Strumenti di tutela dei diritti umani nel mondo arabo: scenario attuale e prospettive future

  Focus - Allegati
  01 dicembre 2023
  18 minuti, 21 secondi

Autori

Serena Tripodi -Junior Researcher Mondo Internazionale G.E.O. Cultura & Società

Simona Chiesa - Junior Researcher Mondo Internazionale G.E.O. Cultura & Società

Sofia Manaresi - Senior Researcher Mondo Internazionale G.E.O. Cultura & Società

Francisco Durán - Head Researcher Mondo Internazionale G.E.O. Cultura & Società


Abstract

Questo paper esamina le dinamiche e gli strumenti per la protezione dei diritti umani nella regione araba, focalizzandosi sulla storia e le sfide affrontate dalla Lega Araba; sulla Dichiarazione del Cairo del 1990 e l'Organizzazione della Conferenza Islamica. Si evidenziano le difficoltà nell'armonizzare il diritto islamico con gli standard universali dei diritti umani, ponendo l'accento sull'importanza di un dialogo costruttivo e di compromessi politico-economici per affrontare le sfide attuali, inclusi i conflitti regionali. L'analisi sottolinea la necessità di un impegno collettivo per promuovere una maggiore tutela dei diritti umani nei paesi arabi.


I. Introduzione

Il tema di questo paper riguarda le modalità adottate dai paesi arabi, in materia di tutela dei diritti umani; infatti, viene descritta la Lega Araba per comprendere meglio le radici e le motivazioni della nascita di questa organizzazione Internazionale che successivamente ha permesso la tutela dei diritti umani.

La presente trattazione è intesa ad argomentare quali sono i principali strumenti per la tutela dei diritti umani nei paesi arabi. In primo luogo, infatti, sarà analizzata la storia della Lega Araba per comprendere meglio le radici e le motivazioni della nascita di questa Organizzazione internazionale che successivamente ha permesso di migliorare la salvaguardia del diritto umanitario nella specifica Regione.

In secondo luogo, vi è la volontà di spiegare come il mondo arabo in generale si sia attivato in materia di diritti umani e quali soluzioni ha adottato per mantenere la protezione di tali diritti. Per questo motivo saranno citate la Convenzione della Conferenza Islamica, ad esempio, e la Dichiarazione del Cairo del 1990, la quale nello specifico non costituisce un trattato internazionale, ma rappresenta un orientamento generale per gli Stati membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica.

Un'ulteriore tematica centrale del paper si riflette nell’analisi di come operi/funzioni la cooperazione economica e la tutela dei diritti interni in diversi settori produttivi tra i paesi arabi. Per questo motivo, verrà presa in considerazione l’organizzazione del Gulf Cooperation Council, la quale mira a favorire la cooperazione economica, politica e militare degli stati arabi del golfo e che inizialmente ha portato alla creazione dell’unione doganale. Da quest’ultima, successivamente, si è generata un’area economica comune tra i paesi arabi.

II. Origine Storica: la Lega Araba, la Carta Araba e la Corte Araba

La storia della Lega Araba affonda le sue radici nei tumultuosi eventi del XX secolo, un’epoca che ha profondamente plasmato il destino del Medio Oriente. La formazione dell'organizzazione ha costituito una risposta alle sfide geopolitiche e sociali scaturite nel periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale.

Dopo la caduta dell'Impero Ottomano nel 1918, le nazioni arabe si sono trovate a delineare le proprie identità nazionali in un contesto di mutamenti geopolitici (Mirachian). La Conferenza di San Remo nel 1920 e l'assegnazione dei mandati a Francia e Regno Unito ha generato tensioni e divisioni tra le popolazioni locali (Treccani, 2011). Questo contesto di instabilità ha portato, il 22 marzo 1945, alla creazione della Lega Araba, un'organizzazione fondata per promuovere la cooperazione tra gli Stati membri e affrontare le sfide comuni. Tra i membri fondatori figuravano Egitto, Iraq, Libano, Arabia Saudita, Siria, Transgiordania (ora Giordania) e Yemen.

Fin dalla sua concezione, la Lega Araba ha deciso di adottare il principio dell'unanimità per le decisioni riguardanti gli interessi dell'intera regione, includendo tutti i paesi la cui popolazione è a maggioranza araba. L'organizzazione si era posta l'obiettivo di promuovere la stabilità regionale, la difesa degli interessi comuni e la risoluzione pacifica dei conflitti. L'Accordo di Alessandria del 1946 ha ufficializzato la creazione della Lega Araba (Baldacci, 2008).

Nei primi anni della sua esistenza, la Lega Araba ha affrontato diverse sfide e tensioni, con particolare riferimento alla crisi palestinese del 1948, la quale costituì una delle prime prove significative per l'organizzazione. Tale situazione mise in luce le divisioni interne e le difficoltà nel coordinare una risposta efficace. Le divergenze a livello regionale e quelle politiche contribuirono a creare un clima di incertezza, mettendo a dura prova la solidità dell'organizzazione in un periodo cruciale. Successivamente, la Lega Araba ha dovuto affrontare le conseguenze della Guerra dei Sei Giorni del 1967, durante la quale Israele emerse vittoriosa contro diversi Stati arabi. Questa sconfitta ha segnato un punto di svolta nella storia della Lega Araba e ha portato a una rivalutazione delle strategie e delle alleanze regionali. La successiva Guerra del Kippur nel 1973 ha visto un tentativo di riscatto da parte degli Stati arabi, ma le tensioni e le divisioni interne hanno continuato a ostacolare una risposta unitaria (Il conflitto in medioriente).

Nata come espressione del nazionalismo arabo contro il dominio coloniale, la Lega Araba ha adottato inizialmente un approccio laico. Nel 1968, si verificò una svolta con la creazione di una Commissione permanente per i diritti umani. Dal 1980, questa Commissione ha avviato la redazione di una Carta araba dei diritti umani, orientata verso una prospettiva liberale e garantista dei diritti umani. Tuttavia, nel 1994, la sua adozione è stata bloccata perché mai ratificata dal numero minimo di sette stati membri della Lega Araba. Per consentire la ratifica della Carta da un numero maggiore di paesi, nel 2004 si procede alla riformulazione del documento incorporando anche i principi della Shari'ah. La Carta araba dei diritti dell'Uomo è stata adottata a Tunisi il 23 maggio 2004 ed è entrata in vigore il 15 marzo 2008 (Baldacci, 2008).

Il 24 gennaio 2008, l'ex Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Louise Arbour, ha criticato la Carta Araba dei Diritti dell'Uomo come incompatibile con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e le norme internazionali. Un ulteriore ostacolo all'accettazione internazionale è stato il mancato riconoscimento del principio di universalità dei diritti umani, poiché la presenza della sharia comporta una distinzione tra i diritti degli uomini di fede musulmana e non musulmana (Littman, 1999).

Negli anni '50, la Lega Araba ha istituito la Corte Araba come uno strumento per la risoluzione delle controversie tra gli Stati membri. La Corte Araba avrebbe dovuto fungere da arbitro neutrale nei casi di disputa e contribuire alla stabilità regionale attraverso la giustizia e la diplomazia. Tuttavia, la Corte Araba si è trovata ad affrontare sfide nella garanzia dell'indipendenza e dell'imparzialità nelle sue decisioni. La storia della Lega Araba è stata segnata da numerose crisi regionali, dalle guerre degli anni '60 e '70 alla più recente instabilità provocata dalla Primavera Araba e dai conflitti in Siria e Yemen nel XXI secolo. In risposta a queste sfide, la Lega Araba ha cercato spesso di adottare posizioni collettive e di mediare per risolvere i conflitti. Tuttavia, le tensioni tra gli Stati membri e le difficoltà nel gestire le crisi hanno dimostrato quanto sia complesso mantenere l'unità nella diversità della regione (Baldacci, 2008).

Il futuro della Lega Araba si profila come una sfida e un'opportunità. La sua capacità di adattarsi alle mutevoli dinamiche regionali sarà cruciale per il suo ruolo nel promuovere la stabilità e la prosperità nel Medio Oriente. Attraverso la Corte Araba e la Carta Araba, l'organizzazione ha posto le basi per un'azione più istituzionalizzata e una governance basata su principi condivisi. Tuttavia, soltanto l'andare del tempo potrà stabilire se la Lega Araba sarà in grado di superare le tensioni interne e di manifestarsi come un'entità coesa ed efficace sulla scena internazionale.

III. Criticità della Dichiarazione e mancanza di una Corte

La universalizzazione dei diritti umani rappresenta un primo passo verso la subalternità degli interessi politico-economici degli Stati nazionali rispetto alla salvaguardia della vita, della libertà e dell'uguaglianza degli individui in tutto il mondo, indipendentemente dalle differenze di etnia, cultura, religione e orientamento sessuale. La questione attuale della conciliabilità tra diritto islamico e diritti umani è stata affrontata durante la Conferenza mondiale sui diritti dell'uomo svoltasi a Vienna nel 1993. In quell'occasione, mentre da un lato veniva ribadita l'universalità dei diritti enunciati nella Dichiarazione del '48, dall’altro molti Stati asiatici e i membri dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI) contestavano il carattere universale di tali diritti, considerandoli non universali ma occidentali. Essi li ritenevano una versione secolarizzata della tradizione giudaico-cristiana, in contrasto non solo con la Shari'ah, ma anche con il sistema di valori delle culture asiatiche (D’Onofrio, 2020).

Per quanto riguarda più specificamente i Paesi di cultura islamica, il mancato riconoscimento dell’universalità dei diritti umani deriva dell’incompatibilità degli stessi con i dettami della Shari’ah. Quest’ultima può essere definita come l'insieme dei principi derivanti dalla rivelazione divina, che il credente musulmano deve seguire per adempiere ai suoi doveri religiosi. Questa caratteristica rappresenta la principale differenza tra il diritto islamico e i diritti occidentali, poiché il primo trova giustificazione nella volontà rivelata da Dio, non basandosi sull'autorità di un legislatore terreno. Questa distinzione ha notevoli conseguenze, poiché il diritto islamico, derivante dalla volontà di Allāh rivelata attraverso Maometto, è tendenzialmente immutabile. Il Corano è la principale fonte del diritto islamico, il quale fornisce più principi etici e dichiarazioni religiose che norme giuridiche precise, dando luogo a una pluralità di ordinamenti giuridici con confusione tra quelli che sono precetti religiosi, morali o giuridici. In questo contesto, diritto, religione e morale spesso vengono considerati come concetti intercambiabili (Borea, 2020).

La mancanza di una struttura gerarchica nell'organizzazione religiosa implica allo stesso modo l’assenza di un sistema in grado di garantire una funzione nomofilattica univoca. Questo significa che non esiste un meccanismo adeguato a assicurare, all'interno dei vari ordinamenti giuridici islamici, un'interpretazione e un'applicazione uniforme della norma giuridica. Insieme alla difficoltà nell’armonizzazione normativa, la mancanza di un organo giuridico centralizzato, come potrebbe esserlo una Corte Araba per i Diritti Umani con un ruolo di vigilanza, può comportare una minore responsabilizzazione degli Stati nei confronti delle violazioni dei diritti umani. Infine, si aggiunge anche la questione delle limitate vie di ricorso per le vittime, che riduce la possibilità di ottenere giustizia e riparazione.

Operando, invece, un confronto con la Dichiarazione del ’48, i temi che maggiormente si distaccano dai principi dei Paesi di cultura musulmana sono:

Libertà di coscienza. Come ad esempio la libertà di scegliere il proprio credo, diritto sancito dall’articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

In nessuno Stato musulmano infatti, ad eccezione per la Turchia che ha avuto un notevole sviluppo in ambito di laicizzazione, vi è il riconoscimento alla libertà di coscienza per i suoi cittadini.

Libertà di matrimonio misto e ruolo della donna. Secondo l’articolo 16 della Dichiarazione del ’48, «Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti (…).»

Nel diritto islamico la famiglia si fonda sul ruolo dominante della figura del marito rispetto a quella della moglie. All’interno della famiglia la donna ha, infatti, un ruolo subalterno rispetto al marito e, tra le altre cose, può lavorare solo previo consenso dello stesso. La donna deve obbedienza al marito ed è inaccettabile che possa chiedere il divorzio. Per quanto riguarda le finanze familiari, la donna non ha alcun dovere di mantenere la famiglia, ma non detiene diritti sui beni della famiglia, nella quale vige appunto il regime di separazione dei beni e, per l’eredità, all’uomo spetta il doppio rispetto alla donna (Moroni, 2005).

Il diritto familiare resta, infatti, nei Paesi di tradizione islamica, quello più influenzato dalla Shari’ah, sebbene la Carta araba dei diritti dell’uomo, come emendata nel 2004, preveda l’uguaglianza di uomini e donne quanto a dignità, diritti e doveri, la fondazione della famiglia previo consenso di entrambe le parti, e la particolare tutela dello Stato nei confronti di madri, bambini e persone anziane (D’Onofrio, 2020).

Libertà di associazione sindacale. Diritto espresso nel comma 4 dell’articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani («Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi»).

Essa non è riconosciuto da alcuni Stati fra i quali l’Arabia Saudita, perché́ ritenuta in contrasto con la Shari’ah, ma è rispettato in tutti gli altri Stati di tradizione islamica, anche perché la Carta araba del 2004 prevede la libertà di associazione e riunione pacifica.

L’incompatibilità tra diritti occidentali e diritto islamico non può quindi considerarsi assoluta, dato che molto dipende dal Paese musulmano di cui si tratta. Esistono quindi differenti tendenze, concettualizzate da diversi studiosi e, prendendo ad esempio la classificazione di Andrea Pacini, ritroviamo:

- La tendenza “conservatrice”, che si rifà a una visione tradizionale dell’Islam che è diffusa in particolare in Arabia Saudita e in Qatar. Anche l’Iran e il Sudan si rifanno a tale corrente di pensiero, radicalizzandola: «Questi Paesi tendono quindi a considerare la Shari’ah come l’unica legge da applicare, si pongono in antagonismo rispetto ai diritti dell’uomo universalmente condivisi, e insistono sull’interpenetrazione della dimensione statale e di quella religiosa» (Pacini, 2020)..

- La tendenza “pragmatica”, che caratterizza Paesi che hanno adottato codici di stampo europeo pur mantenendo soprattutto il diritto familiare soggetto alla Shari’ah. Un esempio sono la Tunisia, il Marocco e l’Algeria.

- La terza tendenza è stata definita come quella dei “riformisti contemporanei” e riguarda quei Paesi che hanno cercato di distaccarsi dalla sola interpretazione letterale del Corano, cercando al contrario di darne una nuova interpretazione che guarda all’attualità. Si tratta certamente di una tendenza che ricopre un ruolo minoritario nel mondo dell’Islam e che si rifà alle teorie di pensatori islamici ‘liberali’ quali, tra i più influenti in Egitto, Muhammad Al-Asmawi e in Sudan Abdullahi an-Na ́im, Direttore esecutivo della sede africana dell’Human Rights Watch.

Al di là dei legami tra i diritti umani e la Sharī'a, è cruciale evidenziare il crescente rischio di assistere a un declino nella tutela dei diritti umani. Questo si traduce nel pericolo che molti diritti umani proclamati rimangano solo nelle dichiarazioni, senza una vera tutela e un'applicazione adeguata. La proposta di istituire una Corte Araba dei diritti dell'uomo, sostenuta da Arabia Saudita e Bahrain, evidenzia un cambiamento da un disinteresse sostanziale verso i diritti umani a un approccio costruttivo e dialogante, risultato degli sforzi della comunità internazionale e delle istituzioni come l'Ufficio dell'Alto Commissariato per i diritti dell'uomo presso le Nazioni Unite, che ha dedicato grande impegno alla promozione dei diritti umani in tali paesi (Borea, 2020).

IV. Altri strumenti di protezione dei diritti umani nel mondo arabo

La cooperazione tra gli Stati arabi islamici non ha determinato, come in altre aree geografiche, la creazione di un'unica organizzazione regionale di riferimento per la promozione e tutela dei diritti dell’uomo. Più che di frammentarietà delle diverse organizzazioni, è forse più corretto parlare di pluralità: le varie organizzazioni si sovrappongono in rapporto alle diverse esperienze storiche che hanno determinato il loro sorgere, creando forme di cooperazione "a più velocità". Non è un caso che molti degli Stati siano membri di tutte le organizzazioni regionali e sub-regionali, adottando un atteggiamento, se non contraddittorio, quantomeno singolare (Borea, 2020).

L’Organizzazione della Conferenza Islamica

Quasi parallelamente all’esperienza dell’Organizzazione della Lega araba, nasceva l’Organizzazione della Conferenza Islamica, con l'accordo costitutivo sottoscritto dai 25 Paesi fondatori a Rabat (Marocco) nel 1969. A seguito del conflitto arabo-israeliano del 1967, si è poi sviluppata con l’accordo internazionale denominato Carta dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, sottoscritto a Gedda.

L’O.C.I. è stata la prima organizzazione internazionale a scegliere la religione come criterio di adesione. A differenza della Lega araba, ha sede a Gedda e riunisce cinquantacinque Stati membri di diversi continenti. Ha come scopo promuovere e proteggere i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, nonché quelli oggetto di convenzioni internazionali, quali la tutela dei diritti delle donne, dei minori, dei fanciulli, degli anziani e dei bisognosi, e si occupa della tutela dei valori fondamentali della famiglia islamica.

In particolare, nel dicembre del 1979, il Segretario generale dell’O.C.I. pubblicava una prima bozza per una "Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo nell’islam". Tale primo progetto si proponeva di dimostrare la compatibilità dei principi islamici con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Tuttavia, intenzionalmente si omettevano le vere questioni che impediscono tale obiettivo, ovvero le questioni relative alle pene corporali, alle libertà religiose e al diritto di famiglia, all’apostasia e alla discriminazione di genere (Borea, 2020).

La Dichiarazione del Cairo

La dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo adottata al Cairo nel 1990 non costituisce un trattato internazionale, ma rappresenta un orientamento generale per gli Stati membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica.

Sia nel preambolo che nel corpo della dichiarazione, si evidenziano continui riferimenti alla sharī’a islamica che caratterizza l’intero testo. Vi è una sancita espressa della superiorità della legge coranica, con l'inserimento di una clausola interpretativa che individua nella sharī’a islamica l'unica fonte di riferimento per l'interpretazione di qualsiasi articolo della Dichiarazione.

In particolare, analizzando il testo della dichiarazione, il primo articolo afferma l’idea dell’indivisibilità della grande famiglia umana, discendente da Adamo e unita nella sottomissione a Dio, fonte della comune eguaglianza, dignità e tolleranza tra gli uomini e i popoli. L’Organizzazione della Conferenza Islamica ha adottato il testo della nuova dichiarazione al vertice di Dakar del 2008. Una delle principali novità è costituita dall’instaurazione di una Commissione permanente per i diritti dell’uomo.

La Dichiarazione del Cairo del 1990 presenta luci ed ombre. Considerando che i paesi di tradizione musulmana hanno condiviso solo in minima parte il lavoro di preparazione e proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, si comprende come il tentativo da parte musulmana di mediare fra la propria tradizione culturale e un approccio alle relazioni umane ispirato alle esperienze transnazionali sia agli inizi e presenti incertezze e rigidità, evidenti nella Dichiarazione del Cairo (Borea, 2020).

L’organizzazione del Gulf Cooperation Council

L’organizzazione, nata nel 1981 con la sottoscrizione della carta istitutiva, mirava a favorire la cooperazione economica, politica e militare degli stati arabi del golfo. Nel corso degli anni, ha creato dapprima un’unione doganale, poi una vera e propria area economica comune, e infine una cooperazione allo sviluppo, sia economica che nella tendenza a promuovere l’uniformità dei diritti interni anche in svariati settori, fino ad arrivare alla dichiarazione del golfo sui diritti umani.

E’ opportuno evidenziare che i diritti umani non rientrano tra gli obiettivi della carta istitutiva dell’organizzazione sub-regionale, e per la prima volta il Gulf Cooperation Council, al massimo livello, ha adottato la dichiarazione comune, anche se non vincolante, denominata dichiarazione di Doha.

E' da notare che, come la Carta araba nella versione del 2004, anche la Dichiarazione di Doha contiene nel preambolo il riferimento alla Carta delle Nazioni Unite, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, alla Carta araba dei diritti dell’uomo, nonché alla Dichiarazione del Cairo del 1990. La Dichiarazione di Doha, pur costituendo un passo in avanti nella tutela dei diritti umani, ripropone tutte le criticità proprie dell’effettiva applicazione dei diritti umani nei paesi arabi (Borea, 2018).

V. Conclusioni

L'analisi presentata offre al lettore una panoramica chiara e dettagliata dei sistemi regionali dei diritti umani nella Lega Araba. Si tratta di un'esplorazione della tutela dei diritti umani nell'ambito dell'ordinamento internazionale, che avviene attraverso strumenti legalmente non vincolanti e convenzioni internazionali, le quali, una volta ratificate o sottoscritte dagli Stati, ne vincolano l'attuazione. Il focus del documento è sulle varie organizzazioni sviluppatesi nel mondo arabo per la tutela dei diritti umani, dato che la collaborazione tra gli Stati arabi islamici non ha portato alla creazione di un'unica organizzazione regionale dedicata alla promozione e protezione dei diritti umani.

Il paper suscita una riflessione sull'effettivo rispetto e tutela dei diritti umani nella realtà attuale, che si presenta in modo molto diverso. Nel contesto specifico del conflitto arabo-israeliano, ciò che ci si aspettava dopo la crisi palestinese del 1948, successivamente nel 1967 con la guerra dei sei giorni e nel 1973 con la guerra del kippur, non si è verificato. Al contrario, alla luce del conflitto odierno, gli Stati arabi non sembrano riuscire a formulare una soluzione unitaria e ben definita.I dati e le statistiche di questi giorni, inducono a riflettere sul fatto che le organizzazioni come la Lega Araba, e altre simili, nonostante gli sforzi e i conflitti passati, non lavorino in manifesta omogeneità.

Per porre fine a queste dinamiche, è necessario che vi sia un impegno congiunto tra i paesi arabi e occidentali nei settori culturale e politico-economico, che si ramifichino al fine di gettare le basi per la tutela dei diritti umani nella regione. Inoltre, è di fondamentale importanza promuovere un dialogo aperto e la cooperazione fra tutti i diversi soggetti coinvolti.


Fonti

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