Il terrorismo nei Balcani: un quadro della situazione

  Articoli (Articles)
  Redazione
  01 aprile 2021
  6 minuti, 24 secondi

Il fenomeno del terrorismo di origine balcanica, seppur poco approfondito, merita certamente un focus particolare. Nell’ultima edizione della Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza, edita dal Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica, la regione balcanica viene descritta come “epicentro continentale delle attività di proselitismo jihadista e di supporto logistico a estremisti in transito[1]. Dall’analisi dei servizi segreti italiani emerge in modo evidente una particolare attenzione per la situazione nei Balcani, considerati tra l’altro “un potenziale incubatore della minaccia terroristica in direzione dello Spazio Schengen”.

L’attentato di Vienna del 2 novembre 2020, oltre ad aver rammentato la perenne insidia del radicalismo di matrice islamica nel Vecchio Continente, ha acceso i riflettori sul problema dell’ideologia jihadista nel teatro balcanico. L’autore dell’attacco, il ventenne Kujtim Fejzulai, di nazionalità austriaca e di origine macedone, aveva infatti contatti diretti con individui radicalizzati di origine balcanica presenti nel territorio europeo, così come con esponenti della galassia jihadista attivi nella regione al di là dell’Adriatico.

Alla luce di tali informazioni, si impone un quesito: come si configura e inquadra il pericolo del terrorismo nei Balcani?

In primo luogo, occorre sottolineare che la diffusione dell’estremismo islamico nella regione ha radici storiche e socioculturali. Le guerre nella ex Jugoslavia - e le loro ripercussioni - hanno giocato un ruolo indubbiamente significativo nella divulgazione dell’ideologia jihadista in loco. Nel corso del conflitto civile in Bosnia (1992-95), numerosi combattenti islamici sono giunti nel Paese balcanico con lo scopo di supportare la popolazione bosniaca-musulmana contro l’offensiva serbo-croata[2]. I guerriglieri, noti come Bosnian mujahideen, provenivano anzitutto dal Nord Africa, dal Caucaso e dal Medioriente e tra questi molti hanno avuto un trascorso nel contesto della guerriglia afghana anti-sovietica. L’intelligence statunitense ha ampiamente documentato i legami diretti tra taluni combattenti ed al-Qaeda che, per conto del suo leader Osama Bin Laden, ha fornito alla resistenza musulmana un contributo importante in termini di risorse. Due dei dirottatori dell’11 settembre, i sauditi Khalid al-Mihdhar e Nawaf al-Hazmi [3], hanno combattuto proprio in Bosnia e lo stesso ha fatto Nasser bin Ali al-Ansi, figura ai vertici di AQAP (al-Qaeda in the Arabian Peninsula) – ucciso da un drone americano nel 2015.

Negli anni successivi si è consolidata la rete di gruppi islamici radicali ed è aumentato l’attivismo degli ambienti di orientamento salafita. Il messaggio jihadista ha sfruttato il malcontento popolare, specialmente nelle zone rurali e poco sviluppate della Bosnia, Macedonia del Nord, Albania, Montenegro e Kosovo. Il diffuso disagio socio-economico di alcune aree della regione ha senz’altro favorito le attività di proselitismo e di reclutamento, in particolare tra i giovani.

La permeabilità dell’area balcanica al messaggio jihadista è stata confermata nei primi anni del conflitto civile siriano e con l’avvento dello Stato Islamico. Difatti, dal 2012 si è assistito ad un flusso senza precedenti di foreign fighters dai Balcani occidentali verso il Medioriente. Secondo le stime, sono circa 1070 i combattenti di origine balcanica giunti in Siria e Iraq per unirsi alla causa dell’ISIS (e una minoranza a quella del gruppo qaedista di Jabat al-Nusra). I Paesi più colpiti dal fenomeno dei foreign fighters sono la Bosnia e il Kosovo, da dove sono partiti quasi due terzi dei militanti (e familiari) dell’intera regione balcanica occidentale. I due Stati, in relazione alla loro popolazione, hanno registrato tra i tassi più elevati in Europa di mobilitazione in organizzazioni terroristiche.

Al contempo Daesh, in più occasioni, ha mostrato una certa attenzione verso l’area balcanica con il chiaro scopo di ramificarsi in tale territorio. Nel maggio del 2015, l’ISIS ha diffuso un video, dal titolo “Honor is in Jihad – A message to the people of the Balkans”, in cui taluni miliziani provenienti dai Balcani esortavano a combattere contro “i miscredenti locali”. Nel luglio 2016, Daesh ha rilasciato un nuovo filmato, intitolato “Way of Caliphate”, che sollecitava l’istituzione di un Califfato nei Balcani e incoraggiava i jihadisti della regione a perpetrare attacchi per rovesciare la democrazia e imporre la sharia. Per di più, come ulteriore dimostrazione dell’interesse per la regione balcanica, il magazine online di propaganda “Rumyah” (“Roma”), pubblicato per la prima nel settembre 2016, è stato tradotto anche in lingua bosniaca.

A seguito della sconfitta territoriale di Daesh, una nuova fonte di preoccupazione è divenuta il rientro in patria dei foreign fighters. Alla fine del 2019 erano 485 i miliziani jihadisti rientrati nei rispettivi Paesi della regione balcanica, ove si è registrata, e si registra tuttora, la più alta concentrazione di returnees in Europa. Un rischio fondato è che gli ex combattenti non reintegrati possano tornare ad essere operativi, contribuendo alla diffusione del radicalismo religioso nei propri Paesi. Ciò, sommato alle attività dei gruppi locali e dei predicatori estremisti, determina uno scenario allarmante in termini di sicurezza. Inoltre, un’altra problematica emersa concerne la mancanza di risorse, nonché di strumenti, nella gestione del rientro dei foreign fighters da parte dei governi della regione. Quanto si è riscontrato è una certa sproporzione tra il numero dei militanti di ritorno e i mezzi a disposizione per affrontare il fenomeno. Basti pensare che il Kosovo, alla fine del 2019, aveva un rapporto di 134 returnees per milione di abitanti – mentre Stati quali la Francia, il Regno Unito o la Germania, che hanno registrato un’ampia mobilitazione di combattenti, avevano un rapporto dai 4 ai 6 returnees per milione di abitanti. Mentre da una parte vi sono stati significativi sforzi in termini di arresti e operazioni di anti-terrorismo nella regione, dall’altra, la mancanza di adeguati strumenti ha fino ad ora ostacolato l’implementazione dei programmi di riabilitazione e reintegrazione degli estremisti incarcerati.

Ai sopra citati elementi, si aggiunge l’accertata esistenza di legami tra i movimenti jihadisti e i gruppi criminali locali, in quello che è un mix esplosivo tra radicalismo islamico e criminalità organizzata[4]. Quest’ultima, infatti, è nota per aver fornito armi e documenti falsi a potenziali attentatori, rendendo la regione balcanica un bacino di approvvigionamento e trasferimento di risorse. Non a caso, infatti, è stato provato che numerose delle armi utilizzate negli attacchi in Francia (Charlie Hebdo, supermercato Kosher e la notte degli attacchi multipli) provengano proprio dai Balcani, in particolare dalla Serbia.

Appare evidente, quindi, che il fenomeno dell’estremismo islamico nei Balcani vada strettamente monitorato in quanto costituisce un pericolo su due livelli: regionale e continentale. Se l’attivismo dei circuiti jihadisti rappresenta chiaramente una minaccia per il territorio balcanico, allo stesso tempo, tali network sono responsabili delle attività di propaganda per i soggetti che desiderano spostarsi e operare in Europa; figurandosi, altresì, come punti di appoggio e logistici per gli stessi. In più, un ruolo di rilievo è giocato dagli imam radicali di origine balcanica che si muovono tra i Paesi europei (ivi compresa l’Italia) e sono in contatto con soggetti estremisti attivi nei Paesi dell’Europa occidentale e dei Balcani[5].

In tale scenario, l’Italia è tra le prime nazioni interessate agli eventi della penisola oltre-adriatico, sia per la vicinanza geografica sia per la presenza nel proprio territorio di figure radicalizzate di origine balcanica – alcune di queste già note e monitorate dall’antiterrorismo nazionale.

Copyright © 2021 - Mondo Internazionale APS - Tutti i diritti riservati


A cura di Vincenzo Battaglia

[1] https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/wp-content/uploads/2021/02/RELAZIONE-ANNUALE-2020.pdf, p.67

[2] Non c’è un numero ufficiale di guerriglieri che si sono recati in Bosnia. Dalle stime, il numero varia dai 500 ai 6.000.

[3] Entrambi a bordo dell’American Airlines Flight 77, schiantatosi contro il Pentagono.

[4] https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/wp-content/uploads/2021/02/RELAZIONE-ANNUALE-2020.pdf, p.67.

[5] https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/wp-content/uploads/2021/02/RELAZIONE-ANNUALE-2020.pdf, p.67.

police-5226674_1280.jpg 

Condividi il post

L'Autore

Redazione

Categorie

Tag

balcani terrorismo internazionale jihadismo