"The Cartel"

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  Davide Shahhosseini
  27 January 2021
  4 minutes, 43 seconds

Secondo quanto riportato dal Committee to Protect the Journalists, dal 1992 ad oggi sono 125 i giornalisti assassinati in Messico: un numero drammatico che non solo pone il Paese latinoamericano al primo posto nell'ingloriosa classifica dei territori più pericolosi al mondo per esercitare la professione di giornalista, ma che ha, al contempo, dato origine a un “limbo” di inchieste, in attesa di avere finalmente un seguito, anche al fine di non vanificare il coraggio e l’onestà intellettuale delle centinaia di “desaparecidos” della stampa libera messicana.

Il “The Cartel” si presenta come un programma senza precedenti nel panorama della cooperazione internazionale tra stampa libera. Lo stesso vede il contributo alla causa di 25 organi di stampa e 60 giornalisti provenienti da più Paesi: Messico, Stati Uniti, alcuni Stati europei, ecc.

Il progetto, chiaramente in linea con le tematiche delle inchieste interessate, si suddivide in diverse aree principali, le quali pongono enfasi sui rapporti - sempre più a larghe intese - che i cartelli del narcotraffico messicani, tra i quali “Los Zetas”, sono riusciti a consolidare con i rami della politica, non solo a livello nazionale ma anche oltreoceano.

Gli uomini e le donne di The Cartel si sono occupati del caso di Regina Martinez Pérez, la giornalista di 48 anni brutalmente assassinata nel 2012 all’interno della sua abitazione nello Stato di Veracruz: i depistaggi messi in atto sulla scena del crimine, da parte della stessa polizia locale, hanno contribuito - assieme alla refrattarietà manifestata dalle autorità politiche nell’andare a fondo - a fare del caso di Regina uno dei tanti martirii di giornalisti rimasti irrisolti nel Paese latinoamericano. Regina lavorava per il quotidiano nazionale “Proceso”, presso il quale si era occupata di diversi casi, volti a documentare come gli affari del narcotraffico si svolgessero con l’accondiscendenza e, in molti casi, con il diretto coinvolgimento delle forze di pubblica sicurezza e della stessa classe dirigente locale. Sebbene gran parte del materiale raccolto da Regina fu sottratto dai suoi carnefici dopo l’omicidio, i giornalisti di The Cartel, attraverso numerose testimonianze da parte di ex colleghi e di esponenti delle autorità locali, sono riusciti a ricostruire in larga parte il filone di inchieste sulle quali la reporter messicana stava indagando poco prima di essere assassinata. Una di quelle che ha avuto maggiore risonanza, tanto nella cronaca locale quanto a livello internazionale, è il caso delle fosse comuni di Veracruz. Tra il 2009 e il 2011, dei veri e propri cimiteri clandestini sono stati scoperti nella provincia di Palo Verde. Luoghi di morte dove il cartello facente capo agli Zetas faceva sparire coloro che si opponevano alla loro ascesa: imprenditori che si rifiutavano di pagare il pizzo; donne rapite e assassinate dopo essere state costrette a prostituirsi; giornalisti; studenti e dissidenti vari. Regina, in relazione a quanto emerso dalle indagini di The Cartel, era riuscita a ricostruire la rete di rapporti che connetteva i governatori del distretto federale di Veracruz, Herrera prima e Duarte poi, ai cartelli della regione, denunciando come entrambe le amministrazioni locali fossero non solo a conoscenza del sistema di racket messo in atto dagli Zetas, ma che entrambi i governatori “usufruivano” di questi ultimi come braccio armato da impiegare contro giornalisti e dissidenti, nel quadro di un vero e proprio sodalizio tra potere pubblico e criminale. Proprio durante il mandato di Javier Duarte (2010-2016), a Veracruz sono stati assassinati 16 giornalisti, inclusa Regina Martìnez.

Le pressioni esercitate da The Cartel sul caso Regina, archiviato nel 2015 come rapina finita male, hanno portato il presidente messicano, Andrés López Obrador, a sollecitare la procura di Veracruz nel novembre del 2017 affinché venissero riaperte le indagini.

Un altro caso nel quale si è imbattuto The Cartel, è quello dell’approvvigionamento, da parte di aziende private, anche con sede in Paesi UE, dei più moderni sistemi di sorveglianza alle forze di intelligence messicane. Queste ultime, come trapelato nel 2015 a seguito della fuga di dati che ha interessato l’azienda italiana Hacking Team, su disposizione delle autorità politiche locali, acquistavano software-spia all’avanguardia. L'acquisto non era fatto per ragioni legate alla sicurezza pubblica bensì, paradossalmente, per monitorare le attività di oppositori politici, addetti al mondo dell’informazione e attivisti vari. Inoltre, sempre sulla scia dell’intesa tra autorità locali e potere criminale, le stesse organizzazioni del narcotraffico, sempre più spesso riescono ad avere accesso a questa moltitudine di strumenti ad hoc, assicurandosi un controllo non più esclusivamente a livello territoriale, ma anche su base virtuale, arrivando così a monitorare e, dunque, ad intervenire tempestivamente, laddove vi siano forme di dissenso e contrasto al loro business.

Oggi il Messico è tra i primi 15 paesi al mondo per tasso di omicidi – dal 2014 al 2018 si è assistito ad un incremento del 80%, passando da 16 a 29 omicidi ogni 100 mila abitanti; nel 2019 è stato posizionato al 130° posto su una classifica di 180 paesi in termini di trasparenza e tasso di corruzione. Tutti dati che fanno riflettere circa gli ostacoli per il mondo dell’informazione indipendente messicano nell’interagire e rapportarsi con un sistema di potere, che vede nella cosa pubblica un mezzo per perseguire un tornaconto personale. Si tratta di un sistema politico che pur di salvaguardare l’interesse privato è disposto a solidarizzare con chi, al contrario, dovrebbe essere contrastato con quegli stessi mezzi conferiti alle istituzioni al fine di tutelare l’interesse pubblico.


a cura di Davide Shahhosseini 

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