Cosa c’è dietro l’esplosione globale di conflitti violenti?

il numero, l’intensità e la durata dei conflitti in tutto il mondo sono ai livelli più alti da prima della fine della Guerra Fredda.

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  Redazione
  29 dicembre 2023
  13 minuti, 51 secondi

A cura del Dott. Pierpaolo Piras, studioso di Geopolitica e componente del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS

E’ ben noto all’opinione pubblica mondiale che il numero dei conflitti sta aumentando e diffusi in più parti del globo.

Oltre all’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele e all’offensiva israeliana su Gaza, che sollevano lo spettro di una guerra più ampia ed distruttiva in Medio Oriente, si è verificata un’ondata di violenza in tutta la Siria, inclusa un’ondata di attacchi armati di droni che hanno minacciato sensibilmente le truppe statunitensi di stanza in quei territori.

Nel Caucaso, alla fine di settembre scorso, l’Azerbaigian ha conquistato l’enclave contesa del Nagorno-Karabakh, costringendo circa 150.000 armeni a fuggire dalla loro dimora storica nel territorio e ponendo le basi per una rinnovata conflittualità con l’Armenia.

Nel frattempo, in Africa, infuria la guerra civile in Sudan, la guerra è tornata in Etiopia e la presa del controllo militare del Niger a luglio è stato il sesto colpo di stato nel Sahel e nell’Africa occidentale dal 2020.

Secondo un’analisi dei dati raccolti dal Peace Research Institute di Oslo, il numero, l’intensità e la durata dei conflitti in tutto il mondo sono ai livelli più alti da prima della fine della Guerra Fredda.

Infatti, nel 2022 è stata verificata l’esistenza di ben 55 conflitti attivi, con una durata media di circa 8-11 anni, un aumento sostanziale rispetto ai 33 conflitti attivi della durata media di sette anni di dieci anni prima.

Nonostante l’aumento dei conflitti, è trascorso più di un decennio da quando è stato raggiunto un accordo di pace globale mediato a livello internazionale per porre fine a una guerra. Mentre i processi politici guidati o assistiti dalle Nazioni Unite in Libia, Sudan e Yemen sono in fase di stallo oppure sono del tutto crollati.

Conflitti apparentemente congelati – in paesi come Etiopia, Israele e Myanmar – si stanno riattivando a un ritmo di nuovo allarmante.

Con l’ invasione russa dell’Ucraina, un conflitto ad alta intensità è tornato in Europa, che in precedenza aveva goduto di diversi decenni di relativa pace e stabilità.

Accanto alla proliferazione delle guerre si sono verificati livelli record di sconvolgimenti umani.

Nel 2022, un quarto della popolazione mondiale – circa due miliardi di persone – viveva in aree flagellate da conflitti armati. Il numero di persone costrette a sfollare in tutto il mondo ha raggiunto la cifra record di 108 milioni all’inizio del 2023.

Finora, la risposta internazionale degli Stati membri dell’Unione Europea, del Regno Unito e degli Stati Uniti, che hanno tutti investito massicciamente nella costruzione di una pace stabile sulla scia della Guerra Fredda, è stata quella di spostare l’obiettivo della “pace” dal conflitto guerreggiato alla semplice gestione dei conflitti “attivi”.

Ma gli eventi in Medio Oriente e altrove ci ricordano che il conflitto può essere gestito solo per un certo periodo.

Un’ulteriore preoccupazione viene dal fatto che mentre i conflitti divampano in tutto il mondo e le cause profonde delle ostilità rimangono in gran parte irrisolte, gli strumenti tradizionali di costruzione della pace e dello sviluppo socio-economico appaiono sempre più lontani ed inefficaci.

Uno dei risultati negativi è dato dai costi degli aiuti che crescono a dismisura, i rifugiati vengono sfollati in strutture di fortuna e le società così devastate continuano a soffrire di povertà e di malattie da deprivazione.

Sotto il profilo della politica internazionale si rende sempre più necessario un nuovo e urgente approccio alla risoluzione e alla gestione dei conflitti e alla conduzione più virtuosa del loro impatto geopolitico.

Considerazioni

Dopo essere diminuito tra il 1990 e il 2007, il numero totale dei conflitti a livello mondiale ha cominciato ad aumentare nel 2010, come ha rilevato l’Uppsala Conflect Data Program.

Il numero di guerre civili e interstatali, senza dimenticare le vittime che essi causano, sono ora ai livelli più alti dalla metà degli anni ’80.

L’ONU per proprio conto ha dichiarato che il numero di conflitti violenti in tutto il mondo è al livello più alto dalla fine della seconda guerra mondiale.

È divenuto sempre più probabile che le guerre interrotte si riaccendano entro un anno.

Le cause

Le guerre stanno diventando più comuni e difficili da risolvere pacificamente per una serie di ragioni.

Uno. La prima è di ordine dottrinario e riguarda la natura mutevole dei conflitti in ogni epoca.

Due. Le guerre del ventunesimo secolo tendono ad essere combattute tra stati e gruppi armati impegnati in cause diverse e con impiego ed accesso ad armi relativamente letali ed avanzate e ad altre forme di tecnologia sofisticata, nonché a finanziamenti provenienti da risorse naturali e da attività criminali di alto livello e agenti anche a livello internazionale.

Tre. Il conflitto si presenta di natura complessa e multipartitico dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che ha rimosso il principio organizzativo binario della competizione sovietico-occidentale il quale aveva modellato molte guerre precedenti.

Più recentemente, anche altri conflitti hanno perso il sistema binario per svolgersi sempre più ad un livello meno prevedibile ma sempre ad impatto internazionale.

Paesi tra cui la Federazione Russa, Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti vengono regolarmente coinvolti, indirettamente o direttamente, in ostilità armate all’estero, come si è visto ripetutamente in Medio Oriente e in varie parti del continente africano. Anche qui, considerando che più parti locali e internazionali sono coinvolte in un conflitto, più sarà difficile porvi fine.

Il ruolo dell’ONU

L’ONU, un tempo è stato il più rispettato ed efficace mediatore di riferimento nei conflitti. Oggi è stata messa costantemente da parte.

L’evidente calo d’influenza esercitato dalle Nazioni Unite è stato determinato dalla più acuta competizione geopolitica, che ha diviso verticalmente le relazioni tra gli stati più potenti.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non è da meno: esso è particolarmente colpito da queste forze negative verso i processi di pace e di pacificazione. Piuttosto, si è bloccato, afflitto dalle crescenti rivalità internazionali influenti tra Stati Uniti, Russia e Cina e da un approccio sempre più transazionale quanto in buona parte inconcludente alla politica internazionale.

La situazione di stallo al Consiglio di Sicurezza significa che l’ONU non può offrire né soluzioni né censura per i crimini di guerra o le aggressioni.

Gli enti protagonisti e deputati al mantenimento della pace e della transizione incaricate dal Consiglio di Sicurezza stanno diventando sempre più rari e talvolta hanno pure vita breve: gli inviati delle Nazioni Unite, le forze di pace e altri funzionari civili mancano sempre più di influenza e credibilità nei confronti delle parti in conflitto. Lo scorso giugno, ad esempio, il Mali ha chiesto il ritiro di una presenza decennale di mantenimento della pace delle Nazioni Unite a causa delle tensioni tra il governo e la missione, compreso un marcato disaccordo sul loro ruolo e mandato operativo.

Secondo quanto viene riferito dagli organi di stampa locali, i signori della guerra rivali del Sudan si sono rifiutati persino di parlare con l'inviato speciale delle Nazioni Unite, Volker Perthes, prima che questi, constatata la propria inutilità, si dimettesse a settembre scorso.

Il capo del peacekeeping delle Nazioni Unite, Jean-Pierre Lacroix, ha affermato che le divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza fanno sì che le missioni delle Nazioni Unite non siano più in grado di raggiungere “l’obiettivo finale del peacekeeping” – ovvero ideare e realizzare soluzioni politiche salde, concrete e durevoli – e debbano invece accontentarsi - come sta accadendo in Medioriente - di “obiettivi intermedi” come ad esempio il mantenimento del “cessate il fuoco”.

Sempre più sopraffatti da una serie di crisi globali e da nuove priorità politiche, tra cui l’aggressione russa in Europa e una Cina sempre più assertiva, molti politici di alto livello negli Stati Uniti e in Europa vedono un valore limitato nell’intervento militare o nell’investimento di un significativo capitale politico in conflitti estesi. che considerano di scarsa importanza strategica.

L’attenzione si è invece spostata sulla gestione delle conseguenze dei conflitti – ondate di rifugiati e traffico transfrontaliero di droga e armi, in particolare – piuttosto che sulle loro cause.

Abbassando la sbarra

Di fronte a questa serie di sfide, la percezione di ciò che è possibile fare tra gli esponenti delle Nazioni Unite e i paesi occidentali che un tempo sostenevano il processo di pace – principalmente gli Stati membri dell’UE guidati da Francia e Germania, così come il Regno Unito e gli Stati Uniti – è oggi mutevole.

Negli ambienti più rappresentativi delle Nazioni Unite che per decenni ha lavorato sui processi di pace internazionali viene osservato che i numerosi ostacoli posti alla mediazione rende molto difficile la composizione pacifica dei conflitti moderni.

In pratica, oggi l’intervento delle Nazioni Unite serve spesso, questo sì, a mitigare i conflitti o, nella migliore delle ipotesi, ad avviare un fragile processo politico che pochi si aspettano che funzioni, ma al quale non corrispondono alternative più valide e riconosciute dalle parti. Come sta, ad esempio, accadendo a Gaza.

In privato, molti mediatori veterani e rappresentanti politici di alto livello hanno sostenuto che le ambizioni di molti sforzi legati al processo della mediazione internazionale sono tacitamente limitati alla conclusione di fragili accordi, per lo più bilaterali, volti a raggiungere una distensione tra le parti se non altro a breve termine, oppure obiettivi limitati, come ad esempio è stato l’accordo del 2022 che ha permesso al grano ucraino di passare incolume attraverso il mar Nero. Laddove però la mediazione turca ha assunto un’importanza altrettanto decisiva.

Emarginati durante i negoziati e privi di esaustivi accordi di pace unitamente a transizioni politiche tramite le quali possano svolgere un ruolo significativo, i mediatori delle Nazioni Unite hanno perso gran parte della loro ragion d'essere nell’attuale specifico momento politico internazionale.

La maggior parte degli altri mezzi necessari per la costruzione della pace – tra cui il dialogo politico a carattere inclusivo, l’attivazione delle responsabilità di ognuno dei protagonisti, la giustizia nelle fasi di transizione e la riforma tecnica e formale dell’ampio settore riguardante la sicurezza – non possono avere alcun successo senza la messa in opera di chiari e potenti dinamiche politiche internazionali che li sostengano e li ancorino alla volontà delle azioni collettive più virtuose.

Altrove, le aspirazioni di molte diplomazie occidentali si sono silenziosamente indirizzate verso il perseguimento o il sostegno al contenimento o alla riduzione della tensione vigente, evitando la ricerca di una risoluzione pacifica e sostenibile dei conflitti.

Gli sforzi degli Stati Uniti per descrivere gli Accordi di Abramo – una dichiarazione congiunta e firmata tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, raggiunta il 13 settembre 2020 a Washington, che cercavano di normalizzare le relazioni arabe con Israele – configurandolo finalmente come un virtuoso processo di pace, evidenziano concretamente questo radicale cambiamento.

Anche per Gaza gli accordi in pratica non riescono ad affrontare le cause del conflitto israelo-palestinese, come è diventato disastrosamente chiaro nella guerra tra Israele e Hamas fino ad oggi.

Le aspirazioni internazionali per soluzioni a lungo termine sono particolarmente basse in Medio Oriente, Nord Africa e in alcuni conflitti come è accaduto nello Yemen.

La violenza non può essere contenuta

Fino a poco tempo fa, alcuni esponenti statali internazionali sembravano ritenere che la fine dei combattimenti in Medioriente fosse un obiettivo sufficientemente buono da raggiungere.

Ma i brutali attacchi del 7 ottobre di Hamas in Israele una settimana dopo i suoi commenti e la continua ed intensa risposta militare di Israele a Gaza, così come l’aumento della violenza in tutta la Siria, mostrano ancora una volta i limiti del contenimento del processo bellico.

In altri termini, il contenimento diplomatico non risolve da solo i conflitti e tanto meno quest’ultimo, ma richiede una costante gestione attiva.

Ciò significa sforzi proattivi per affrontare le critiche, sedare gli atti di violenza, portare avanti i negoziati e attivarsi per affrontare la crescente instabilità oppure eventi imprevisti che come si sa in Medioriente non mancano mai.

Sebbene la riduzione del livello di violenza sia un obiettivo sensato nella fase iniziale, una volta che il conflitto si è allentato, l’attenzione troppo spesso si sposta altrove.

Il livello di attenzione è uno dei cardini del processo

È facile, quindi, non cogliere i segnali di allarme che indicano come i combattimenti stanno per ricominciare. Questo costituisce un problema particolare quando i vari protagonisti o regimi armati che siano mantengono il controllo delle operazioni dopo il fallimento dei processi di pace o durante le transizioni politiche di scarso e parziale successo. Senza carichi accusatori di responsabilità per i loro misfatti presenti e passati, questi gruppi si sentono liberi di ripetere le violenze secondo la loro esclusiva ed illimitata discrezionalità.

Sia gli attori regionali che i diplomatici e gli analisti occidentali sostengono da tempo che lo status quo a Gaza e in Cisgiordania è insostenibile. Ma l’attenzione internazionale si è concentrata altrove.

Gli sforzi di normalizzazione regionale guidati dall’amministrazione Trump hanno costruito legami tra Israele e gli ex avversari arabi, tra cui il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti.

Gli Accordi di Abramo sono stati sostenuti dall’amministrazione Biden, che ha perseguito energicamente un accordo israelo-saudita.

Ma questi sforzi non sono riusciti ad affrontare le ormai numerose cause del conflitto israelo-palestinese.

Nonostante ciò, anche se la guerra tra Israele e Hamas si intensificava, i funzionari statunitensi, compreso il Segretario di Stato Antony Blinken , hanno dichiarato che Washington sperava ancora di continuare i collaterali negoziati di normalizzazione israelo-saudita.

Che fare ?

Una nuova e più accurata inquadratura che distingua tra le fasi di gestione del conflitto, risoluzione del conflitto e costruzione della pace, così come un resoconto più onesto delle prospettive di progresso nella fase successiva, porterebbero a un resoconto comune più onesto di ciò che è possibile e pratico o moralmente accettabile.

In particolare, questo nuovo approccio al linguaggio reciproco aiuterebbe a stabilire aspettative realistiche su ciò che può essere ottenuto a breve, medio e lungo termine. Ciò eviterebbe anche la fin troppo familiare fretta di dichiarare il successo, anziché riservarsi i contenuti reali, che fa naufragare la continuazione di molti processi di pace.

La cosa più importante è che è necessario un nuovo approccio alla mediazione. I processi e le pratiche formali di costruzione della pace sono stati ampliati e professionalizzati durante il periodo successivo alla Guerra Fredda e presuppongono o richiedono dinamiche – tra cui la cooperazione geopolitica, accordi di pace e transizioni politiche di successo – che non esistono più.

Il mondo di oggi è definito pressoché esclusivamente dalla competizione geopolitica e richiede un approccio del tutto diverso. Nel rispondere a queste sfide, i mediatori devono diventare più creativi e collaborativi. Devono diventare difensori della propria causa, promuovendo pubblicamente la causa della pace, e devono assicurarsi il sostegno diplomatico e impegnarsi con un’ampia varietà di gruppi, compresi nella società civile.

In particolare, i mediatori devono lavorare a stretto contatto con i costruttori di pace locali e conferire loro maggiore potere discrezionale, assorbendo le conoscenze locali e coinvolgendo gli attori chiave che stanno pur sempre alla base dei processi di pace, che non devono più cercare di perpetuare solamente le dinamiche di potere dello status quo.

I mediatori devono anche lavorare a stretto contatto con – e a volte fornire sostegno – ai blocchi regionali, svolgere un ruolo maggiore nel sostenere i negoziati bilaterali e dare alle parti in conflitto il potere di creare una pace sostenibile una volta che le armi siano state messe a tacere.

Nel frattempo, coloro che cercano di realizzare la pace dovranno coinvolgere, se serve, attori non tradizionali: le medie potenze, le organizzazioni umanitarie e gli attori del settore privato.

Queste partnership dovrebbero sfruttare anche il potenziale offerto dall’agenda ambientale, sociale e di governance aziendale per ritagliare un ruolo per il settore privato nel sostenere la pace, creare nuovi modelli di cooperazione geopolitica e utilizzare gli aiuti per sostenere la pace piuttosto che fungere da suo sostituto.

Queste sono grandi domande. Ma sono anche i requisiti fondamentali per costruire una pace sostenibile nel lungo periodo, fermare la proliferazione dei conflitti e puntare a qualcosa di più della facile repressione temporanea della violenza.

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