La posizione egiziana nel conflitto Israele-Hamas: tra crisi multiple e cautela strategica

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  Michele Magistretti
  29 febbraio 2024
  3 minuti, 34 secondi

Tra i paesi che subiscono le conseguenze dirette dell’attuale conflitto tra Israele e Hamas vi è l’Egitto. Il Cairo cerca di mantenere una posizione di equilibrio tra le parti, essendo tra i promotori del dialogo tra gli attori belligeranti. La dirigenza egiziana deve ponderare la propria azione tra le necessità di stabilità interna e la volontà di mantenere lo status quo regionale.

Vediamo quindi quali sono le direttrici di azione della potenza egiziana nei confronti di un conflitto che sta sconvolgendo la regione.

Il gigante dai piedi argilla: la strategia di moderazione egiziana

Dal principio dell’invasione israeliana della Striscia di Gaza, l’Egitto ha provato a mediare tra le parti sia per raggiungere un cessate il fuoco sia per agevolare il rilascio dei prigionieri israeliani. Per molti anni, il Cairo si è ritrovata suo malgrado marginalizzata nella politica regionale. Durante la faida politica tra i paesi del Golfo si è accodata a Riad e Abu Dhabi contro Doha, non potendo permettersi una grande autonomia strategica, dipendendo dagli aiuti finanziari delle due potenze della Penisola arabica. Ha poi dovuto fare i conti con l’insorgenza jihadista nella penisola del Sinai e da anni prosegue lo scontro diplomatico contro l’Etiopia a causa dell’intenzione di questa di costruire una diga che potrebbe compromettere il flusso idrico del fiume Nilo, causando notevoli danni all’economia egiziana. Inoltre, il paese nordafricano mantiene alta l’attenzione riguardo il recente conflitto civile che sta sconvolgendo il vicino Sudan, fenomeno che ha causato la fuga di centinaia di migliaia di profughi dal Paese.

Anche l’offensiva militare condotta dai ribelli Houthi nelle acque del Mar Rosso ai danni del traffico marittimo è una fonte di grande preoccupazione tra la dirigenza del Cairo. Parte dell’economia egiziana dipende dal traffico di merci che passa attraverso il Canale di Suez. Il blocco o la drastica riduzione di questi flussi finirebbe per sferrare un colpo letale a un’economia già in grande sofferenza.

Per queste ragioni, il presidente egiziano Al-Sisi ha preferito mantenere un approccio di cautela, pur mantenendo due posizioni ferme: la necessità di fermare il conflitto e il rifiuto categorico di accogliere milioni di profughi gazawi. Oltre al rilevante costo economico dell’accoglienza per le casse di uno stato in perenne dissesto finanziario, la dirigenza egiziana teme il contagio del radicalismo islamista tra una popolazione che ha subito la pulizia etnica e lo sradicamento dalla propria terra. L’economia egiziana è martoriata dall’inflazione, dalla svalutazione della propria moneta e dalla povertà endemica tra la popolazione. Dopo aver bandito dal proprio paese la Fratellanza Musulmana, di cui Hamas è la branca palestinese, la dirigenza militare egiziana teme il ritorno del radicalismo politico e quindi dell’instabilità interna. Infatti, nonostante abbia cercato di promuovere il corridoio di aiuti umanitari dal valico di Rafah, l’unico a non essere controllato da Israele, ha rafforzato la barriera meridionale con la Striscia e ha anche mobilitato alcune unità corazzate del proprio esercito al confine con l’enclave palestinese.

L’Egitto si è fatto anche promotore di diversi piani per il cessate il fuoco, sulla scia dell’azione diplomatica dell’Arabia Saudita, ma sia Hamas sia Israele continuano per motivi diversi a rifiutarli avanzando richieste irricevibili dalla parte opposta. Il Cairo a sua volta è reticente nel voler assumere un ruolo attivo riguardo l’amministrazione e gestione di una Gaza in un ipotetico scenario post conflitto. “Entrare a Gaza” significherebbe assumere un ruolo di primo piano nella spinosa questione israelo-palestinese, eventualità che rischierebbe di coinvolgere l’Egitto in uno scenario volatile e altamente precario, con possibili ripercussioni interne indigeste all’establishment. Inoltre, la dirigenza egiziana, memore dell’esperienza dell’alleato giordano, non vede di buon occhio una piena assunzione di responsabilità nella gestione dei profughi palestinesi. Ceteris paribus, se l’offensiva israeliana dovesse proseguire nella parte meridionale della Striscia, l’Egitto potrebbe vedersi costretto a cedere riguardo l’accoglienza di una parte dei profughi palestinesi. In questo caso, però, potrebbe usare come moneta di scambio la richiesta di copiosi aiuti finanziari. 

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