Dati e percezioni: il peso dell’economia sulle presidenziali USA

Focus


Cecilia Di Fulvio, Junior Policy Analyst

Abstract

“Are the Americans better off than four years ago?” La prima domanda rivolta ai candidati durante il dibattito presidenziale di settembre rivela la centralità del tema economico nell’attuale corsa alla Casa Bianca. Questo lavoro ha l’obiettivo di analizzare l’impatto dell’economia sulle scelte di voto degli americani nelle prossime elezioni presidenziali.

Partendo dal concetto “economic voting”, la prima parte di questa analisi ripercorre il legame tra economia e voto nelle elezioni presidenziali americane nel tempo. Nonostante l'economia rimanga l’elemento più rilevante per la maggior parte dei cittadini statunitensi, negli ultimi decenni la relazione tra performance economica e comportamento elettorale è diventata più sfumata. La polarizzazione politica, l'aumento delle disuguaglianze economiche e la politicizzazione dei media hanno reso gli elettori più distaccati dagli indicatori macroeconomici tradizionali. Attraverso un'analisi delle proposte economiche di Kamala Harris e Donald Trump, il secondo paragrafo confronta gli impatti potenziali delle loro politiche su crescita economica e disuguaglianze sociali. Inoltre, esaminando gli "swing states", dove i candidati si trovano a pochi punti percentuali di distanza nei sondaggi, si evidenzia come le valutazioni sull’economia varino tra gli elettori indecisi, influenzando potenzialmente l'esito delle elezioni del 2024. In conclusione, si sostiene che, nel contesto attuale, le percezioni individuali e la polarizzazione avranno un ruolo chiave, e che una definizione aggiornata di "voto economico" deve includere questi fattori per prevedere più accuratamente i risultati elettorali.

INDICE

  1. Il legame tra economia e voto
  2. Quadro attuale e prospettive: le proposte di Trump e Harris
  3. L’economia deciderà le elezioni 2024? Uno sguardo agli “swing states”
  4. Conclusioni

1. Il legame tra economia e voto

Stando ai sondaggi, l’economia è considerata come il parametro che il maggior numero di americani considera per decidere chi votare alle elezioni presidenziali. Secondo le indagini statistiche condotte dal Pew Research Center ad inizio settembre, per l’81% degli elettori statunitensi l’economia è una questione più rilevante dell’immigrazione, dei diritti riproduttivi, e della sanità. Questo paragrafo esplora le prospettive teoriche sul legame tra economia e voto nelle elezioni presidenziali.

Il termine economic voting si riferisce tradizionalmente all’impatto dell’andamento macroeconomico sulla possibilità del presidente uscente di essere rieletto. Vi sono però pareri discordanti su quali parametri influenzino effettivamente il voto. Secondo alcuni economisti (Fair 2019) il tasso di occupazione e di crescita economica sono gli indicatori più affidabili per prevedere il risultato di un’elezione, in particolare quando l’amministrazione in carica è percepita come responsabile per l’andamento dell’economia. Per altri, invece, sono le condizioni economiche a livello locale (Healy, Lenz 2017) o di “classe” (Linn, Nagler 2005) a fare la differenza. Tuttavia, esiste una corrente di pensiero secondo cui vi sarebbero altri fattori decisivi per il voto, in quanto le molteplici identità di gruppo presenti negli Stati Uniti influenzano la reazione degli elettori agli eventi che impattano il benessere. Nella rust belt, il declino economico causato dalla deindustrializzazione ha prodotto effetti politici divergenti tra elettori bianchi e neri. Se i primi tendono a favorire i repubblicani per cercare di mantenere il proprio status di dominanza, gli altri rifiutano la promessa di “tornare a un passato migliore”, supportando invece i programmi progressisti Dem(Baccini, Waymouth 2021).

La domanda sorge spontanea sul legame tra economia e voto nel tempo.

Negli anni del secondo dopoguerra, le preferenze dei cittadini americani riflettevano lo stato degli indicatori macroeconomici tradizionali: crescita del PIL e occupazione.

A partire dagli anni ’70, il naturale rallentamento della crescita è stato accompagnato dall’aumento progressivo delle disuguaglianze: tra il 1980 e il 2021 l’income gap è aumentato di quasi il 20%. In tale scenario, le condizioni finanziarie degli elettori sono diventata più significative del quadro macroeconomico nazionale nel determinare il voto. Includendo questo fenomeno nella definizione di economic voting, sarebbe logico aspettarsi una correlazione tra il potere d’acquisto (ndl, reddito reale) degli elettori e le preferenze espresse.

Tuttavia, guardando alle presidenziali di questo secolo, si nota che il comportamento elettorale è in gran parte slegato dall’effettivo miglioramento o peggioramento delle condizioni degli americani. Nel 2012, Obama ha vinto con il tasso di disoccupazione più alto di ogni presidente rieletto dal 1936. Nel 2016, con un quadro economico migliore, la Casa Bianca è passata in mano ai repubblicani. Le elezioni che vedono la politica economica dell’incombente determinare il risultato sono tendenzialmente quelle successive a degli shock: andando a ritroso, quelle del 2008 che hanno visto la vittoria di Barack Obama, quelle del 1988 in cui a trionfare fu George W. Bush, nel 1980 quando vinse Ronald Reagan e nel 1932 con la storica vittoria di Franklin D. Roosvelt.

Negli ultimi decenni, un fenomeno politico ha contribuito a rendere il voto economico complesso da analizzare. Secondo uno studio della Wichita University, nelle presidenziali degli ultimi 30 anni l’economic voting è inversamente correlato alla polarizzazione: le elezioni caratterizzate da campagne fortemente ideologiche tendono ad attirare alle urne i cittadini più radicali, che votano secondo criteri identitari e ideologici, e ad allontanare gli swing voters, più attenti alle condizioni materiali rispetto ai primi. L’aumento della polarizzazione del discorso politico sul lungo periodo produce anche un effetto strutturale sul voto economico, dal momento che una porzione maggiore dell’elettorato percepisce l’andamento dell’economia attraverso le lenti del proprio orientamento partitico (Hall, 2018).

L’aumento delle disuguaglianze economiche e la polarizzazione dell’opinione pubblica hanno contribuito ad una profonda trasformazione del concetto di voto economico. Se negli anni ’50 questo era fortemente legato alle prestazioni dell’amministrazione in carica (ndl, voto retrospettivo), nel contesto attuale le variabili da tenere in considerazione sono più numerose, compresi i media and framing effects.

2. Quadro attuale e prospettive: le proposte di Trump e Harris

Questo paragrafo ha l’obiettivo di fornire un quadro chiaro dell’attuale stato dell’economia negli Stati Uniti e delle proposte politiche di Kamala Harris e Donald Trump in merito.

I principali indicatori macroeconomici denotano un’economia nazionale in salute: la crescita del PIL è tornata ai livelli pre-pandemici (+3% rispetto allo scorso anno), l’inflazione si sta stabilizzando (2,5% annuale) e la Federal Reserve Bank (la banca centrale statunitense) ha tagliato i tassi di interesse di mezzo punto, la disoccupazione è inferiore al 4% da due anni. Sulla carta, il debito pubblico è l’unico fattore che risente ancora fortemente della crisi del 2020 (122.1% del PIL, rispetto al 106.6% del 2019). Ma i prezzi restano molto più alti che a gennaio 2021. In apertura del primo dibattito, uno dei moderatori ha posto a Kamala Harris la fatidica domanda che determinò la vittoria di Reagan nel 1980: gli americani stanno meglio di quattro anni fa? La risposta resta un parametro attuale per prevedere in che modo l’economia può impattare il voto, ma non il solo.

Secondo alcuni sondaggi, il 60% degli americani è convinto che l’economia nazionale sia in recessione, e secondo il 90% i prezzi sono cresciuti più dei salari nell’ultimo anno. L’Economic Studies Bulletin dell’istituto di ricerca Brookings indica l’aumento del costo della vita, delle disuguaglianze sociali, e delle narrazioni pessimistiche da parte di media politicizzati come le principali cause di questo scollamento, a cui si aggiungono preoccupazioni di altra natura (aumento delle guerre e del tasso di criminalità nazionale, tensioni politico-culturali).

Cosa propongono i due candidati per far fronte alle difficoltà materiali e morali degli americani?

Kamala Harris ha promesso di realizzare una “economia delle opportunità”: tra le principali misure, un taglio delle imposte per le famiglie a basso e medio reddito e l’erogazione di sussidi per l’acquisto della prima casa per un valore medio di $25.000. In programma un aumento dell’aliquota dell’imposta sui redditi d’impresa dal 21% attuale al 28% per finanziare questi interventi.

Nello specifico, il programma di Harris prevede di aggiustare i meccanismi di credito in modo da includere più famiglie a medio reddito, incrementare il “Child Tax Credit (CTC)” da $2.000 a $3.600 o $3.000 per ogni figlio a seconda che sia di età inferiore a 5 anni o meno, e di alzare l’età massima del figlio da 16 a 17 anni. È prevista anche l’espansione dell’ “Earned Income Tax Credit” dedicato a lavoratori senza figli, che sarà esteso ai giovani tra i 19 e i 24 anni, al momento esclusi.

Quanto alle piccole imprese, è prevista la possibilità di detrarre le spese di avvio dell’attività fino a $50.000 (10 volte più degli attuali $5.000) e il potenziamento degli istituti di credito per lo sviluppo locale, con l’obiettivo di garantire l’accesso al finanziamento per iniziare un’attività anche alle comunità rurali più svantaggiate.

Altre misure in programma sono l’eliminazione delle tasse sulle mance e il divieto di speculazione sui prezzi a livello nazionale.

L’approccio di politica commerciale sembra ricalcare quello dell’attuale amministrazione: multilateralismo e competizione con la Cina in settori strategici attraverso dazi mirati.

In sede di dibattito, la candidata Dem ha cercato di smarcarsi dall’operato di Biden, presentandosi come leader di nuova generazione. Tuttavia, gran parte delle misure economiche proposte potenziano provvedimenti dell’attuale amministrazione, a cui Harris aggiunge un occhio di riguardo verso i giovani e la classe media. La parola d’ordine è empowerment.

L’imperativo di Trump resta “America First”, con un programma volto a favorire la competitività dell’industria americana attraverso tagli fiscali, misure protezionistiche e deregolamentazione.

In particolare, il tycoon ridurrebbe l’aliquota dell’imposta sui redditi d’impresa dal 21% al 15% e renderebbe permanente il “2017 Tax Cuts and Jobs Act (TCJA)”, che altrimenti scadrebbe nel 2025 e permette a molte imprese (anche di grandi dimensioni) di versare imposte a un’aliquota inferiore al 21% previsto. Inoltre, ripristinerebbe la capacità delle imprese di dedurre immediatamente tutti i costi di ricerca e sperimentazione, invece di ammortizzarli su cinque anni. Ne beneficerebbero anche gli individui che appartengono alla fascia di reddito più alta, con un taglio fiscale permanente del 2,6% rispetto ai livelli pre TCJA e soglie per l’esenzione elevate. Quanto al CTC, rimarrà a $2,000 con una parte rimborsabile di $1,400 e sarà ridotto per le famiglie con redditi superiori a $400,000. L’ “Earned Income Tax Credit” rimarrà in vigore. Inoltre, sono previsti sgravi fiscali per le famiglie beneficiarie di misure di welfare per gli anziani.

Quanto alla politica commerciale, Donald Trump mantiene la posizione protezionistica portata avanti durante il primo mandato nei confronti della Cina, con la prospettiva di estenderla potenzialmente ad altri competitors. L’obiettivo è rafforzare l’industria americana e migliorare la bilancia commerciale: in programma imposte su beni importati fino al 20% del prezzo, inclusa una tariffa generale del 10% su tutte le importazioni.

Quale sarebbe l’impatto dei rispettivi programmi sull’economia degli Stati Uniti?

Un’analisi condotta dall’Università della Pennsylvania prevede che, se implementate, le politiche di Harris porterebbero sì a un quadro economico leggermente peggiore rispetto a quelle di Trump, ma anche ad una riduzione delle disuguaglianze. Le proiezioni su 10 anni in caso di amministrazione Dem prevedono una caduta del PIL (-1,3%), degli investimenti e dei salari (-0,8%) nel 2034, e una crescita del deficit di bilancio di 2 trilioni di dollari. La situazione economica delle famiglie a basso e medio reddito migliorerebbe, mentre peggiorerebbe quella del 5% più ricco.

I tagli fiscali proposti da Trump porterebbero il debito pubblico ad aumentare di 4,1 trilioni di dollari nello stesso periodo, una caduta del PIL dello 0,4% e lo stesso livello di salari (in diminuzione nel lungo periodo). Gli investimenti aumenterebbero per poi diminuire nel lungo periodo. Le famiglie in tutte le fasce di reddito avrebbero una disponibilità economica maggiore, ma il deficit di bilancio sarebbe più oneroso per le generazioni future.

Nelle previsioni non sono inclusi gli effetti della politica commerciale, che nel caso di amministrazione repubblicana porterebbe introiti molto più ingenti, ma esporrebbe gli Stati Uniti al rischio di contromisure.

Nonostante le attuali performance dell’economia americana, la diffusa percezione di un andamento negativo e le effettive difficoltà materiali che gli elettori hanno affrontato negli ultimi quattro anni suggeriscono che l’economia potrebbe essere un elemento a favore di Trump, dal momento che le proposte di Harris ricalcano in parte le politiche dell’attuale amministrazione. Tuttavia, per capire se l’economia può realmente essere l’elemento decisivo delle presidenziali 2024, bisogna indagare le posizioni degli elettori che effettivamente decideranno il risultato: i cittadini degli swing states.

3. L’economia deciderà le elezioni 2024? Uno sguardo agli “swing states”

Questa sezione analizza il modo in cui le percezioni dell’andamento economico potrebbero influenzare il voto negli swing states.

Dagli ultimi sondaggi, gli stati dove le preferenze per i due candidati sono a meno di 3 punti percentuali di distanza sono sette: Arizona (Trump +0,6%), Georgia (Trump +1,1%), Michigan (Harris +2,6%), Nevada (Harris +0,7%), North Carolina (Trump +0,2%), Pennsylvania (Harris +1,4%) e Wisconsin (Harris +1,7%). Nei polls sugli swing states vengono inclusi anche la Florida (Trump +4,1%), il Minnesota (Harris +6,1%) e il New Mexico (Harris +8,8%).

Un recente studio del Redfield & Wilton Strategies Research Team mostra le posizioni degli elettori negli stati in bilico riguardo diverse questioni economiche, tra cui la propria situazione finanziaria, la preoccupazione per il costo della vita, e le strategie proposte dai due candidati.

Un primo dato generale illustra la centralità del tema per la decisione degli swing voters: nei dieci stati in questione, tra il 30% (New Mexico) e il 44% (Georgia) degli intervistati dichiara che l’economia sarà l’elemento determinante il proprio voto, mentre il costo della vita lo è per il 66-77%.

Come prevedibile, la maggioranza (55-69%) dei probabili elettori di Trump dice che la propria situazione finanziaria è peggiorata nell’ultimo anno, mentre i probabili elettori Dem tendono a rispondere che le proprie finanze sono restate invariate (38%-44%) o sono migliorate (22-38%). Proporzioni simili si ripropongono quando gli intervistati dichiarano se si sentono in grado o meno di “arrivare a fine mese” e sostenere l’aumento del costo della vita, così come riguardo le aspettative sulla propria situazione finanziaria nel prossimo anno.

Quanto alla fiducia nella capacità dei candidati di migliorare l’economia, gli swing voters si dividono. In Florida, Michigan, North Carolina e Pennsylvania Donald Trump è ritenuto più affidabile in questo ambito, mentre in Arizona, Minnesota e New Mexico è la candidata Dem a ispirare più fiducia, e si registra una parità in Georgia e Wisconsin. Ad esclusione della Florida (+6%) e del Michigan (+4%), i margini tra le preferenze per i due candidati sul tema sono molto stretti, con differenze inferiori al 3%, e la candidata Dem in crescita. Si interseca con questo quadro la tendenza degli elettori verso le politiche economiche dei partiti, che vede in vantaggio i Democratici (42-53%) sui Repubblicani (35-43%).) Intrecciando i dati relativi ai partiti e ai candidati, si ricavano percentuali pressoché equivalenti dalle due parti.

Complessivamente, gli elettori negli swing states restano divisi: se il fatto che in gran parte (52%, tra cui un quarto dei probabili elettori Dem) guardano alla traiettoria dell’economia americana con pessimismo potrebbe essere un punto a favore di Trump, la fiducia rivolta ad Harris riguardo alla gestione dell’inflazione e del costo della vita è notevolmente aumentata dall’inizio della sua campagna, restringendo di molto il margine di vantaggio del candidato repubblicano sul tema.

Conclusioni

La definizione tradizionale di economic voting non rispecchia la realtà attuale dei fattori che spingono gli elettori americani a decidere per chi votare. L’economia è un tema centrale e comprende la situazione finanziaria dell’individuo così come l’andamento degli indicatori macroeconomici, che tendono ad essere interpretati attraverso convinzioni politiche preesistenti. Le bolle mediatiche, create a loro volta da preferenze espresse più o meno esplicitamente dai cittadini nella vita quotidiana, rafforzano l’effetto della polarizzazione sul voto economico.

In questo quadro, le percezioni hanno un ruolo fondamentale nel determinare l’esito delle presidenziali: il coinvolgimento dei dati macroeconomici nella contesa politica esclude la possibilità che un’inversione di tendenza riesca a spostare il numero di voti necessari per decidere il risultato. Il taglio dei tassi di interesse da parte della Fed può essere interpretato, a seconda del proprio orientamento, come un segnale di futura crescita del potere di acquisto, o come un indicatore di rischi al ribasso (surriscaldamento dell’economia, contrazione degli investimenti e dell’offerta di lavoro).

I sondaggi degli ultimi due mesi potrebbero dare l’impressione che le percezioni cambino rapidamente, ma guardandoli più da vicino riflettono una tendenza già chiara durante la campagna di Biden: la volontà degli swing voters di distanziarsi dall’amministrazione in carica, che sia verso un secondo mandato di Donald Trump o una nuova leadership democratica incarnata da Kamala Harris.

Bibliografia

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