"Poor Things" e "The zone of interest": due visioni audaci che sfidano gli spettatori a vedere o non vedere la realtà

Oscar 2024: mostrare o non mostrare? Questo è il dilemma

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  Jacopo Cantoni
  27 febbraio 2024
  3 minuti, 31 secondi

La domanda sorge spontanea: è meglio mostrare o non mostrare? La cosa migliore è che sullo schermo si mostri in ogni sua forma e sfaccettatura ciò che stiamo raccontando oppure è meglio che alcune cose non vengano palesate? Lo spettatore ha bisogno o meno di vederle e, soprattutto, quali sono i risvolti nei due diversi casi?

Credo che l’edizione 2024 degli Oscar possa aggiungere un tassello a questa magnifica e irrisolvibile questione. 

Poor Things, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, presentato all’Ottantesima edizione del Festival del Cinema di Venezia, è una commedia bizzarra, macabra ed esteticamente aggressiva. Tematiche quali l’anatomia, la scienza e la crescita, sviluppate e analizzate attraverso le scoperte sessuali di Bella, interpretata da una magistrale (e, mi permetto di dirlo, da Oscar) Emma Stone, sono il tappeto e il soffitto di un film alla scoperta della realtà che sta fuori dalla casa del Dottor Baxter, interpretato da Willem Dafoe. La relazione a quattro con quest'ultimo, il suo assistente Max McCandles, interpretato da Ramy Youssef, e il Duncan Wedderburn di Mark Ruffalo, sono le pareti e l’elemento “tragico-romantico” della trama.

Il tutto mostrato nella sua interezza: scene di violenza, di masturbazione e di sesso, sangue e spari, in un'ambientazione steampunk-retrofuturista, come la critica lo ha più volte definito, lì davanti ai nostri occhi. Gli occhi, i nostri, degli spettatori, che in sala sussultano e ridono per rompere un imbarazzo sociale.

Poor Things è, secondo me, uno sguardo analitico stravagante e contorto che si concretizza attraverso l'obiettivo di Lanthimos, alla ricerca della "normalizzazione" intergenerazionale dei temi proposti. Una testimonianza del talento eccezionale di Lanthimos nel creare opere interessanti e provocatorie che sfidano gli spettatori a riflettere profondamente sulla complessità della realtà.

Al contrario, il geniale e sfuggente regista Jonathan Glazer torna sul grande schermo dopo dieci anni con The Zone of Interest, uno dei film più angoscianti ed esteticamente misteriosi di quest'anno. Anche in questo caso la sceneggiatura non è originale, ma è tratta dall’omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis. Il film offre una visione devastante dell'Olocausto attraverso lo sguardo del comandante di un campo di concentramento, Boll (rinominato Höss e interpretato da Christian Friedel), e della sua famiglia.

Tranquillità e normalità condividono la scena con il muro del campo di concentramento di Auschwitz, reso palese dalla presenza costante della torre di guardia, dal bagliore della fornace in lontananza, dagli spari e dalle urla che ricordano continuamente la realtà degli orrori. Così, senza mostrarlo, senza metterci di fronte bambini privati della loro personalità o uomini prima forti e vigorosi ridotti a un cumulo di ossa, ma rendendoci consapevoli dell’indifferenza di chi li abitava, rendendola universale e "colpa di tutti". Glazer crea un senso straordinario di realismo spettrale, utilizzando una rigorosa disposizione di camere fisse e un'illuminazione digitale senza pietà, mantenendo un realismo sorprendente.

Anche in questo caso il film non "esordisce" agli Oscar perché era già stato presentato in anteprima al Festival di Cannes 2023. Si concentra sul personaggio di Höss e sulla sua famiglia adottando un approccio visuale severo, in cui i primi piani sono quasi inesistenti e, con un movimento di macchina unico e ripetitivo, la carrellata crea uno stile osservativo e distante che amplifica l'angoscia dello spettatore, introdotta ed estremizzata dalla sequenza in assenza di colore dell'incipit.

Auto-negazione, complicità nella crudeltà, schiavismo e soppressione sono affrontati attraverso una storia ambientata nel 1942 e una lentezza che non solo non appartiene più allo spettatore del nostro tempo ma che in qualche modo tenta di dialogare anche con coloro che sono figli di quel tempo.

La scelta di Glazer di non mostrare gratuitamente gli orrori ma di farli risuonare nella mente dello spettatore, supportata dalla potente colonna sonora di Mica Levi, rende il film un'esperienza audio-visiva sco(i)nvolgente.

Per noi spettatori, ribaltando la domanda iniziale, è, quindi, meglio vedere l’orrore o solo immaginarlo? Decidetelo andando in sala e immergendovi in questi due capolavori. 


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L'Autore

Jacopo Cantoni

Laureato in Cinema presso l'Alma mater Studiorum di Bologna, mi cimento nella scrittura di articoli inerenti a questo bellissimo campo, la Settima Arte. Attualmente frequento il corso Methods and Topics in Arts Management offerto dall'università Cattolica del Sacro Cuore.

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