Una Valutazione dello Sforzo Cinese nella Lotta alla Desertificazione

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  27 aprile 2023
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Abstract

La superficie delle terre emerse mondiali è per il 33% desertica. In Cina, disastri ambientali generati dall’impatto diretto dell’uomo e informati da politiche scientificamente immotivate hanno prodotto danni consistenti all’ambiente naturale, causando l’espansione delle aree desertiche e un deterioramento significativo di quelle terre povere in precipitazioni e risorse idriche sotterranee. La Cina si trova dunque a dover far fronte a questo fenomeno che rischia di influenzare negativamente l’economia di un’area consistente del territorio nazionale. Se le politiche adottate in passato si sono dimostrate solo in parte efficaci nella gestione della problematica, le amministrazioni statali faticano ancora a produrre una strategia che si dimostri tanto efficace nell’allocazione delle risorse economiche quanto allo stesso tempo attenta al rispetto delle esigenze specifiche dei contesti in cui è implementata. Obiettivo di questo paper è indagare la natura di questa difficoltà interpretativa e delineare un quadro chiaro e trasparente dell’attuale situazione in cui la Cina si ritrova nella propria lotta contro la desertificazione nel nord del Paese.

Introduzione

Secondo il programma d’azione AGENDA 21, rilasciato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo, per desertificazione si intende quel processo di degradamento dei terreni in aree aride, semi aride e secche sub umide per ragioni connesse al cambiamento climatico e all’attività antropica (Kassas, 1994). Il termine desertificazione, piuttosto che afferire alla semplice espansione delle aree desertiche, indica più in generale il degradamento dei terreni in zone caratterizzate da scarsa disponibilità idrica. Fra i processi coinvolti spiccano l’erosione, per via del quale un terreno perde uno strato di roccia e suolo superficiale a causa degli agenti atmosferici, e la perdita di fertilità di un suolo. Un dato terreno, in queste circostanze, finisce col perdere materia organica, o con vedersi abbassare la concentrazione di nutrienti quali nitrogeno, fosforo e potassio.

La Cina è uno dei Paesi più massicciamente impattati dal fenomeno della desertificazione. Del suo territorio totale, circa il 34% è ufficialmente classificato come dryland, o area arida, ovvero terreno le cui proprietà sono altamente a rischio di desertificazione e deterioramento per via della scarsità di precipitazioni o della disponibilità di acqua sotterranea. Sono 18 le province cinesi interessate dal fenomeno, per un totale di 2,2 milioni di km quadrati. Il Paese ha negli ultimi anni adottato un approccio relativamente efficace per far fronte a questa problematica, ma la metodologia e le prospettive a lungo termine restano oggetto di dibattito nella comunità scientifica internazionale. Nonostante la Cina contribuisca da sola al 25% dell’incremento nella superficie verde mondiale grazie ad ambiziosi programmi statali di recupero delle terre desertificate, l’approccio adottato è comunque rimesso in discussione in quanto spesso monolitico e poco attento a esigenze e caratteristiche locali. Questi programmi, inoltre, hanno il difetto di aver spesso generato problematiche nuove nel risolvere delle vecchie, oltre ad essersi spesso mostrati troppo assertivi nei confronti dello spazio naturale stesso. (Kong, Stringer, Paavola, Lu, 2021)

A questo proposito è interessante sottolineare come un approccio aggressivo nei confronti dell’ambiente e dell’ecologia, inteso come controllo umano sullo spazio naturale, abbia trovato fortuna in Cina con il pensiero di Mao Zedong, a sua volta in una certa misura debitore del pensiero staliniano. La dialettica conflittuale maoista e il concetto di “rivoluzione perpetua” hanno spinto il popolo cinese verso una riconsiderazione delle tradizionali nozioni di armonia e preservazione dello spazio naturale, ciò che con accezioni diverse è definito in cinese con i termini ran e tian. (Murphey, 1967) (Shapiro, 2001)

I primi approcci cinesi al contenimento della desertificazione e l’implementazione del Sanbei Shelterbelt Program (SSP)

I problemi relativi alla desertificazione in Cina hanno iniziato ad emergere dal 1950 con le campagne di mobilitazione di massa come il Grande Balzo in Avanti (1958-1962) e la Rivoluzione Culturale (1966-1976). Questi fenomeni socio-politici da un lato hanno incrementato le difficoltà legate a questo problema, dall’altro hanno allontanato e impedito un approccio risolutivo alla questione. Hanno iniziato così a intensificarsi processi quali disboscamento e overgrazing, o sovrapascolo, che hanno rappresentato i primi, inconsapevoli passi della Cina verso un impoverimento progressivo del suolo e il degradamento delle risorse in esso contenute. Aree desertiche caratterizzate dalla presenza di dune mobili hanno in questo modo perso quello schermo protettivo tra sé e le zone circostanti che impediva al vento la distribuzione e l’espansione della macchia sabbiosa. Solo nel 1978, le attività scientifiche precedentemente sospese durante il periodo maoista sono state ufficialmente riavviate.

In questo contesto di ripresa e apertura è nato il Sanbei Shelterbelt Program (SSP), anche definito Great Green Wall. Si tratta di un progetto che ha l’obiettivo di costituire una barriera difensiva volta al contenimento dell’avanzata del deserto attraverso il rimboschimento di zone aride per una lunghezza di 4480 km e una larghezza contenuta tra i 236 e i 537 m. (BBC, 2001) Il SSP coinvolge 13 province, incluse regioni autonome e municipalità, e 725 contee, interessando in questo modo circa il 45% del Paese. Per il conseguimento della manovra è stata prevista una durata di 73 anni, ripartiti a loro volta in otto differenti cicli temporali. Nel 2018, il progetto ha festeggiato i primi 40 anni dal momento della prima implementazione e si trova attualmente al principio del suo sesto ciclo. Stando ai dati riportati su Baidu Baike, nel 2020, la superficie di terra ricoperta da foreste compresa nell’area del Sanbei è passata dal 5.05% al 13.57% grazie all’impatto dello Shelterbelt Project (Baidu Baike, 2020).

L’abbandono del precedente sistema di collettivizzazione agricola, con conseguente carenza di manutenzione delle annesse infrastrutture, ha esposto importanti aree di terra alle condizioni meteorologiche più estreme. Allo stesso modo, quando il bestiame delle comuni è stato distribuito equamente tra le popolazioni locali, molti dei pascoli collettivi sono divenuti Common-pool Resources (CPR), spingendo in questo modo a uno sfruttamento eccessivo delle risorse, in una forma ibrida di bene tra pubblico e privato in cui queste ultime sono ripartite fra un certo numero di partecipanti. Il rischio di questo tipo di bene è che gli interessati causino attraverso un depauperamento delle risorse la cosiddetta tragedia dei beni comuni. Questo fenomeno è spesso connesso a esiti drammatici in occorrenza di sovrapascolo, come nel caso di terreni a nord della Cina negli anni successivi al 1980, quando è stato definitivamente inaugurato il periodo di riforme economiche, noto come Gaige Kaifang.

Quella che è grossomodo definita come l’area del Sanbei, letteralmente i “Tre Nord” (Dongbei, Huabei, Xibei), di per sé molto eterogenea ed estesa, detiene un’importanza fondamentale all’interno delle prospettive di sviluppo economico del Paese e rappresenta la zona più significativa in cui il progetto è implementato. L’area è inoltre testimone di una commistione etnica importante, citando il ministero: “Nel Sanbei convivono han, hui, manciù, oroqen, uiguri, kazaki, tajiki e altre ventidue minoranze per un totale di circa 100.670.000 individui.” (forestry.gov, 2022). La massiccia presenza di minoranze etniche sul territorio e la liminalità dell’area contribuiscono a incrementare la carica normativa del progetto di inversione dei processi di desertificazione.
Nella provincia della Mongolia Interna, quasi la metà della popolazione totale vive in zone desertiche, in balìa dello spostamento di sabbia o quantomeno sotto la minaccia di tale fenomeno entro una certa misura. Oltre a rendere impraticabili attività agricole e di allevamento, la desertificazione e l’espansione di aree sabbiose contribuiscono in queste zone a problematiche come la produzione di rischi a carico di sistemi di conservazione dell’acqua o addirittura alla viabilità urbana e autostradale, nonché al corretto funzionamento delle linee ferroviarie. A questo proposito, nelle 13 province interessate maggiormente dal problema della desertificazione e dallo spostamento di sabbia da zone caratterizzate dalla presenza di dune mobili o semimobili, una popolazione di circa 400 milioni di persone è direttamente condizionata nella produttività agricola o nella sicurezza alimentare, per quella che il Governo Centrale percepisce come una perdita netta di 64 miliardi di yuan ogni anno (UNCCD, 2017).

Inoltre, nei documenti governativi si evidenzia un costante riferimento alla questione per cui il Sanbei ospiti diverse delle vecchie basi rivoluzionarie del Paese, oltre al fatto che, proprio a nord, la Cina confini con Mongolia e Russia, Stati con i quali condivide porzioni di frontiera più che laute. In questo senso, il fatto che il problema sia condiviso con Paesi limitrofi, contribuisce a rendere la gestione della situazione ancora più complessa e costringe infatti la Cina a promuovere attivamente una collaborazione virtuosa con il governo mongolo, i cui terreni hanno subito negli ultimi decenni un processo di consumo causato principalmente dalle attività dell’industria mineraria. Le attività estrattive rappresentano circa un quarto del Prodotto Interno Lordo del Paese, e negli ultimi anni il governo ha insistito nella lotta alle attività minerarie “artigianali”, condotte autonomamente da nuclei familiari e lontano dal rispetto delle norme di salvaguardia dei terreni. Fondamentale, in questo senso, è per la Cina condividere informazioni ed esperienze maturate nel corso della propria guerra alla desertificazione, di modo da difendersi da ulteriori fattori di natura transnazionale (scmp.com, 2022).

Negli ultimi quarant'anni la situazione è migliorata, con esiti positivi per la già inquinata atmosfera di Pechino, consistentemente interessata dal problema e ritualmente esposta a tempeste di sabbia che rendono spesso l’aria della città irrespirabile per più giorni l’anno. La maggior parte delle tempeste sabbiose che hanno e continuano a colpire Pechino ogni anno provengono dal deserto di Kubuqi, in direzione nord ovest dalla capitale. Tecniche non dissimili a quelle adottate a Minqin hanno fatto sì che le circa settanta tempeste annue registrate nei primi anni Duemila si riducessero a meno di dieci nel periodo recente (Slice, 2023).

Nel documento pubblicato dalla State Forestry and Grassland Administration (SFGA), l’agenzia governativa direttamente incaricata del controllo alla desertificazione, si reitera il fatto che le condizioni ecologiche dell’area condizionino negativamente la vita degli abitanti locali, soprattutto in termini economici (forestry.gov.cn, 2022). Il progetto ha l’ambizione di rappresentare un banco di prova per la collaborazione tra le diverse minoranze etniche locali e una base solida su cui poter costruire un processo di sviluppo economico per la popolazione agricola dell’area d’interesse. Un connubio di approcci bottom-up e top-down è auspicabile nell’approcciare problematiche ambientali. Un esempio di ciò sono quegli sforzi condotti da comunità locali, spesso cooptati scarsamente nella pianificazione verticale, o caratterizzati da una ricerca di obiettivi differenti rispetto a quelli auspicati dal piano introdotto a livello nazionale. Per quanto complesso, ideale sarebbe in questo senso coadiuvare un approccio all’altro in totale sincronia (Eicken, Danielsen, Sam et al., 2021).

I limiti del Sanbei Shelterbelt Program

Nonostante i programmi promossi e implementati a livello nazionale, soprattutto a partire dal 1978, abbiano fondamentalmente condotto a una inversione del processo di deterioramento di alcune aree maggiormente interessate dalla desertificazione, le proprietà chimiche dei terreni recuperati faticano a tornare ai livelli precedenti all’espansione della superficie desertica (Kong, Stringer, Paavola, Lu, 2021).

Nel processo generale di rimboschimento è stata preferita alla varietà genetica la promozione della monocultura. Populus è stata la specie di albero maggiormente piantata, privilegiata per via della velocità di crescita e qualità di adattamento a climi e terreni disparati. Il legno di questa pianta, inoltre, è utilizzato per la fabbricazione della carta e per il riscaldamento casalingo e ha rappresentato per questo un asset importante nell’economia domestica delle popolazioni locali. Tuttavia, l’annoso problema connesso alla monocoltura è quello di impoverire le proprietà del terreno in cui viene adottata, oltre a essere il Populus stesso un albero particolarmente bisognoso di acqua e che rischia, in grandi quantità, di rovinare le riserve idriche sotterranee, soprattutto in contesti geografici caratterizzati da precipitazioni medie inferiori ai 380 mm annui. La monocoltura, inoltre, si dimostra estremamente vulnerabile a insetti e parassiti. Una volta che una piantagione viene invasa da un patogeno esterno, le probabilità di sopravvivenza equivalgono praticamente a zero (Alfonsi, Goth, 2003).

I limiti di questa prima soluzione adottata tra il 1978 e il 1985 sono stati messi in luce dall’arrivo del tarlo asiatico del fusto (Anoplophora Glabripennis), un insetto particolarmente aggressivo che, aggredendo le colture di Populus, ha finito per causarne alti tassi di mortalità. Questo imprevisto, fonte di perdite economiche ragguardevoli per le istituzioni e le popolazioni locali, ha condotto la comunità scientifica verso un acceso dibattito riguardante la riconsiderazione del metodo adottato e la necessità di trovare una soluzione strutturalmente differente. La chiave del secondo stadio di maturazione dello Shelterbelt Program divengono la diversificazione nell’approccio e l’introduzione della policoltura. Oltre ad alberi, questa volta non allogeni, vengono così piantati arbusti e piccole piante, in modo da ricreare un ambiente ecologicamente più diversificato.

Nuovi approcci nella lotta alla desertificazione

La letteratura scientifica suggerisce un approccio differente alla riforestazione per quanto riguarda le aree sabbiose. L’obiettivo ideale sarebbe quello di controllare lo spostamento di sabbia attraverso delle apposite strutture in paglia intrecciata e di piantare piccoli arbusti non alloctoni, come Hedysarum scoparium, Caragana internedia, e Artemisia ordosica. Arbusti simili necessitano di un intervento minore, in quanto meno bisognosi di acqua e più in linea con le condizioni climatiche locali. Piante di questa tipologia, inoltre, necessitano di essere annaffiate soltanto nel momento in cui vengono piantate.

In contesti specifici, lo sforzo della popolazione locale ha condotto all’utilizzo di tecniche estremamente efficaci nel controllo delle sabbie, quali l’adozione di piccole maglie di contenimento nei confronti del vento, griglie di immobilizzazione per le dune, e procedure per il piantamento rapido di alberi (World Bank, 2019). L’esperienza di Minqin, contea del nord ovest, forse la più glorificata all’interno della narrazione nazionale e la più duramente colpita dall’avanzare delle sabbie, riporta il coinvolgimento di migliaia di abitanti locali, il piantamento di circa 1500 arbusti ogni giorno e una riduzione sostanziale nello spostamento delle aree desertiche rispetto al periodo precedente (Slice, 2023).

Il fatto che il Governo perpetui un programma imperniato sul rimboschimento fornisce un'idea di quanto il problema della desertificazione resti parallelo a quello forse più grave del cambiamento climatico e delle emissioni di anidride carbonica, che il Paese intende limitare e azzerare entro il 2060 dopo aver raggiunto un picco previsto nel 2030. Oltre a rappresentare un avamposto difensivo per la capitale, infatti, il Great Green Wall, alla sua massima espansione, favorirebbe anche la riduzione dei livelli di anidride carbonica nell’atmosfera. Si tratta certamente di una misura palliativa, se considerato il ritardo del Paese nell’incontrare gli obiettivi prefissati dal quattordicesimo Piano Quinquennale per il 2025 in materia di emissioni di CO2 (Carbon Brief, 2023).

Piantare alberi ha riscosso un successo decisamente superiore nella zona orientale del nord della Cina, il Dongbei, dove le precipitazioni annue sono di 380-400 mm. In aree dove la soglia delle precipitazioni è più bassa, e dove le riserve di acqua sotterranea sono inferiori e raramente stimolate dal deflusso, un approccio basato sul rimboschimento è invece destinato a raccogliere risultati decisamente più scarsi. (Jiang, 2016).

Un programma a larga scala merita certamente un ragionamento diversificato nel contesto del quale non è possibile giungere a una soluzione universale, ma piuttosto a un piano d’azione localmente applicato in declinazioni diverse. Per questa ragione, l’efficacia di un approccio top-down deve essere messa in discussione tra i piani alti dell’amministrazione. Coinvolgere attivamente tanto i cosiddetti “eroi” della lotta alla desertificazione, quelle figure locali che attraverso il proprio lavoro, tempo e denaro hanno combattuto in prima linea la sfida alla desertificazione, quanto la comunità scientifica all’interno dei processi decisionali resta, dunque, un’operazione chiave per la riuscita del programma (Jiang, 2006).

La SFGA applica una differenziazione sostanziale tra aree desertiche e aree sabbiose. Il movimento delle sabbie è considerato uno dei problemi più cogenti dall’amministrazione cinese. Quello del Gobi, che in mongolo ha il significato di “luogo senza acqua”, è il deserto che al mondo si espande alla velocità più alta in assoluto. Ogni anno inghiotte circa 6000 chilometri quadrati di terre coltivabili, costringendo decine di migliaia di individui, tanto in Cina quanto in Mongolia, a fuggire dall’avanzare delle sabbie per spostarsi in luoghi climaticamente più ospitali. Progetti di ricollocamento delle popolazioni locali vengono adottati dai governi provinciali nel momento in cui i terreni di un’area vengono considerati completamente degradati. Talvolta, inoltre, politiche volte alla riduzione del fenomeno di sovrapascolo, finiscono con allontanare gli allevatori da pascoli ancora attivi, sui quali alcuni esperti sostengono che attività moderate di pascolo abbiano invece effetti fondamentalmente positivi (nytimes.com, 2016).

Nell’affrontare la desertificazione, in Cina, vengono spesso sollevate soltanto le cause dirette, quali lo sfruttamento eccessivo dei pascoli, l’agricoltura intensiva, la deforestazione e il consumo delle falde acquifere sotterranee, tenendo in questo modo in scarsa considerazione tutte quelle cause indirette e sovrastrutturali quali il cambiamento climatico influenzato dall’emissione di gas serra. Il Governo cinese ha largamente investito su un piano di contenimento della desertificazione, ma investimenti di questa portata, associati a una burocrazia deficitaria nell’interesse verso le condizioni dei contadini che implementano direttamente le manovre di controllo, potrebbero avere vita breve e spingere i contadini a tornare a un atteggiamento e a delle pratiche antecedenti al progetto. La verticalità dell’approccio top-down, inoltre, rende inefficace l’allocazione delle risorse, le quali vengono per lo più sprecate nel passaggio da uno strato all’altro della catena di comando. Quando il Chinese Committee for Implementing UN Convention to Combat Desertification (CCICCD) è stato associato direttamente alla SFGA, ha subito un processo di burocratizzazione che ha messo a repentaglio l’efficacia delle misure fino a quel momento adottate. Proprio la SFGA ha spinto nel continuare a promuovere un controllo aggressivo degli ambienti a rischio anche laddove studi scientifici avevano sottolineato una maggiore efficacia di un ripristino naturale del suolo. Ciò che appare piuttosto evidente, in generale ma ancora più specificamente in un contesto come quello cinese, è l’importanza di trovare un equilibrio convincente tra politica, scienza e ambiente culturale nel combattere efficacemente il fenomeno della desertificazione (Jiang, 2006).

La Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo, adottata nel 1994 ed entrata in vigore dal 1996, rappresenta ad oggi il solo accordo internazionale vincolante nei confronti di una gestione dei terreni che sia sostenibile in termini di ambiente e sviluppo. La UNCCD vincola legalmente i 197 Paesi partecipanti alla condivisione delle misure adottate a livello nazionale. In questo senso, le pianificazioni adottate dai Paesi partecipanti devono allinearsi in una certa misura alle strategie decennali della UNCCD (UNEP, 2022).

Conclusione

Purtroppo, l’approccio adottato a livello nazionale ha dimostrato nel corso degli anni scarse qualità in termini di adattamento ed elasticità. L’attaccamento dimostrato alla dinamica del rimboschimento e alla costruzione di una muraglia verde a protezione della capitale ha inoltre riportato a galla la consueta rigidità interpretativa del Partito, la cui narrazione e il cui controllo sull’informazione, anche scientifica e accademica, hanno condotto inevitabilmente a un impoverimento del dibattito relativo alla questione. In questo modo, resta evidente nella strategia adottata dalla Cina nella propria lotta contro la desertificazione, una scarsa integrazione tra la ricerca scientifica e le esperienze locali. Inoltre, problemi relativi all’immobilismo in alcuni settori amministrativi del Paese hanno contribuito ulteriormente a rendere poco efficiente il dialogo tra istituzioni e popolazione, e hanno complicato l’allocazione di risorse economiche necessarie nella pianificazione di una strategia che si dimostri vincente e che abbia delle prospettive a lungo termine (Jiang, 2016).

Fondamentale resta anche ricordare come venga, almeno nella narrazione ufficiale, spesso ignorata o quantomeno minimizzata l’importanza delle cause indirette del fenomeno di desertificazione, quali l’impatto diretto anche nazionale sui processi di inquinamento atmosferico ed emissioni di gas serra dovuti all’industrializzazione urbana. A questo proposito, un’esperta del settore, la Dottoressa Lindsay Stringer, professoressa della cattedra di “ambiente e sviluppo” all’Università di Leeds, ha sottolineato in un suo studio come il cambiamento climatico influenzi direttamente l’intensità e la frequenza di fenomeni meteorologici estremi quali siccità e alluvioni, il cui impatto negativo nel processo di deterioramento dei terreni aridi è estremamente alto (Carbon Brief, 2019).

Saper adattare le proprie strategie al tipo di necessità poste dalla natura locale significherebbe per il Governo Centrale fare un passo indietro rispetto alla semplicistica ambizione di piantare alberi e di costruire una grande muraglia verde a difesa dei propri confini. Ciò implicherebbe, oltretutto, una presa di coscienza della limitatezza delle misure fino a questo momento adottate in virtù di un atteggiamento meno aggressivo nei confronti dello spazio naturale e maggiormente consapevole di quella tradizione cinese che vede nel rapporto uomo-natura un equilibrio armonioso da dover gestire e preservare.

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