USA e Israele

Washington nella guerra in Medio Oriente

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  Matteo Gabutti
  28 marzo 2024
  12 minuti, 6 secondi

I have had the privilege of returning [to Israel] many times, and to know every one of your prime ministers over these past three and a half decades, including your current leader who is a close, personal friend of over 33 years, Bibi Netanyahu.

Joe Biden, Vicepresidente degli Stati Uniti, 10 marzo 2010


I told him, Bibi, and don’t repeat this, but you and I are going to have a ‘come to Jesus’ meeting.

Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti, 8 marzo 2024

Nella sua lunga carriera, l’odierno inquilino della Casa Bianca ha sviluppato una sincera amicizia con l’attuale Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, altro ospite fisso della scena politica del proprio Paese. Questo genuino rapporto distingue Biden dai suoi predecessori, che da Clinton a Obama hanno sempre finito per averne abbastanza del leader del partito conservatore Likud.

Anche l’amicizia col 46° Presidente degli Stati Uniti, tuttavia, è percorsa da un’inerente tensione, emersa già la scorsa estate in luce del tentativo di ‘Bibi’ di imbrigliare il potere giudiziario israeliano. La crisi umanitaria a Gaza, scatenata dal governo Netanyahu in risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, sembra aver condotto a una resa dei conti – a un “‘come to Jesus’ meeting.”



L’UNSC, infine

Un’importante svolta è avvenuta lunedì 25 marzo, quando Washington ha ritirato la minaccia di veto ai tentativi di interrompere le ostilità da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (UNSC).

La Risoluzione 2728 (2024), con 14 voti favorevoli e la sola astensione americana, impone un cessate il fuoco immediato per il mese del Ramadan con l’obiettivo di raggiungerne uno “duraturo e sostenibile.” A ciò si aggiunge la richiesta del rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi e la garanzia dell’accesso umanitario a Gaza. Infine, la Risoluzione richiama tutte le parti in conflitto al rispetto delle norme del diritto internazionale.

Come sottolinea la Prof. Alessandra Annoni, queste richieste sono “vincolanti e separate”. Il verbo demand utilizzato dall’UNSC – richiedere, esigere – è infatti tipico di una risoluzione obbligatoria, in opposizione a forme più blande come recommend – raccomandare, consigliare. Inoltre, ciascuna richiesta non è condizionata al rispetto delle altre.

Mentre il Consiglio accoglieva l’approvazione con un applauso liberatorio, reazioni tiepide se non ostili emergevano da Tel Aviv.

L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite ha definito la mancata condanna a Hamas come una “disgrazia”. Il ministro per la sicurezza nazionale ha descritto l’UNSC come “un’istituzione antisemita”, e il mancato veto americano come la prova che Biden “non pone la vittoria d’Israele e del mondo libero sul terrorismo in cima alle proprie priorità”. L’ufficio di Netanyahu ha annullato la visita di una delegazione israeliana a Washington per discutere l’offensiva di Tel Aviv sulla città di Rafah, un’operazione non condivisa dall’amministrazione americana.

Un’incrinatura disturba dunque quella che nel 1962 il Presidente Kennedy definì la “relazione speciale” tra USA e Israele.



Plata y plombo

La Risoluzione ha fatto scalpore poiché giunta dopo un’impasse in cui l’appoggio statunitense a Israele ha paralizzato l’UNSC. Per oltre cinque mesi il cessate il fuoco è rimasto una chimera, nonostante le atrocità subite dalla popolazione della Striscia di Gaza, denunciate da Francesca Albanese, Relatrice speciale ONU sui territori palestinesi occupati, come basi ragionevoli per un genocidio.

All’indomani del 7 ottobre, Biden condannava l’attacco di Hamas come “un atto di male assoluto” e schierava gli Stati Uniti a fianco della “poderosa vendetta” invocata da Netanyahu. Una settimana più tardi, a Tel Aviv Joe abbracciava l’amico Bibi in un inequivocabile segno di supporto, stemperato dall’avvertimento di non lasciarsi consumare dalla rabbia come gli USA dopo l’11 settembre.

Stando al Washington Post, dall’inizio del conflitto ai primi di marzo, gli States avrebbero concluso con Israele oltre cento foreign military sales, transazioni per l’invio di “migliaia di munizioni a guida di precisione, bombe a piccolo diametro, bunker buster, piccole armi e altre forme di equipaggiamento militare”. Solo due transazioni sono state rese note, mentre le altre non sarebbero state sottoposte ad alcun dibattito pubblico, in quanto inferiori alla soglia di dollari oltre la quale l’esecutivo deve notificare il Congresso.

Quest’ultimo ha lasciato in sospeso un pacchetto di aiuti a Israele da $14md, visto che all’approvazione del Senato di febbraio non è seguita alcuna risposta dalla Camera. Ciononostante, Tel Aviv rimane la prima beneficiaria globale del programma statunitense di Foreign Military Financing, che dal 2019 le garantisce $3,3md annui, cui aggiungere ulteriori aiuti per esempio per la difesa missilistica del Paese.

Queste cifre sarebbero coperte dalla legge di bilancio per il 2024 da 1,2 bilioni di dollari, firmata in extremis il 23 marzo dopo una strenua lotta parlamentare tra Democratici e Repubblicani. Questi ultimi sono inoltre riusciti a prolungare di un anno la sospensione di fondi all’UNRWA, l’Agenzia ONU per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente.



Numeri

Ciononostante, negli USA la percezione del conflitto non è delle più rosee.

Un sondaggio Gallup ha rivelato come a marzo una maggioranza di americani disapprovi l’operato militare israeliano a Gaza (55%), con un’impennata di dieci punti percentuali rispetto a novembre. Per quanto più marcato per i Democratici, il calo di entusiasmo ha coinvolto l’intero spettro politico.

Tinte simili appaiono in uno studio condotto a fine gennaio da AP-NORC, dove la metà dei partecipanti asseriva che la risposta d’Israele fosse andata troppo oltre.

Secondo il Pew Research Center, a febbraio simili percentuali di americani appoggiavano (36%) o opponevano (34%) l’invio di aiuti militari a Tel Aviv. Inoltre, leggermente più intervistati ritenevano che Biden favorisse troppo gli Israeliani (22%) sui Palestinesi (16%), un’opinione diffusa soprattutto tra giovani (36%), Democratici (34%) e cittadini di fede islamica (60%).

Le elezioni presidenziali di novembre conferiscono un gusto particolare ai sondaggi per il Presidente.

Nelle primarie democratiche in Michigan, uno degli States con la più alta concentrazione di cittadini arabi o musulmani, i voti uncommitted – le schede lasciate bianche per protesta – sono stati oltre 100'000, il 13,3% del totale. Per quanto minoritaria, questa opposizione da sinistra rischia di erodere l’elettorato di Biden e di assumere un peso specifico notevole in Michigan. Quest’ultimo rientra infatti negli swing States, ovvero quegli Stati chiave dove nessun partito gode di una chiara maggioranza e la vittoria rischia di ridursi a una manciata di voti.

In ogni caso, rivela un altro sondaggio Gallup, l’approvazione dell’operato del Presidente è minima riguardo alla gestione della situazione in Medio Oriente.



Parole

L’aumento vertiginoso di vittime civili a Gaza, inversamente proporzionale alla popolarità domestica di Biden e internazionale degli Stati Uniti, ha fomentato una crescente frustrazione a Washington.

Agli abbracci in pubblico, in privato Joe ha sostituito un linguaggio sprezzante e impaziente per riferirsi all’amico Bibi.

Biden ha definito l’offensiva contro Rafah come “linea rossa”, salvo poi ribadire che non avrebbe mai abbandonato Israele. Netanyahu ha risposto che l’operazione si farà, in barba a qualunque linea invalicabile che non coincida con le sue.

Tra detti e non detti e un alleato recalcitrante, la tensione in seno al partito Democratico non fa che aumentare. Il controverso discorso del 14 marzo del Senatore ebreo Chuck Schumer, che ha invocato nuove elezioni in Israele definendo Netanyahu come un ostacolo alla pace, ne è un chiaro sintomo, ma non lo sfogo liberatorio, come dimostrato dalla fredda se non ostile accoglienza.

Nell’intricata trama politica, il silenzio di un veto mancato diventa allora la voce più risoluta.

Intanto, a Gaza, le bombe continuano a cadere.

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L'Autore

Matteo Gabutti

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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.

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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.

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