Le donne afghane, tra diritti e lotta ad un anno dal ritorno dei talebani

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  01 dicembre 2022
  20 minuti, 21 secondi

Abstract

A oltre un anno dal ritiro delle truppe occidentali dal territorio afghano e dalla ripresa del potere da parte dei talebani, è evidente come instabilità e insicurezza, carestia e povertà abbiano assalito l’Afghanistan. Cambiamenti socio-economici hanno perciò interessato la società afghana, con risvolti particolarmente gravi sulla condizione delle donne. Il presente contributo mira ad esplorare tali cambiamenti, con particolare riguardo ai diritti delle donne, e si concentra sui moti progressisti e sugli esempi di resistenza femminile e femminista emersi nel passato, per individuare il ruolo che questi potrebbero avere nel futuro della difesa dei diritti delle donne in Afghanistan.


A cura di

Sara Squadrani - Head Researcher Mondo Internazionale G.E.O. Cultura & Società

Emma Conti - Junior Researcher Mondo Internazionale G.E.O. Cultura & Società

Giulia Pavan - Junior Researcher Mondo Internazionale G.E.O. Cultura & Società

Giulia Consonni - Junior Researcher Mondo Internazionale G.E.O. Cultura & Società




1. Introduzione

A oltre un anno dal ritiro delle truppe occidentali dal territorio afghano e dalla ripresa del potere da parte dei talebani, è evidente come diversi cambiamenti socio-economici abbiano già interessato la società afghana con risvolti particolarmente gravi sulla condizione delle donne.

Dopo una prima analisi del contesto afghano successivo all’agosto 2021, questo contributo porterà l’attenzione proprio sul cambiamento della condizione femminile nel paese, analizzando la violazione dei diritti fondamentali e le privazioni delle libertà sociali, civili e culturali che derivano dalle misure applicate dal regime dei talebani. Infine, ci si concentrerà su determinati esempi di resistenza femminile e femminista, emersi nel passato, che potrebbero avere un ruolo decisivo nel futuro della difesa dei diritti delle donne in Afghanistan. L’obiettivo della trattazione è perciò quello di concepire le donne afghane come agenti politici e umanitari, per guardare a quale futuro può prospettarsi per loro e per il loro paese.

2. Il ritiro delle truppe statunitensi e la ripresa del potere da parte dei talebani

Come ammesso dal precedente presidente dell’Afghanistan, Ashraf Ghani, in fuga dal proprio Paese, ‘i Talebani hanno vinto’. Il 15 agosto 2021 la capitale Kabul è caduta nelle mani del movimento islamista e l’Afghanistan è tornato dopo vent’anni sotto il controllo talebano. L’operazione Enduring Freedom lanciata dal Presidente statunitense G.W. Bush nel 2001 per destituire il regime talebano al potere dal 1996, vent’anni dopo si è tradotta in una disfatta americana. Le immagini che simboleggiano questo fallimento e l’impatto che l’iniziativa militare ha avuto sulla società afghana hanno come sfondo l’aeroporto di Kabul: le poche migliaia di soldati statunitensi ancora rimasti, frettolosamente in partenza; e le migliaia di persone accalcate nel tentativo disperato di riuscire a lasciare il proprio Paese a bordo di un volo umanitario.

Qualcuno ha parlato di un altro Vietnam per gli USA, visto l’incredibile utilizzo di risorse umane ed economiche che si sono tradotte in una poco dignitosa ritirata finale. Dal 2002, infatti, secondo dati del Congresso, gli Stati Uniti hanno speso più di 140 miliardi di dollari in aiuti, mentre il Pentagono stima una spesa di circa 820 miliardi di dollari per supportare le operazioni militari. Qualcun altro ha posto il focus sull’arrogante pretesa statunitense di sapere come cambiare l’Afghanistan, nonostante l’incapacità di comprendere realmente la società afghana. Come sottolinea lo studioso Shadi Hamid, la presunzione delle potenze occidentali reputava le tradizioni afghane come un ostacolo da superare quando queste erano essenziali per la cultura politica del Paese (Hamid, 2021). Molte delle istituzioni politiche di cui gli Stati Uniti hanno supportato la creazione durante i vent’anni di occupazione, volte a correggere quelle ‘arretrate’, tradizionali afghane, sono state eliminate e pare quasi che non siano mai esistite.

La propaganda a favore dell’intervento militare in Afghanistan non si basava solamente sulla volontà di combattere i terroristi. Una parte fondamentale della retorica pro-interventista faceva riferimento alle dure e barbariche condizioni delle donne sotto il regime talebano. L’obiettivo dell’intervento era dunque quello di ‘liberare le donne afghane’ (Zakaria, 2021). Non solo l’invasione e l’occupazione erano fondamentali, ma la lotta contro il terrorismo passava attraverso la lotta per i diritti e la dignità femminili, come affermato dall’allora first lady Laura Bush. L’autrice femminista post-colonialista Rafia Zakaria definisce come ‘femminismo bianco’ questa presunzione bianca ed occidentale di sapere che cosa necessitano le donne appartenenti ad altre culture, universalizzando le proprie convinzioni senza considerare il ruolo giocato dal proprio privilegio (Zakaria, 2021) . Per esempio, come sottolineato dalla stessa Zakaria, uno dei programmi più costosi, “Promote”, costato 418 milioni di dollari, aveva l’obiettivo di fornire formazione, lavoro e tirocini a 75mila donne afghane, ma ha solo contribuito a indebolire i femminismi locali che avrebbero potuto attuare programmi più in linea coi valori della società afghana.

Vent’anni dopo l’operazione militare in Afghanistan volta a combattere il terrorismo e modernizzare il paese, la situazione rimane critica e il ritiro delle truppe statunitensi ha avuto risvolti socioeconomici pesantissimi.

Come conseguenza alla presa di potere da parte del movimento talebano, la totalità del denaro afghano presente nelle banche occidentali è stato congelato (9,5 miliardi di dollari soltanto degli Stati Uniti). Il Fondo Monetario Internazionale ha bloccato l’accesso alle sue riserve per un totale di 440 milioni di dollari. (Dyer, 2022) L’impatto delle sanzioni è stato e continua ad essere disastroso. In un contesto che le Nazioni Unite dichiarano di ‘povertà assoluta’ e il 97% della popolazione non ha di che mangiare, il congelamento di denaro che potrebbe essere speso per far fronte alla carestia non fa che peggiorare la situazione e condanna tantissime persone a morire di fame (UN, 2021). Colpire i talebani attraverso sanzioni economiche significa colpire ed affamare l’intera popolazione. Malnutrizione e denutrizione, uniti all’impossibilità per milioni di afghani di proteggersi dal freddo dell’inverno senza ammalarsi, rendono gli ospedali sovraffollati.

Instabilità e insicurezza si aggiungono a carestia e povertà, come dimostrato dalla proliferazione di attentati e gruppi terroristici come il gruppo Stato islamico-provincia di Khorasan (Is-K). Se ad agosto 2021 i talebani avevano promesso di portare stabilità e porre fine alla guerra dopo 20 anni di occupazione statunitense, la realtà li prova incapaci di mantenere le loro promesse. Il movimento islamista non ha mantenuto la propria parola anche riguardo ai diritti delle donne, che i talebani, nel momento della presa del potere, avevano promesso di rispettare.

3. Violazioni dei diritti e condizione femminile

Lo status sociale delle donne all’interno della società afghana dipende, oggi come in passato, in gran parte dal sistema culturale, religioso e “giuridico” islamista che si basa prevalentemente sulla Sharia, una serie di norme, consuetudini ed usi che appartengono alla “legge sacra” islamica, ispirata ai due testi sacri Corano e Sunna. La sharia quindi non è un testo scritto, e in quanto tale non è sottoposta ad alcun controllo legislativo da parte delle autorità. La recente applicazione di questi principi etici e morali da parte del nuovo governo talebano ha assunto un carattere particolarmente fondamentalista, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della donna all’interno della società. Perciò, non sorprende come la scelta di questa linea di condotta integralista - adottata nell’ultimo anno - abbia portato progressivamente ad una repressione brutale e massiva dei diritti delle donne nel paese.

Nel corso della storia dell’Afghanistan, il ruolo della donna ha assunto molteplici caratteri, tra l’alternarsi di moti progressisti e pressioni integraliste. Durante i primi anni del 1900, nel periodo monarchico del regno di re Amanullah (1919-1929), furono promosse alcune riforme liberali nei confronti delle donne per tentare di modernizzare il paese nell’ambito dell’educazione e della vita familiare. La più grande vittoria delle donne afghane fu raggiunta nel 1978 quando il governo concesse pari diritti agli uomini e alle donne in tutti gli ambiti, dalla possibilità di scegliere marito a quella di fare carriera. Tuttavia, nel periodo che trascorse dal 1992 al 2001 con al governo prima il regime dei Mujahideen e poi quello dei Talebani, tutti i diritti per i quali la comunità femminile afghana aveva faticosamente conquistato furono retrocessi. Le donne non solo vennero spogliate dei loro diritti, ma vennero imposti loro obblighi e restrizioni nell’ambito lavorativo, scolastico, familiare e personale. Negli anni 2000, a seguito della caduta del regime talebano e l’istituzione della Repubblica Islamica, la lotta per l'emancipazione femminile ricominciò. La figura della donna si fece spazio tra i tradizionalismi di una cultura antica permeata dal fondamentalismo, e venne riconosciuta degna di diritti pari all’uomo, soprattutto grazie alla nascita dell’attivismo dei movimenti femministi.

Il 15 agosto 2021 ha segnato indelebilmente la storia dell’Afghanistan con il ritorno al governo dei Talebani dopo la presa di Kabul. Nonostante le prime dichiarazioni ufficiali del nuovo governo includessero il riconoscimento del ruolo delle donne nella società e la tutela dei loro diritti, quello che sta accadendo oggi nel paese non potrebbe essere più distante da queste promesse.

Nonostante l’Afghanistan sia tendenzialmente, a causa della cultura fortemente patriarcale, un paese caratterizzato da una evidente disparità di genere nell’ambito dell’istruzione (i dati antecedenti al 2021 segnalano che solo il 37% delle ragazze era in grado di leggere e scrivere, a differenza del 66% dei ragazzi) (Amnesty International, 2022), il divario preesistente si è acuito con le nuove regole imposte dai Talebani che impediscono l’accesso all’istruzione di secondo grado a donne e ragazze. Le scuole superiori femminili sono state chiuse, impedendo a migliaia di ragazze l’accesso all’istruzione e molte professoresse sono rimaste disoccupate. Le università miste hanno riaperto ma con una serie di nuove restrizioni per le ragazze, dall’imposizione del burka all’allontanamento da compagni e docenti di sesso maschile. Alle studentesse è vietato parlare davanti alla classe, utilizzare il cellulare in ambito universitario, avere colloqui con professori maschi, lasciare i dormitori senza un mahram (accompagnatore maschio), partecipare alle conferenze. Inoltre, la frequenza femminile è scoraggiata dalle minacce e dal terrore esercitato dai Talebani nei confronti delle famiglie delle studentesse e delle professoresse. Anche l’obbligo di uscire di casa accompagnate da un mahram costituisce una difficoltà organizzativa che limita la frequenza scolastica, così come la mancanza di motivazione da parte delle studentesse stesse che non potendo più accedere a determinate cariche lavorative sono scoraggiate dal proseguire gli studi.

A livello nazionale, le posizioni lavorative da cui sono state escluse le donne riguardano perlopiù le cariche pubbliche a livello ministeriale e governativo, mentre nel settore privato è stato consentita la presenza femminile ma sotto rigide restrizioni comportamentali e soprattutto solo in posizioni di medio-basso livello. Le limitazioni e l’esclusione femminile dal mondo del lavoro hanno comportato delle conseguenze a livello economico per le famiglie il cui sostentamento dipendeva dallo stipendio di una madre, figlia, zia.

L’obbligo di essere costantemente accompagnate da un mahram in ogni spostamento (locale o internazionale), così come il divieto di ottenere una patente di guida, rappresenta una restrizione al movimento delle donne che ha conseguenze negative non solo sul loro accesso all’istruzione ma anche alla possibilità di andare a lavoro. Ad oggi, la maggior parte delle donne e ragazze afghane ha dichiarato di vivere una vita in gabbia, passando le giornate in casa senza alcuna possibilità di uscire liberamente (Amnesty International, 2022).

Tra le altre restrizioni imposte dal governo talebano vi sono quelle riguardanti l’abbigliamento: le donne sono state obbligate ad indossare il burka o coprirsi interamente con un velo scuro in ogni contesto sociale al di fuori della propria casa. In mancata osservazione di questo regolamento, così come di molti altri, le donne vengono picchiate o arrestate. La violenza sulle donne era un fenomeno già ampiamente diffuso in Afghanistan prima del 2021 ma l’esistenza di reti di supporto medico, legale e psicologico permetteva alle vittime di trovare un rifugio e l’aiuto necessario per sopravvivere. Oggi, i Talebani hanno demolito l’intero sistema di supporto per le vittime di violenza, legittimando ogni tipo di abuso sulle donne.

Oltre alla violenza, un altro mezzo punitivo è la detenzione: le donne considerate colpevoli di “corruzione morale” per non aver rispettato le norme comportamentali dettate dal regime, vengono incarcerate e detenute in strutture nelle quali vivono in condizioni disumane, sottoposte a torture e continui pestaggi. Una volta rilasciate, le ex detenute vengono ostracizzate dalle loro famiglie e stigmatizzate dall’intera società per il resto della loro vita, l’unica possibilità per loro di continuare a condurre una vita fuori dalla prigione è il matrimonio forzato.

Il numero di donne e bambine costrette a prendere marito anche in giovanissima età è aumentato drasticamente sotto il regime talebano (Amnesty International, 2022), le cause sono molteplici e perlopiù riconducibili alle restrizioni imposte dai Talebani. La crisi umanitaria ed economica in cui versa il paese, l’impossibilità di accedere all’istruzione e la mancanza di prospettive lavorative, sono tutti fattori che costringono la donna a sposarsi per sopravvivere. Anche le famiglie stesse obbligano le figlie in tenera età a prendere marito. Alcune famiglie impongono matrimoni combinati con membri della stessa famiglia per evitare che le figlie vadano in sposa ai Talebani; altre, al contrario, combinano matrimoni con membri del regime per guadagnarsi la protezione di questi ultimi. Il futuro che attende queste giovani donne sembra essere quello di una vita coniugale costellata di abusi, violenza, gravidanze precoci, sfruttamento sessuale e reclusione.

4. Protezione della libertà e dei diritti fondamentali: la resistenza femminista afghana e il ruolo della comunità internazionale

Dopo aver esaminato le circostanze del ritiro delle truppe occidentali dall'Afghanistan e del ritorno dei talebani al potere, e aver analizzato il cambiamento della condizione femminile nel paese, con riguardo ai loro diritti e libertà fondamentali, ora si intende guardare alla responsabilità di tutela di questi diritti esplorando le esperienze di resistenza femminile e femminista afghana e il ruolo della comunità internazionale.

Dalla narrazione dei media occidentali, a seguito del ritiro delle truppe occidentali nel 2021, sembrerebbe che l’Afghanistan sia “regredito di vent’anni in tema di diritti e libertà delle donne”. Un tale discorso è frutto di una visione evoluzionista e coloniale che oppone alla modernità, alla democrazia e alla libertà dell’Occidente, l’idea di un’arretratezza culturale del Terzo Mondo. Secondo questa rappresentazione, spesso condivisa dal femminismo bianco, le donne islamiche afghane, senza più la protezione dell’Occidente, tornano ad essere l’idealtipo delle “Donne del Terzo Mondo” oppresse e impotenti, vittime del sistema patriarcale, dei processi coloniali, della struttura familiare, della religione e della loro cultura (Mohanty, 1984). Le donne afghane sono rappresentate come l’idealtipo di soggetto umanitario vulnerabile, mentre sono rese molto visibili dal discorso mediatico come bisognose di un “salvatore benevolo”, la loro agency, resilienza e lotta politica è completamente trascurata.

L’obiettivo di questo paragrafo, in una prospettiva femminista decoloniale, è quello di rifiutare “semplici icone culturali” e abbracciare maggiore complessità (Abu-lughod, 2002). Mettere in luce alcune esperienze politiche di resistenza femminista afghana ci permette di smettere di considerare le donne afghane come unicamente vulnerabili, offrendo gli strumenti per riuscire invece a immaginare le donne afghane come contemporaneamente soggetti vulnerabili e agenti (Butler, 2016), politici e umanitari. Per poter tutelare le persone e i loro diritti è necessario riuscire a restare in questa contraddizione e non sforzarsi di separare l’agency dalla vulnerabilità (ibidem).

I movimenti femminili e femministi in Afghanistan esistono e resistono. Questi non sembrano nutrire fiducia per l’occupazione delle truppe occidentali che, a detta di alcune attiviste, hanno lasciato il paese “più instabile, corrotto e pericoloso” (Meltingpot, 2022). Le truppe occidentali hanno occupato il paese per interessi geopolitici ed economici senza riuscire ad eradicare i fondamentalismi e difendere i diritti delle persone. La resistenza afghana sembra aver vissuto l’occupazione USA come una minaccia alla pace e ai diritti nel mondo (Meltingpot, 2022). In un articolo di Zakaria (2022), tradotto e pubblicato su Internazionale, si parla di duplice tradimento vissuto dalle donne afghane, ovvero quello dell’intromissione americana e quello del nuovo regime talebano.

Il primo e più importante gruppo femminile e femminista afghano per la difesa dei diritti delle donne, la pace, la libertà e la democrazia è l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan (RAWA). Nasce nel 1977 per resistere all’occupazione sovietica e da sempre lavora in clandestinità per la giustizia sociale e i diritti fondamentali delle persone, cercando di coinvolgere sempre più donne in attività politiche e sociali.

Anche oggi la resistenza femminista in Afghanistan continua ad ispirarsi al modello di RAWA e alle diverse esperienze di resistenza e lotta dei gruppi di donne in altri contesti nel mondo, come ad esempio la resistenza curda ed iraniana (Meltingpot, 2022), con cui condividono i valori e gli sforzi per ottenere uguaglianza e giustizia.

Nonostante la severa repressione e criminalizzazione delle proteste messa in atto dai talebani, la resistenza afghana è cominciata fin dal primo giorno del ritorno dei talebani. Le donne afghane sono scese nelle strade con manifestazioni, proteste, occupazioni e striscioni contro le restrizioni e gli abusi da parte dei fondamentalisti al potere (Meltingpot, 2022). Anche alcuni gruppi di studentesse tenacemente resistono praticando il mutuo aiuto e la distribuzione dei beni di prima necessità alle donne che si trovano impossibilitate a circolare per la città (AGI, 2021).

Accanto a queste forme di protesta e partecipazione, un’altra importante esperienza di resistenza è stata quella delle squadre femminili di calcio, come il Bastan, la squadra femminile ad Herat di cui si è parlato sui giornali italiani. Esse praticano lo sport come pratica sovversiva e aggregativa di resistenza politica ed emancipazione per “opporsi alle violenze psicologiche e fisiche che le donne subiscono e per affermare il sogno di una società più aperta ed egualitaria" (Liberti, 2022). Le ragazze della squadra di Herat giocavano sfidando le famiglie, allenandosi molto presto e a bordo campo per non dare nell’occhio. Tuttavia, immediatamente al reinsediamento dei talebani, alle donne è stato proibito di lavorare, studiare e andare in giro da sole, sono state costrette ad abbandonare anche lo sport (ibidem).

Le giocatrici della squadra di Herat, come altre persone vulnerabili o perseguitate, sono state inserite nelle liste dei passeggeri dei voli umanitari organizzati dal governo italiano per l’evacuazione da Kabul e successivamente dal Pakistan, dove molte persone avevano cercato rifugio fuggendo dall’Afghanistan a seguito dell’occupazione talebana (Liberti, 2022).

A questo proposito, è indispensabile riflettere sulla responsabilità della comunità internazionale per la tutela dei diritti e della libertà. Infatti, alcune delle misure prese dai paesi occidentali per fare pressioni contro il regime talebano, come ad esempio le sanzioni economiche, discusse nel paragrafo precedente, hanno avuto risvolti disastrosi sulle persone, peggiorando ulteriormente le condizioni di vita delle donne afghane.

Come emerge dalla discussione precedente, le donne Afghane non hanno bisogno di “salvatori bianchi”. Tuttavia, restano dei dubbi sul fatto che l’Occidente - e il femminismo bianco - riconosca in futuro la necessità di sostenere e supportare la resistenza femminista afghana, alzando la voce contro la guerra e le discriminazioni, e di garantire allo stesso tempo passaggi sicuri e legali per difendere la libertà di movimento delle persone. L’UNHCR (2021) e il Parlamento Europeo (2021) hanno dichiarato che la comunità internazionale si sarebbe impegnata perché le persone possano cercare sicurezza e accedere ai programmi di protezione internazionale. E così sono stati organizzati alcuni voli umanitari per i passaggi sicuri verso l’Europa, tra cui i voli su cui hanno viaggiato le calciatrici di Herat. Inoltre, l’Europa (2021) si è impegnata a sostenere i paesi vicini all’Afghanistan, come il Pakistan, per assicurare il rifornimento alle persone rifugiate afghane protezione e beni di prima necessità come acqua, medicinali, servizi igienico-sanitari e alimenti. Tuttavia, questi interventi, in assenza di una riformulata politica europea in materia di asilo, che garantisca alle persone afghane più vulnerabili accesso ai visti speciali per fuggire dall’oppressione talebana e in assenza di supporto ai movimenti di resistenza locali, si riveleranno poco incisivi sulla vita e sui diritti delle persone in Afghanistan e avranno limitato impatto sul miglioramento delle condizioni delle donne nel paese.

5. Conclusione

E’ evidente come le condizioni di vita delle donne in Afghanistan siano state compromesse dal ritorno al potere dei talebani. Tuttavia, la resistenza femminista e di gruppi di donne ha una storia nel paese e continua ad esistere e, sebbene il loro margine di azione sia limitato, questi rimangono fondamentali per mantenere accesa la richiesta di giustizia e di uguaglianza. La resistenza, come ogni forma di partecipazione politica e di cittadinanza attiva, è strumento per la difesa della democrazia e della libertà di aggregazione, espressione e pensiero. La politica dal basso è indispensabile per "creare pensiero" e solidarietà e perché i bisogni dei territori e delle persone che li vivono siano veramente rappresentati in sede decisionale e non mediati da altri interessi.

Il panorama rimane incerto per le donne afghane e perciò rimane da capire quanto le loro capacità da un lato e le azioni esterne della comunità internazionale dall'altro siano in grado di incidere sulla tutela dei diritti e sul miglioramento della condizione della donna.

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Fonti

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