e fornito supporto logistico alla polizia o all’esercito per contenere le proteste, con esiti spesso brutali. In parallelo, le MNOCs hanno promosso iniziative di responsabilità sociale d’impresa (CSR) per migliorare la propria immagine. Tuttavia, queste iniziative sono state criticate per mancanza di sostenibilità, trasparenza e impatto reale. Ad esempio, i progetti di ExxonMobil (scuole e centri sanitari) sono stati spesso offerti una tantum, senza una pianificazione a lungo termine.

La persistente distruzione ambientale, come la continua pratica del gas flaring nonostante le richieste di riduzione, ha rivelato una scarsa urgenza da parte delle compagnie nel risolvere problemi strutturali. In molte situazioni, la mancanza di piani di emergenza efficaci ha lasciato intere comunità senza supporto, soprattutto quelle colpite indirettamente dalle fuoriuscite. Studi dimostrano che gli standard di vita non sono migliorati, alimentando un ciclo continuo di proteste e crisi.

Inoltre, le CSR sono state spesso strumentalizzate: molte intese o Memorandum of Understanding (MOUs) vengono negoziate solo dopo proteste, blocchi o incidenti, alimentando tra i giovani la percezione che solo la violenza porti risultati concreti. Questo ha rafforzato la convinzione che il confronto sia una strategia necessaria per ottenere benefici dalle compagnie.

In questo contesto si inserisce il concetto di Activist Development Model, caratterizzato dall’uso di metodi altamente visibili e destabilizzanti, come manifestazioni di massa o azioni di disturbo guidate da giovani leader locali. Queste tattiche non si limitano alla violenza fisica, ma includono occupazioni, blocchi e interruzioni delle attività, che provocano perdite di ore lavorative, cali nella produzione petrolifera e danni economici allo Stato e alle compagnie. Sebbene gli effetti immediati di questo modello siano spesso di breve durata, esso è talvolta percepito come efficace per ottenere risultati a lungo termine e per forzare le compagnie a impegnarsi in progetti di sviluppo. Molti abitanti delle comunità sostengono che solo attraverso l’“attivismo conflittuale” o atti di sabotaggio si riesca ad attirare l’attenzione delle compagnie e ad aprire reali tavoli di trattativa.

In risposta alla crescente instabilità, alcune multinazionali hanno cercato di riformulare le proprie relazioni con le comunità locali, passando dal modello assistenziale e reattivo della CSR a un approccio più strutturato, noto come Community Development (CD) Model.

Questo modello punta a creare un ambiente pacifico e collaborativo, sfruttando risorse locali e donatori esterni, e costruendo relazioni durature con le comunità. Un esempio significativo è rappresentato da Shell, che ha adottato una modalità di partenariato partecipativo, coinvolgendo comunità locali e donatori nella progettazione delle iniziative. L’approccio si basa sulle cosiddette 4 P: Peace, Partnership, Progress e Prosperity, che ne delineano i principi guida. L’obiettivo centrale è di sostituire la logica del risarcimento con quella di una regolazione sociale basata sul consenso, incoraggiando forme di autodisciplina e di dialogo civile tra comunità e azienda. I workshop organizzati da Shell riflettono questa volontà di trasformare il conflitto in cooperazione attraverso la costruzione di norme comuni che possano essere riconosciute e rispettate da entrambe le parti per garantire la collaborazione. Presentato come un percorso partecipativo, numerosi osservatori sostengono tuttavia che, nonostante le intenzioni dichiarate, il modello continua a riprodurre le gerarchie tradizionali, privilegiando il rispetto dell’autorità piuttosto che un reale empowerment. In molti casi, esso è percepito come un meccanismo di gestione del consenso, utile a garantire sicurezza e stabilità per le imprese, più che a risolvere le cause profonde del conflitto.

Di fatto, il CD model mira soprattutto a trasformare le comunità in partner funzionali, fornendo loro competenze utili a partecipare nei progetti aziendali e ad allinearsi agli obiettivi delle compagnie. La responsabilità sociale d’impresa (CSR) viene così spesso incorporata in chiave reattiva e difensiva, perdendo credibilità come strumento autentico di sviluppo sostenibile.

Più recententemente si è osservato un movimento da parte delle compagnie verso un altro approccio, definito come Sustainable Community Development (SCD). Questo approccio ha posto ulteriormente maggiore enfasi sulla collaborazione con governi locali e ONG, sia internazionali sia nazionali, con l’obiettivo di affrontare in modo più integrato e duraturo le cause profonde delle tensioni.

Il rapporto tra aziende e comunità nel Delta del Niger resta comunque segnato da asimmetrie di potere, logiche di cooptazione e profonda sfiducia reciproca, ostacolando ogni possibilità di costruire percorsi inclusivi di giustizia ambientale e progresso socio economico duraturo.

Conclusione

In conclusione, il caso del Delta del Niger mostra con chiarezza come decenni di ingiustizie storiche, degrado ambientale e marginalizzazione politica abbiano alimentato un contesto esplosivo, in cui le comunità locali hanno scelto strategie sempre più radicali per farsi ascoltare. Le compagnie petrolifere internazionali, sotto pressione crescente, hanno adottato approcci apparentemente più partecipativi, ma spesso funzionali al mantenimento dell’ordine piuttosto che alla giustizia.

L’attivismo violento ha avuto l’effetto paradossale di stimolare una risposta dinamica ed in evoluzione da parte delle imprese, ma resta il dubbio se tale evoluzione sia reale, duratura e soprattutto sufficiente. La gestione delle tensioni non può ricadere esclusivamente sulle spalle delle multinazionali: serve un ruolo più incisivo dello Stato, capace di proteggere i diritti dei cittadini, sanare i danni ambientali e restituire dignità economica e sociale alle popolazioni del Delta.

Senza un intervento strutturale e coordinato, ogni tregua rischia di essere solo temporanea, e la spirale di sfruttamento e violenza, ancora una volta, tornerà a prevalere.

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