IL RITORNO DEI MILITARI ALLA GUIDA DEL BURKINA FASO

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  Francesco Maria Lorenzini
  27 febbraio 2023
  6 minuti, 33 secondi

È durato otto anni l’esperimento democratico in Burkina Faso: tra gennaio e settembre 2022 vi sono stati non uno, ma ben due colpi di Stato. La giovane democrazia saheliana non ha retto di fronte alla grave crisi securitaria che ha investito il paese all’indomani della rivoluzione del 2014. I movimenti salafiti-jihadisti attivi nel Sahel – riuniti nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim) – hanno approfittato fin da subito della debolezza dei governi che si sono succeduti dopo la caduta del dittatore Blaise Campaore. Le regioni di confine del Burkina Faso hanno infatti rappresentato per gli insorti nei vicini Mali e Niger un vero e proprio safe haven in cui rifugiarsi per sfuggire alla caccia serrata delle forze francesi: a poco è servita l’istallazione di una missione militare ad hoc in Burkina Faso da parte della Francia - l’operazione Sabre - per sostenere la transizione democratica e lottare contro i terroristi. Con il passare del tempo, la porzione del territorio sotto il controllo delle autorità legittime si è ridotto sempre di più, fino ad arrivare a coprire solo i dintorni delle città principali. Gli effetti di otto anni di guerriglia islamista sono stati pesanti per la popolazione: migliaia di morti, più di due milioni tra rifugiati e Internally Displaced Persons (IDPs) e una vera e propria crisi umanitaria dalle dimensioni sempre più allarmanti.

L’inettitudine con cui i governi civili hanno affrontato la Jihad ha provocato la rabbia crescente dei reparti militari - soprattutto tra gli ufficiali più giovani – consapevoli di essere poco più che carne da macello da mandare nelle aree contese, data l’assenza di risorse adeguate. Nonostante il sostegno finanziario dell’Unione Europea, l’esercito burkinabé presenta ancora oggi gravi lacune in materia di armamenti e formazione militare che ne hanno pregiudicato l’efficienza sul campo. Il malcontento degli ufficiali è sfociato in un primo colpo di Stato agli inizi del 2022 e logiche di potere interne all’esercito hanno poi portato ad un secondo golpe nel giro nemmeno di un anno. La scelta dell’attuale giunta militare di ricorrere ai “Volontari per la Difesa della Patria” – 50.000 paesani di campagna male armati e senza addestramento militare – sottolinea ancora una volta le carenze delle forze armate. Questa scelta difficilmente apporterà un valore aggiunto nella lotta alla Jihad, rischiando invece solo di destabilizzare ancora di più un contesto già compromesso: l’ultima cosa di cui ha bisogno un paese sull’orlo dell’anarchia è la creazione di bande para-militari libere di girare per la savana senza una qualche forma di controllo effettivo. Insomma, lo spettro dell’ennesimo failed State africano si aggira sempre più minaccioso tra gli stradoni polverosi di Ouagadougou.

Il Burkina Faso conosce bene le logiche del governo militare. Il vecchio autocrate Blaise Compaoré - che ha governato il paese per ben 27 anni – era un capitano dell’esercito quando prese il potere con il controverso colpo di Stato del 1987. In quasi tre decenni sotto la sua guida, il paese ha fatto progressi piuttosto magri in termini di sviluppo economico. Vicino a Gheddafi, il regime di Compaoré si è basato a lungo sui petrodollari del rais e non a caso è caduto tre anni dopo lo scoppio della guerra civile libica. Il vecchio dittatore è stato cacciato nel 2014 dopo un’insurrezione popolare spontanea e per lo più pacifica: di fronte al tentativo di Compaoré di modificare la Costituzione e rinnovare ancora il suo mandato, la gente si è riversata per le strade chiedendo un cambio di regime. Per una volta i militari non sono intervenuti, lasciando spazio ai civili.

Soprattutto, vestiva il grado di capitano il leggendario Thomas Sankara, Presidente del Burkina Faso dal 1983 fino al suo assassinio per mano proprio del vecchio compagno d’armi Compaoré. Soprannominato il “Che Guevara d’Africa” per la sua adesione alle idee marxiste e per la ferrea disciplina con cui le praticava nella vita privata, Sankara resta ad oggi una figura chiave del panafricanismo e della lotta al neocolonialismo. Il suo discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite sul debito dei paesi africani resta ancora oggi un oggetto di culto per chiunque abbia a cuore il problema delle diseguaglianze tra Nord e Sud del mondo. Durante i quattro anni del suo governo, Sankara ha adottato misure all’epoca fortemente all’avanguardia, come l’istruzione gratuita universale e le politiche attive in favore dell’empowerment femminile e della lotta contro l’AIDS.

Anche questa volta il leader della giunta militare è un capitano. Si tratta del trentaquattrenne Ibrahim Traoré che ha destituito un suo superiore - il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba - dopo solo otto mesi dalla presa del potere da parte di quest’ultimo. Ed anche questa volta il nuovo regime militare basa la propria legittimità sulla retorica anti-neocolonialista. È notizia di poche settimane fa la richiesta rivolta alla Francia di chiudere l’operazione Sabre e ritirare le truppe in stanza in Burkina Faso. Una mossa che va incontro alle richieste della popolazione locale: da anni, il popolo burkinabé manifesta la propria insofferenza verso gli antichi colonizzatori. Quando Emmanuel Macron si recò in visita nel 2017, vi furono vere e proprie scene di guerriglia urbana di fronte all’università di Ouagadougou, dove il Presidente francese aveva in programma un discorso. Da allora, la retorica contro Parigi si è solo inasprita: le manifestazioni di protesta di fronte all’ambasciata di Francia avvengono sempre con maggiore frequenza.

Le similitudini tra i vecchi ed i nuovi leader militari del Burkina Faso sembrano però fermarsi qui. Se Sankara si muoveva abbastanza liberamente nel tardo periodo della guerra fredda – giocando più nel campo dei paesi non allineati che in quello sovietico – questa volta pare vi sia un regista esterno molto interessato a dirigere l’operato del nuovo governo militare a Ouagadougou. Una dei primi endorsement in favore di Traoré è arrivato niente meno che da Yevgini Prigozhin, il fondatore del gruppo mercenario Wagner, molto vicino al Ministero della Difesa russo. Il presidente del Ghana – paese confinante con il Burkina Faso – ha inoltre pubblicamente denunciato la presenza delle milizie para-militari russe oltre il confine, anche se la giunta burkinabé ha per il momento smentito. Il governo di Ouagadougou ha infine proposto al Mali – paese in cui oramai da mesi Wagner opera alla luce del sole – di costituire una federazione tra i due Stati.

Se è vero che tre indizi formano una prova, allora il Burkina Faso sembra rientrare a pieno titolo nella strategia di Vladimir Putin nel Sahel: costruire un fronte di governi antifrancesi (e quindi antioccidentali) che guardino alla Federazione russa come una forza amica e liberatrice. Con il rischio però che il giogo del Cremlino si dimostri per il popolo Burkinabé ben più stretto di quello dell’Eliseo.

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L'Autore

Francesco Maria Lorenzini

Project manager e consulente nell'ambito della cooperazione internazionale, ha lavorato alla realizzazione di progetti di sviluppo in Burkina Faso, Mali, Senegal e Tunisia. Appassionato di politica internazionale, segue con interesse i rivolgimenti politici ed economici in corso in Africa e nell'area MENA.

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