L'ordine mondiale nel XX secolo

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  Redazione
  29 dicembre 2022
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A cura del Dott. Pierpaolo Piras, membro del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS

Storicamente parlando, l'idea di un ordine mondiale all’insegna della cooperazione è relativamente nuova. E’ vero che i grandi imperi europei hanno creato un sistema globale pensato per essere stabile e organizzato, ma solo allo scopo di servire i loro interessi politico-economici e strategici.

Fu solo in occasione della Conferenza di pace di Parigi del 1919 che le nazioni iniziarono a organizzare intenzionalmente un ordine mondiale con ambizioni innovative in comune.

Gli operatori di pace di quell'epoca si sforzarono fino al 1925 di ricostruire un mondo totalmente distrutto dai crolli caotici di ben cinque imperi dinastici, tra quelli europei e asiatici.

Ma alla fine del 1933, questi fragili sforzi erano stati spazzati via dai lutti, danni e risentimenti del dopoguerra, dalle fantasie del destino etnico e dell'autosufficienza, dal disimpegno degli Stati Uniti e dalla disperazione della Grande Depressione americana.

Il risultato è stato un secondo conflitto globale, ancora più letale e distruttivo.

Il secondo dopoguerra

Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, il fenomeno storico della Guerra Fredda che emerse si occupò di un mondo profondamente cambiato e diviso.

Ha generato azioni politiche più concrete e istituzioni più funzionali, ma prevalentemente nel contesto di due principali alleanze: una facente capo agli Stati Uniti e l'altra all'Unione Sovietica.

Queste entità statuali si organizzarono per un confronto bellico globale e si sfidarono per l’ottenimento di primati in tutti i campi o comunque di vantaggi nel vasto mondo dei paesi poveri, non impegnati e non allineati.

Buona parte di questi proveniva dall’esperienza del colonialismo europeo.

Il disfacimento economico

Ma i sistemi economici di entrambe le alleanze, NATO e Patto di Varsavia, hanno iniziato a decadere progressivamente durante gli anni 1970-80, mentre successivamente il sistema della Guerra Fredda si è estinto tra il 1988 e il 1990.

I politici delle maggiori potenze internazionali hanno quindi deciso di creare una sorta di coalizione più propriamente globale, lavorando dal 1990 al 1994 per costruire nuove istituzioni e migliorando l’efficienza di quelle vecchie.

Nell’ambito di questa innovativa architettura politica, quei leader credevano che il ruolo di Washington nel sistema sarebbe stato centrale ma non totipotente: il potere degli Stati Uniti funzionava solo quando riusciva a combinare sinergicamente i punti di forza del paese – politici, finanziari e militari – in partnership affidabili e salde nelle relazioni con gli altri stati.

L’orgoglio russo

I leader occidentali erano consapevoli dell'orgoglio russo e si assicurarono che tutte le armi nucleari dell'ex Unione Sovietica risiedessero in territorio russo. Si adoperarono per rendere Mosca una parte politica presente e capace d’influire nei successivi accordi paneuropei sia sul controllo degli armamenti che nel controllo dei sistemi di sicurezza, nazionali e strategici.

Prova ne sia che, pur in mezzo alle acute turbolenze economiche che hanno contornato la fine del comunismo sovietico, gli Stati Uniti, l'Europa, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale hanno concesso alla sola Russia più di 50 miliardi di dollari di assistenza finanziaria tra il 1992 e il 1994.

Questi cospicui investimenti finanziari dei primi anni ‘90 hanno fatto molto per costruire un mondo migliore, e sono durati quasi per una generazione. Ma fin dall'inizio, hanno suscitato anche compiacimento reciproco.

A partire da quel decennio, gli alleati della NATO hanno ridotto il proprio patrimonio in armamenti di tutti i tipi e guardarono agli Stati Uniti confidando in una difesa militare, nazionale e strategica, che però dava l’impressione di essere meno necessaria rispetto al passato.

Gli Stati Uniti, da parte loro, stavano ritirando una grossa parte delle loro forze dall'Europa e solo con riluttanza guidarono una missione internazionale di pacificazione nei Balcani.

Quel modesto successo è stato seguito da anni di indifferenza, deriva e crescente arroganza, interrotti dallo shock avvincente e distraente dell'11 settembre.

Nel 2006, mentre gli sforzi militari statunitensi si dibattevano in Iraq, il sentimento si era rivoltato contro gli Stati Uniti, e gli americani erano preoccupati sia per certi stranieri residenti in patria che per il sentimento di disillusione sulla propria capacità di essere i benefattori del mondo, in senso politico e materiale.

La sensazione presso i protagonisti della politica internazionale era che l'ordine mondiale e le sue istituzioni maggiormente operative fossero guidati sempre più da una sorta di pilota automatico perennemente inserito.

Ben presto, i gesti e le dichiarazioni più performative presero il posto di un'azione ben più e meglio progettata.

Il problema della sicurezza europea

Quando il dibattito sull'allargamento della NATO si è acceso per la prima volta a metà degli anni ‘90, gli argomenti principali erano sinceramente performativi da entrambe le parti.

La Polonia voleva un legame simbolico con la difesa e sicurezza occidentale. La Russia si lamentava non delle nuove basi straniere o degli schieramenti nucleari, che erano già limitati dall'Atto fondativo e costitutivo del rapporto NATO-Russia del 1997, ma purtroppo di questioni più che altro di natura simbolica come il proprio orgoglio ferito dal disfacimento dell’Unione Sovietica e per lo status oramai perso di un paese nel quale tutti i cittadini russi erano cresciuti all’insegna della "NATO" come sinonimo di acerrimo "nemico".

Di concreto c’era solo lo spostamento reale degli ex stati sovietici verso l'Europa occidentale e in ogni caso politicamente lontani dalla Russia, specie da quella di Putin.

Nel 2005, un leader anti-russo, Viktor Yushchenko, che era sopravvissuto a un “misterioso” avvelenamento l'anno precedente, divenne Presidente dell'Ucraina, sconfiggendo il candidato più filo-russo, Viktor Yanukovych.

In questa occasione, la reazione di Washington è stata trionfalista.

Putin invece ha iniziato a proclamare un credo messianico del fascismo russo. Nel 2007, ha sospeso il rispetto istituzionale russo delle parti più importanti del sistema paneuropeo di controllo e sicurezza degli armamenti. Non molto tempo dopo ha invaso la Georgia.

Il viraggio della NATO

Per gli alleati della NATO questo era il momento di ricominciare a considerare più seriamente tutte le complesse problematiche inerenti la sicurezza europea.

Sebbene gli alleati non abbiano preso misure pratiche per costruire difese militari più credibili, il presidente George W. Bush ha spinto nel 2008 affinché l'Ucraina ricevesse l'adesione alla NATO, un appello che prevedibilmente si è ritorto contro.

Alleati come la Germania e la Francia hanno bloccato qualsiasi piano per far avanzare la procedura di adesione dell'Ucraina.

La mossa di Bush ha finito per favorire le divisioni tra i membri della NATO senza riuscire a fornire alcuna assicurazione all'Ucraina, dove il futuro è rimasto ancora in discussione. Il candidato amico della Russia, Yanukovich, ha poi vinto la presidenza ucraina nel 2010.

Quattro anni dopo, è stato rovesciato in una "rivoluzione della dignità" dopo essersi ritirato da un processo che avrebbe avvicinato il suo paese all'Unione europea. Questo fatto, a sua volta, ha condotto direttamente alla prima invasione russa dell'Ucraina conclusasi con la conquista della Crimea.

Il problema della Crimea

La crisi del 2014 aveva poco a che fare con la NATO. L'evento scatenante è stato il tentativo dell'Ucraina di associarsi all'UE iniziando con gli aspetti economici e commerciali, ponendo l'Ucraina su un percorso irrevocabilmente lontano dalla Russia.

Ma Putin usa "NATO" come Hitler ha usato "Versailles", ovvero come uno strumento secondario da utilizzare per la teatralità propagandistica.

Parlare della NATO aiuta Putin e i suoi sodali a oscurare la loro vera preoccupazione, ovvero che l'Ucraina possa raggiungere l'indipendenza democratica piuttosto che essere assoggettata al suo impero dittatoriale.

La sfida ecologica ed energetica

Nei 30 anni trascorsi dal “Vertice della Terra” del 1992 a Rio de Janeiro, il problema di come i paesi possono procurarsi, fornire e pagare per le forniture energetiche è diventata una sfida planetaria determinante per il proseguimento dello sviluppo politico e sociale.

La principale risposta internazionale è stata in primis un ampio impegno per la decarbonizzazione, espresso e sottoscritto tramite impegni internazionali.

Ma questi impegni sono risultati finora una malridotta facciata.

Come di recente ha sottolineato l'Agenzia internazionale per l'energia, la maggior parte dei protagonisti statali non è sostenuta da politiche concretamente mirate e, qualora lo fossero, non sarebbero ancora sufficienti per fermare gli effetti più negativi causati dal cambiamento climatico.

La transizione climatica

Anche l'Europa, la voce più forte per una transizione verde, ha trascorso l'ultimo decennio diventando più dipendente dai combustibili fossili, in particolare dalla Russia.

La risposta del mondo ai cambiamenti climatici, quindi, è stata l'equivalente geopolitico più simile ad una maschera: una forma di intrattenimento da corte aristocratica cinquecentesca, che di solito culmina in una ipocrita danza cerimoniale.

Di certo sappiamo che la transizione energetica non stabilizzerà, da sola, il pianeta. Sposterà invece la propria dipendenza energetica dai combustibili fossili a una relazione ancora più pronunciata verso alcuni metalli utilizzati nella tecnologia verde.

Nella geologia, nell'estrazione mineraria e nella lavorazione dei minerali, la Cina e la Russia sono in posizioni di primaria importanza.

In assenza di qualsiasi azione concertata, il mondo sta quindi tendendo verso la dipendenza, e i flussi finanziari, verso quelle nuove fonti – la Cina soprattutto – nei suoi sogni senza carbonio.

Gli architetti di questo sistema hanno fatto davvero poco per prevenire tale dipendenza.

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