La Bielorussia di Lukašenko

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  Chiara Calabria
  13 settembre 2021
  4 minuti

Il 2 settembre 2021 la Polonia di Andrzej Duda ha dichiarato lo stato di emergenza nelle regioni di Podlaskie e di Lubelskie. La Lituania ha iniziato a ergere una barriera al confine bielorusso, e la Polonia ha deciso di seguire la stessa direzione. Questi eventi sono una diretta conseguenza delle mosse di Lukašenko nella guerra ibrida dei flussi migratori.

Il dittatore

Lukašenko è al suo sesto mandato presidenziale. Le ultime elezioni si sono tenute nell’agosto del 2020, quando Lukašenko (al potere dal 1994) ottenne circa l’80% dei voti contro un 10% dell’oppositrice Svetlana Tichanovskaja. Né la popolazione né gli spettatori internazionali hanno creduto a queste elezioni, e mentre a Minsk iniziavano le proteste pacifiche per la farsa elettorale, Bruxelles ha dichiarato che allo scadere del mandato di Lukašenko non lo avrebbero più considerato il legittimo presidente della Bielorussia. Nonostante le sanzioni dell’UE, Lukašenko conta nella sua repressione 35 mila oppositori in detenzione, 258 prigionieri politici e 7 oppositori morti in detenzione. A questi dati aggiungiamo gli eventi che hanno scosso, certamente più delle manifestazioni, anche l’opinione pubblica internazionale.

I cieli di Minsk

Parallelamente alle vicende del Cremlino e di Aleksej Naval’nyj, anche in Bielorussia si è tentato di distruggere la credibilità di un oppositore perché fastidioso al regime. Lo scorso maggio, un volo di linea Ryanair – decollato da Atene e diretto a Vilnius – è stato costretto ad atterrare all’aeroporto di Minsk con il falso allarme di una bomba a bordo. All’atterraggio le forze dell’ordine bielorusse hanno prelevato e arrestato il giornalista bielorusso Roman Protasevič, il quale rischia la pena di morte sotto l’accusa di “terrorismo”. Protasevič aveva lasciato la Bielorussia due anni prima perché temeva per la propria sicurezza. Con questa mossa, Lukašenko ha reso chiaro ai dissidenti e al mondo internazionale che il regime può violare il diritto internazionale e raggiungere i suoi oppositori, ovunque essi siano.

Il Cremlino, dopo aver arrestato Naval’nyj, era andato alla ricerca di vecchie dichiarazioni del dissidente russo contro gli immigrati, nel tentativo di rassicurare l’opinione pubblica sulle azioni del governo. Con la medesima strategia, dopo aver pubblicato un video in cui Protasevič (con evidenti segni di percosse) si dichiarava pentito, il regime ha cercato di raccontare al mondo che il giornalista aveva combattuto nel discusso battaglione Azov nella guerra del Donbass, in Ucraina orientale. Nel disperato tentativo di Minsk di far sembrare Protasevič un neonazista di estrema destra, bisogna sottolineare che a sostegno di queste accuse non vi sono ovviamente prove.

Il caso di Protasevič è stato probabilmente tra quelli che hanno avuto più eco a livello internazionale, ma purtroppo non è stato l’unico. Gli oppositori Maria Kolesnikova e Maksim Znak sono stati condannati a 11 e 10 anni di carcere con le accuse di “cospirazione per prendere il potere“, “inviti ad azioni che minano la sicurezza nazionale“ e di “creazione di una formazione estremista“, anche in questo caso perché fastidiosi al regime. Krystsina Tsimanovskaja è invece la velocista bielorussa di Tokyo 2020 che, dopo aver diffuso un video in cui dichiarava che i suoi allenatori le avrebbero fatto cambiare gara all’ultimo momento (avrebbe dovuto gareggiare sui 4x400 invece dei 100 metri, la sua specialità), si è vista prelevare da funzionari bielorussi per essere portata all’ospedale psichiatrico di Novinki; un poliziotto giapponese è riuscito ad aiutarla prima che lasciasse il Giappone, mentre la Polonia le ha offerto protezione.

La guerra dei flussi migratori

Lukašenko ha aperto nuove rotte migratorie. È successo silenziosamente, e oggi Vilnius e Varsavia si ritrovano a ergere barriere sul confine bielorusso per allontanare i migranti. Il dittatore si è dapprima occupato di assicurare una politica di visti accomodante, per poi indirizzare le persone verso Lituania e Polonia. La strategia è dettata dalla volontà di Lukašenko di innescare una crisi politica e fare pressione ai Paesi confinanti che fanno parte dell’UE. In questa malata risposta bielorussa alle sanzioni di Bruxelles, il dittatore si è servito prima dei migranti iracheni e poi di quelli afghani. Il Paese più colpito da questo flusso migratorio è la Lituania (dove è scappata anche la leader dell’opposizione Svetalana Tichanovskaja), la quale ha costruito una barriera al confine per tentare di rallentare l’ondata di arrivi. Anche Varsavia sta cercando, malamente, di affrontare la situazione migratoria. Il premier polacco Mateusz Morawiecki ha tagliato acqua e cibo ai rifornimenti per i profughi di Usnarz Górny, dopo che questi si erano rivolti ai media. Dopo la Lituania, anche la Polonia ha iniziato a costruire un muro al confine bielorusso. Mentre l’opinione pubblica polacca condanna le azioni di Morawiecki, Lukašenko ha ottenuto esattamente ciò che voleva.

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