Dumping fiscale e tax ruling: un problema europeo

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  Redazione
  01 luglio 2020
  6 minuti, 37 secondi

A cura di Leonardo Cherici

Il Covid-19 ha avuto un impatto molto profondo sulla politica economica dell’Unione Europea. La BCE ha introdotto un programma speciale[1] volto a sostenere quegli Stati che di solito faticano a finanziarsi sul mercato, svolgendo un ruolo chiave nel contrastare la crisi economica che investirà tutto il mondo. Fin da marzo si è parlato della possibilità di inventare dei nuovi strumenti, per far fronte a quella che sarà forse la peggior crisi economica dal dopoguerra ad oggi. Tutto questo è ancora più importante se lo inseriamo in una prospettiva storica più ampia, includendo anche il decennio passato nel quale si è mostrata più volte la necessità di rivedere gli strumenti europei, pensati per un periodo diverso e poco adatti per rispondere alle sfide attuali.

In questi mesi si è riaffacciato nel dibattito pubblico un argomento che, periodicamente, ritorna a scandalizzare: la mancata armonizzazione dei sistemi fiscali. A scatenare la polemica potrebbe essere stata la richiesta, da parte di FCA, di un prestito di 6 miliardi garantito dallo Stato; è stata anche sollevata la questione delle sedi legale e fiscale dell’azienda (rispettivamente Amsterdam e Londra). Alla base c’è una critica anche corretta: le aziende si spostano in Paesi in cui il regime di tassazione è loro più favorevole. Questo può innescare un fenomeno che assume il nome di fiscal dumping. Le conseguenze più dirette sono una concorrenza fra gli Stati in materia di fiscalità: si abbassano le aliquote per garantirsi più investimenti sul proprio territorio. Le aziende potrebbero essere incentivate a spostare la propria sede, causando una perdita di gettito per gli Stati che subiscono questo fenomeno. La domanda che sorge subito spontanea è: si può fare? Ovviamente, la risposta è sì. Mentre la politica monetaria è di competenza della BCE, quindi un’istituzione indipendente, le politiche fiscali rimangono in carico agli Stati membri. Nel Trattato di Lisbona[2] si parla generalmente di “armonizzazione” e “convergenza” dei sistemi fiscali, senza però entrare nel merito della questione. Il fatto che sia previsto dai Trattati non deve però trattenerci dall’affrontare una questione fondamentale per il futuro europeo.

A Bruxelles il problema è noto da tempo, ma in un’Unione Europea ancora fortemente a carattere intergovernativo lo spazio di manovra è assai ridotto. Ci sono alcune materie di cui gli Stati sono fortemente gelosi, fra cui la politica fiscale. Una nota pubblicata[3] dall’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica ci aiuta a fare chiarezza. Su alcuni aspetti un’armonizzazione fiscale c’è stata, ma le divergenze rimangono: ad esempio, sui redditi delle società troviamo delle aliquote molto diverse fra loro. L’analisi è poi complicata dal fatto che l’aliquota non è il solo strumento per misurare una politica fiscale aggressiva; c’è tutto il sistema di deduzioni e detrazioni che può abbassare di molto la pressione fiscale. Un caso scuola è in questo caso Malta, la piccola isola nel Mediterraneo che concede alle aziende la residenza fiscale senza che ci sia una vera attività economica nel Paese.

Una scuola di pensiero sostiene che la concorrenza in materia di tassazione sia una parte importante per lo sviluppo di uno Stato. L’idea alla base è molto semplice: se adotto una sana gestione della finanza pubblica, avrò più margine di manovra per abbassare le aliquote e quindi aggiudicarmi la presenza di più imprese. Come ben evidenzia l’Osservatorio, questo potrebbe essere vero se i Paesi avessero più o meno la stessa dimensione e stessi costi amministrativi. Di sicuro non è il caso dell’Unione Europea dove piccoli Paesi come Malta o Lussemburgo possono compensare la perdita di gettito dovuta dall’abbassamento della tassazione grazie a tutte la società che poi si spostano dal resto del continente. In effetti un altro modo per verificare se un Paese è fiscalmente aggressivo sono gli investimenti diretti esteri. Questi sono sicuramente una parte importante per lo sviluppo economico, però all’interno dell’Unione notiamo alcune incongruenze: Lussemburgo, Cipro, Olanda e altri hanno altissimi flussi di investimenti esteri e questi sono difficilmente spiegabili se guardiamo solamente al tessuto produttivo ed economico di questi Paesi.

C’è un’ulteriore pratica che distorce profondamente il mercato ed è aumentata all’interno dell’Unione Europea negli ultimi anni: il tax ruling o Advance pricing agreement. Consiste in un accordo fra uno Stato e un’impresa multinazionale sulla quantità di tasse che quest’ultima dovrà versare, una specie di regime fiscale applicato ad hoc per una società. Questi accordi possono essere sia unilaterali (dove ci si accorda solamente fra multinazionale e Stato) oppure bilaterali/multilaterali (dove rientrano anche altre amministrazioni fiscali). Un articolo del Sole24Ore[4] del 2018 analizza bene un problema che è presente in Europa da diversi anni. In realtà questa formula era stata pensata per dare certezza alle imprese che operano su più territori, ma si è trasformata in un’arma a doppio taglio. Hanno fatto scandalo, infatti, tutta una serie di accordi che alcuni Paesi europei hanno stipulato con aziende come Amazon, Facebook, Apple ecc., il più famoso dei quali è quello fra Apple e il governo irlandese del 2014 con cui l’azienda versava nelle casse lo 0,005% degli utili registrati in Irlanda.

La Commissione è ben consapevole del problema rappresentato dalle politiche fiscali aggressive; come ricordavamo però prima, le azioni che può intraprendere sono limitate. Per i Paesi all’interno dell’UE (Olanda, Cipro, Malta, Ungheria, Lussemburgo e Irlanda) sono state fatte delle raccomandazioni che hanno sortito ben pochi effetti. La situazione cambia se i Paesi fiscalmente aggressivi sono paesi terzi. Fin dal 2017, la Commissione si è impegnata ad individuare quelle che vengono definite “giurisdizioni non cooperative”: si parla di una sorta di black list il cui fine è combattere l’elusione, l’evasione, ma anche il riciclaggio internazionale. Ad esempio, in questi casi ci sono delle misure che i Paesi europei possono adottare per proteggersi[5] e che incentivano il cambiamento in queste giurisdizioni. In effetti qualche miglioramento c’è stato: molti Paesi che erano stati inseriti nella black list hanno modificato il loro comportamento, abbandonando le pratiche adottate in precedenza. Tutto questo, però, non è possibile con gli Stati membri all’interno dell’Unione.

In una recente intervista al Sole24Ore, il Commissario agli Affari Economici Paolo Gentiloni ha affrontato il problema, evidenziando l’insostenibilità di queste pratiche fiscali. Ha menzionato l’articolo 116 del TFUE come possibile rimedio. Questo sostiene che, se ci sono delle disparità amministrative tali da falsare le condizioni di concorrenza del mercato interno e gli Stati in questione non giungono ad un accordo con la Commissione, Parlamento e Consiglio possono stabilire direttive di correzione secondo la procedura legislativa ordinaria. Anche qui la soluzione non è così semplice come sembra. Passare attraverso il Consiglio vuol dire passare attraverso i governi nazionali; gli stessi che, su molte materie, non vogliono creare precedenti che permettano un’intromissione di Bruxelles in futuro. Ciò non toglie il fatto che la questione debba essere affrontata. Secondo un paper[6] di un gruppo di economisti, le politiche di tassazione aggressiva costano tantissimo ai Paesi che le subiscono. L’Italia, ad esempio, avrebbe perso più di venti miliardi solo nel 2015-2016. Contando che una nostra manovra finanziaria vale circa trenta miliardi, possiamo ben comprendere l’entità del problema. Ancora una volta, la battaglia è soprattutto politica e diplomatica: è però una battaglia sacrosanta, specie per un Paese che fatica molto a finanziarsi sul mercato e la cui gestione delle finanze pubbliche non eccelle in efficienza. Dall’altro lato non dobbiamo fare l’errore di pensare di risolvere i nostri problemi solo contrastando le politiche fiscali aggressive degli altri Paesi, senza migliorare il nostro sistema tributario e legislativo che, spesso, disincentiva gli investimenti in Italia.

[1] https://www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2020/html/ecb.pr200318_1~3949d6f266.en.html

[2] https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/file/repository/relazioni/libreria/novita/XVII/Trattato_sull_unione_europea.pdf

[3] https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-Nota%20tassazione%20europea.pdf

[4] https://www.ilsole24ore.com/art/sempre-piu-tax-ruling-cosi-stati-ue-si-fanno-concorrenza-fiscale-AET3DNHE

[5]https://www.consilium.europa.eu/it/policies/eu-list-of-non-cooperative-jurisdictions/

[6] https://missingprofits.world/wp-content/uploads/2019/09/TWZUpdate.pdf

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