Martina Cioni (Junior Researcher G.E.O Ambiente)
Abstract
Il settore alimentare è uno dei principali responsabili delle emissioni globali di gas serra, con il settore zootecnico che da solo contribuisce per circa il 14,5% del totale. Nonostante la comunità scientifica sia a conoscenza del legame tra allevamento animale e cambiamento climatico sin dagli anni ’90, solo negli ultimi decenni questa consapevolezza ha iniziato a emergere nel dibattito pubblico e politico. Diete con un alto consumo di alimenti animali hanno una ripercussione negativa sia sull’ambiente che sulla salute delle persone. Una transizione verso modelli alimentari più sostenibili – in particolare diete plant-based – possa ridurre significativamente le emissioni, migliorare la salute globale e contribuire alla sicurezza alimentare. Tuttavia, interessi economici, disinformazione e resistenze culturali rendono più difficile l’adozione di politiche efficaci e il cambiamento dei comportamenti individuali.
Introduzione
Il cambiamento climatico è una delle sfide più importanti del nostro tempo. Provocato principalmente dalle attività umane, sta causando un aumento delle temperature globali, eventi meteorologici estremi e l’alterazione degli ecosistemi. La comunità scientifica è a conoscenza del legame che unisce i prodotti a base animale e l’emissione di gas serra sin dall’inizio degli anni ’90, nonostante questa problematica sia rimasta pressoché ignorata e sconosciuta fino alla pubblicazione del report Livestock long shadow da parte della FAO (Food and Agriculture Organization) nel 2006 (Almiron, Rodrigo-Alsina, Moreno, 2022).
La produzione alimentare è attualmente responsabile di circa un terzo delle emissioni antropiche globali di gas serra (Li, He, Shan, 2024; Welleslay, Happer, Froggatt, 2015), di cui solamente la metà, circa il 14.5%, viene prodotta dal settore del bestiame che produce prevalentemente ingenti emissioni di metano (CH4), protossido d’azoto (N2O), anidride carbonica (CO2) e ammoniaca (NH3) (Grossi, Goglio, Vitali, Williams, 2018; Papakonstantinau et al., 2024).
Le maggiori emissioni sono rappresentate dal metano che viene prodotto direttamente dal bestiame – in particolare dai ruminanti – a causa del loro complesso sistema digerente. Infatti, al suo interno avviene la cosiddetta fermentazione enterica: i microbi decompongono i materiali vegetali, producendo come materiali di scarto il metano, che poi viene rilasciato nell’atmosfera (Grossi, Goglio, Vitali, Williams, 2018; Cheng, McCarl, Fei, 2022).
Il settore zootecnico è anche uno dei principali responsabili della perdita di biodiversità e della deforestazione (Bajželj, Richards, Allwood et al., 2014; Papakonstantinau et al., 2024). Su scala globale circa il 38% dei terreni sono utilizzati per l’agricoltura e almeno due terzi di questi sono dedicati esclusivamente al bestiame, mentre almeno un terzo delle terre coltivate viene utilizzato per la produzione di mangimi per questi ultimi (Cheng, McCarl, Fei, 2022), portando ad un inevitabile effetto a catena. Le emissioni prodotte direttamente dal bestiame aggiunte alla deforestazione e allo sfruttamento del suolo aggravano ulteriormente la crisi climatica, che a sua volta si ripercuote gravosamente sulla produzione alimentare stessa tramite fenomeni naturali, come piogge acide, ondate di calore e bombe d’acqua (Owino et al., 2022; Bajželj, Richards, Allwood et al., 2014).
Nonostante le evidenti problematiche portate avanti da questo settore, esso è stato sistematicamente trascurato come fonte di gas serra dalle politiche internazionali a causa di una scarsa consapevolezza pubblica (Ripple, Smith, Haberl, 2014) e dagli interessi economici di grandi aziende alimentari. Come risultato, la domanda globale di prodotti a base animale (bestiame e prodotti latto-caseari) non ha fatto che aumentare negli ultimi decenni (Owino et al., 2022). Dal 1961 al 2013 il consumo di carne è quasi raddoppiato, da circa 63 g al giorno a 118 g al giorno, e si stima che questo trend continuerà a crescere, prevedendo un aumento del consumo della carne del 70% tra il 2010 e il 2050 (Fanzo, Miachon, 2023).
Diete plant-based: un’alternativa più sostenibile
A fronte dell’aumento della popolazione globale, che si stima raggiungerà i 9 miliardi entro il 2050 e l’incombente problema del riscaldamento globale, il settore alimentare dovrebbe sviluppare un processo allo stesso tempo sostenibile e abbastanza nutriente da sfamare tutta la popolazione. Al momento, pecca in entrambi gli ambiti. Nella maggior parte dei paesi le diete adottate non sono salutari, prevalentemente a causa di un consumo di carne al di sopra degli standard consigliati e ad un basso consumo di vegetali e frutta (Pradhan, Kropp, 2020).
Una dieta prevalentemente plant-based1 (o a base vegetale) è una delle azioni più impattanti che una persona possa fare a livello individuale nella vita di tutti i giorni per limitare l’aggravarsi del clima (Cleland et al., 2025). Ridurre il consumo di carne a livello globale aiuterebbe a mitigare il cambiamento climatico e permetterebbe ad alcune realtà, come le foreste pluviali, di continuare ad esistere (Oreskes, 2022).
Svariati studi (Springmann, Godfray, Rayner, Scarborough, 2016; Ripple, Smith, Haberl, 2014) mostrano come una dieta salutare – più equilibrata e con un basso consumo di carne – non beneficerebbe soltanto l’ambiente, ma anche la sicurezza alimentare globale e in particolare il benessere delle persone. Diete con un alto consumo di alimenti a base animale sono direttamente collegate a problemi di salute e a patologie come obesità, cancro e problemi al cuore (Li, He, Shan, 2024; Owino et al., 2022; Ripple, Smith, Haberl, 2014; Stehfest, Bouwman, Vuuren et al, 2009), tanto che si stima che queste diete inadeguate siano responsabili di circa 12 milioni di morti all’anno, circa il 15% in più di un decennio fa (Fanzo, Miachon, 2023). Al contrario, scenari che prevedono una dieta più sana hanno varie proiezioni positive: si ritiene che la mortalità globale si ridurrebbe del 6-10% e le emissioni di gas serra del settore alimentare scenderebbero fino al 70% (Springmann, Godfray, Rayner, Scarborough, 2016; Ripple, Smith, Haberl, 2014). In particolare, Springmann et al. (2014) stimano che adottando una dieta che segue le linee guida globali per una dieta più sana, la Healty Global Diets (HGD), si potrebbero evitare circa 5.1 milioni di morti all’anno, che diventerebbero 7.3 milioni con una dieta vegetariana e 8.1 milioni con una vegana, andando di conseguenza anche a beneficiare la sanità pubblica e l’aspettativa di vita globale (Stehfest, Bouwman, Vuuren et al, 2009).
A livello mondiale, diete prevalentemente plant-based potrebbero diminuire le emissioni globali del 17% (Li, He, Shan, 2024). La superficie per le coltivazioni verrebbe ridotta di circa il 5% e per i pascoli del 25% (Bajželj, Richards, Allwood et al., 2014), con conseguente disponibilità di terreno per altri scopi, come colture energetiche o riserve naturali. La ricrescita della vegetazione su queste aree abbandonate, in particolare foreste pluviali, porterebbe a un assorbimento sostanziale, anche se transitorio, di CO2 (Stehfest, Bouwman, Vuuren et al, 2009), aiutando la mitigazione climatica in modo diretto. Secondo uno studio del 2019 (Eshel, Stainer, Shepon, 2019), infatti, se l’intera popolazione americana diminuisse il consumo di carne solo del 25% le emissioni mondiali si abbasserebbero dell’1%, permettendo a molte foreste di sopravvivere e influendo sulle emissioni globali (Oreskes, 2022).
Attualmente manca ancora la conoscenza di quanto possa essere impattante la nostra dieta a livello globale, sia dal punto di vista ambientale che salutare, dimostrato anche dal fatto che il consumo di carne sta aumentando di anno in anno (Hedenus, Wirsenius, Johansson, 2014; Papakonstantinau et al., 2024). Attualmente, la maggior parte delle diete globali eccedono con il consumo di carne; in particolare nei paesi sviluppati il consumo settimanale è doppio rispetto a quello consigliato, ovvero circa 300g a settimana, mentre quello di vegetali e frutta è sostanzialmente basso. Tuttavia, in alcune regioni del mondo, come in Europa, è stato osservato negli ultimi anni un calo di consumo di carne rossa (Fanzo, Miachion, 2023), mentre l’acquisto di prodotti a base vegetale è aumentato del 49% solo tra il 2018 e il 2020, con un picco in Germania che raggiungeva il 226% (Bunge, Mazac, Clark, 2024). Si può, quindi, ipotizzare che l'integrazione di questi cibi nelle diete rifletta un comportamento alimentare emergente (Pradhan, Kropp, 2020), ma che rimane sostanzialmente ancora insufficiente per poter essere considerato impattante (Béné, 2022).
Inazione politica e opinione pubblica
Per quanto a livello individuale, ogni persona abbia la possibilità di aiutare a mitigare il clima in modo concreto, è importante sottolineare che le riduzioni di gas serra più sostanziali hanno bisogno di leggi e politiche internazionali (Oreskes, 2022).
L’accordo di Parigi, tenutosi nel 2015 e entrato in vigore l’anno successivo, ha rappresentato una svolta nella lotta contro il riscaldamento globale. Per la prima volta i governi si sono impegnati nella limitazione della crisi climatica, ponendosi come obiettivo quello di contenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e proseguire gli sforzi per limitare l'aumento della temperatura a 1,5°C (UN), (temperatura media che la Terra ha superato nel 2024 (Bonacossa, 2025)). Per rispettare questo accordo e per evitare conseguenze catastrofiche, le emissioni dovrebbero essere abbassate almeno del 45% ed è essenziale che il sistema alimentare sia parte integrante di questo processo. Nonostante ciò, il ruolo di questo settore - specialmente quello zootecnico - viene tutt’oggi sottovalutato (Fanzo, Miachon, 2023), tanto che solo nel 2019 l’IPCC ne ha fatto menzione, chiedendo per una riduzione di emissioni in questo settore (Almiron, Rodrigo-Alsina, Moreno, 2022).
È importante che negoziazioni internazionali sul clima prendano in considerazione il bestiame oltre che i combustibili fossili. Tuttavia, diverse questioni sistemiche e di potere, come la mancanza di un'azione coordinata sul clima, così come le relazioni di potere squilibrate all'interno dei sistemi alimentari, ostacolano queste iniziative (Zurek et al. 2022). Una piccola quantità di grandi compagnie agrarie transnazionali, le cosiddette Big Food, detengono il monopolio del settore ed hanno gli interessi finanziari nel mantenere lo status quo (Béné, 2022), seppur questo vada in contrasto con l’evidenza scientifica. Queste aziende direzionano ed ostacolano politiche sostenibili attraverso attività di lobbying, tenendosi a stretto contatto con gli attori politici, tramite supporto finanziario, e influenzando l’opinione pubblica grazie alla manipolazione di informazioni, pubblicità e propaganda sui media (Béné, 2022; Clap, 2021), tentando di ottenere autorità scientifica pagando e sponsorizzando ricerche atte a produrre i risultati che loro hanno richiesto (Clap, 2021). Come viene analizzato nel report del tink tank londinese The European Meat and Dairy Sector's Climate Policy Engageme, l’industria della carne e dei prodotti latto-caseari ha influenzato attivamente e tramite tattiche di advocacy le politiche dell’Unione Europea rivolte alla riduzione delle emissioni di CO2 e dell’impatto ambientale delle diete alimentari e degli allevamenti (InfluenceMap). Lo studio ha analizzato le azioni intraprese tra le maggiori aziende del settore su sei politiche chiave dell’UE, come Farm to Fork, Sustainable Food Systems Framework e Industrial Emissions Directive2, riscontrando tattiche simili a quelle attuate dalle lobby del fossile per contrastare la lotta al cambiamento climatico. Queste aziende hanno enfatizzato 2Farm to Fork è una politica avanguardistica per la transizione verso diete sostenibili, mentre la Industrial Emission Directive avrebbe regolamentato le emissioni inquinanti delle aziende agricole europee, compreso il metano (ESG, 2024) l’importanza dell’allevamento e della carne per la società e allontanando l’idea che il settore zootecnico sia uno dei maggiori responsabili della crisi climatica, diffondendo realtà parziali per manipolare consumatori e politici (ESG, 2024). A causa dell’attività di lobbying da parte di industrie zootecniche, due delle sei politiche dell’UE sono state indebolite e le tre già citate sono state praticamente arenate, anche grazie al supporto del Partito Popolare Europeo (PPE) che ha adottato la narrativa portata avanti dal settore (ESG, 2024).
Inoltre la stabilità dell'industria della carne è un interesse fondamentale anche per molti governi, dato il suo contributo alle entrate, all’esportazione e all’occupazione, soprattutto nelle aree rurali. In molti paesi ad alto reddito il settore zootecnico costituisce circa il 40% della produzione agricola totale, e anche la trasformazione e la vendita al dettaglio costituiscono settori economici sostanziali nei mercati nazionali di tutto il mondo. Ad esempio, in Australia l'industria della carne rossa genera ritorni per oltre 22 miliardi di dollari all'anno e rappresenta uno dei maggiori settori di occupazione tra la popolazione (Sievert, Lawrence, Parker, Baker, 2021).
La politicizzazione della scienza e la sua strumentalizzazione da parte delle corporazioni agroalimentari transnazionali è una realtà che contribuisce a rallentare i cambiamenti nelle leggi, nei regolamenti e nelle politiche che sono necessari per sostenere la trasformazione del settore verso alimenti più sani e più sostenibili (Zurek et al. 2022). Un esempio lo è la COP: nonostante negli ultimi anni la produzione alimentare sia entrata a far parte delle negoziazioni, non è mai stato raggiunto un accordo decisivo, anche a causa della presenza massiccia delle lobby della carne all’evento e della svalutazione di questo settore. Due studiosi, Paul Behrens e Matthew Hayek, tra il 2023 e il 2024 accusarono la FAO di distorcere gravemente i risultati della loro ricerca Pathways Towards Lower Emissions, lanciata a margine della COP28, travisando il potenziale del cambiamento della dieta per ridurre le emissioni alimentari. Gli accademici accusarono la FAO di scarsa chiarezza, scelta inappropriata dei dati ed errori nella metodologia, chiedendo di ripubblicare il rapporto con fonti e metodologie più appropriate, dato che le analisi stimavano una riduzione delle emissioni derivate dalla riduzione della produzione zootecnica da sei a 40 volte inferiore al consenso scientifico. In un’intervista Behrens dichiarò che la FAO aveva scelto l'approccio più rozzo e inappropriato per le sue stime, favorendo i gruppi di interesse che cercavano di dimostrare che le diete a base vegetale hanno un piccolo potenziale di mitigazione rispetto alle alternative (Mridul, 2024).
Inoltre, anche per l’opinione pubblica è difficile accettare un cambiamento ritenuto così radicale nella propria dieta. La maggior parte degli individui, anche in regioni dove c’è più conoscenza del tema come in Europa, non hanno consapevolezza di quanto l’allevamento impatti sull’ambiente. Politiche che incentivano un consumo minore di carne e che ne promuovono la tassazione, ricevono un supporto legato più al benessere degli animali all’interno degli allevamenti che al benessere del clima o della salute delle persone (Macdiarmid, Douglas, Campbell, 2016; Perino, Schwickert, 2023). A livello popolare, si ritiene che la carne abbia un ruolo minore all’interno della crisi climatica ed anche all’interno del settore alimentare. Uno studio (Macdiarmid, Douglas, Campbell, 2016) mostra come le persone non associano il consumo di derivati animali al clima, ma ritengono più impattanti i cibi processati o il packaging di un prodotto e il suo trasporto, quando in realtà il settore dei trasporti inquina meno rispetto a quello del bestiame, ovvero circa il 13% di emissioni globali (Papakonstantinau et al., 2024). Un fattore che allontana molte persone dalla causa è quello dello scetticismo verso l’evidenza scientifica per motivi culturali e sociali, mettendo in discussione le teorie portate avanti dalla comunità scientifica. Tradizionalmente siamo portati a pensare che un pasto completo sia composto anche da una porzione di carne (o pesce). Un’altra opinione diffusa è che l’essere umano si è sempre nutrito di carne e quindi debba continuare a farlo, nonostante venga proposto solamente la riduzione del consumo, arrivando fino a teorie come il carnismo che esalta il consumo della carne e sostiene che gli esseri umani si sono evoluti per mangiare carne e che la sopravvivenza e la forza dipendono da essa (Sievert, Lawrence, Parker, Baker, 2021). Un ulteriore fattore è di tipo sociale: il consumo di carne è associato a momenti di piacere e festività, come la Pasqua, in cui le persone si riuniscono per mangiare insieme (Macdiarmid, Douglas, Campbell, 2016). Escludere la carne dalla dieta potrebbe voler dire essere esclusi da questi eventi e quindi dalla comunità. Di conseguenza, molte persone continuano a farne uso nonostante siano a conoscenza delle problematiche che porta. Infine, la riduzione della carne è stata spesso inquadrata come estremista, associata all'“agenda vegana”, da molti individui e gruppi di interesse, compresa l'industria della carne, allontanando molti politici dal promuovere questa iniziativa per timore di perdere popolarità (Sievert, Lawrence, Parker, Baker, 2021).
Conclusione
In un contesto globale, in cui la crisi climatica è un’urgenza da risolvere, risulta sempre più evidente quanto il sistema alimentare – e in particolare il settore zootecnico – gioca un ruolo centrale nel suo aggravarsi. Responsabile di circa il 14,5% delle emissioni globali di gas serra, il bestiame contribuisce in modo significativo alla produzione di metano, protossido di azoto e anidride carbonica, aggravando la crisi climatica e favorendo la deforestazione e la perdita di biodiversità. Nonostante queste evidenze, il tema resta spesso escluso dalle politiche ambientali internazionali, complice l’influenza delle grandi lobby agroalimentari e la scarsa consapevolezza pubblica. In questo contesto, le diete plant-based emergono come una soluzione concreta ed efficace, che potrebbero aiutare ad abbassare la mortalità globale anche del 10% e permettendo a molte realtà ambientali, come le foreste pluviali, di sopravvivere. Se da un lato l’inazione istituzionale e la disinformazione pubblica contribuiscono al mantenimento dello status quo, dall’altro emerge chiaramente che un cambiamento è possibile e necessario, sia a livello individuale che collettivo. Adottare diete più sostenibili e ridurre il consumo di carne è un’azione semplice che ogni individuo può scegliere di fare nella vita di tutti senza stravolgere il suo stile di vita, ma aiutando in modo consistente la mitigazione climatica e la transizione verso un mondo più sostenibile.
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