Il fenomeno del whitewashing dei diritti umani nel Medio Oriente: il Bahrein

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  Redazione
  03 June 2021
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Secondo il dizionario Merriam-Webster [1] con il termine inglese "whitewashing" si fa riferimento a diversi concetti. Oltre al concetto più intuitivo, ovvero quello che fa riferimento alla banale azione d'imbiancamento e quello che sta per indicare un atto di sopraffazione dei bianchi nei confronti delle persone nere, vi è quello che si riferisce a un comportamento scorretto mirato a coprire una serie di eventi che minano la reputazione di un determinato soggetto.

Nell’intreccio delle relazioni internazionali, i paesi che non si impegnano a sufficienza per interrompere i cicli d'impunità, oppressione e altre violazioni dei diritti umani, ricevono spesso pressioni da parte della comunità internazionale. In paesi come il Bahrain, dove il dissenso significa galera e l’opposizione politica è fuorilegge, la comunità internazionale rimane l’unica voce in grado di denunciare le ingiustizie che il popolo subisce. In questo scenario, dove lo stato di oppressione soffoca ogni tentativo di cambiamento all’interno del Paese, il regime reagisce alle pressioni esterne.

Il National Institute of Human Rights

In Bahrain, le risposte a tali pressioni esterne sembrano essere tutte perlopiù azioni di facciata. Prendiamo ad esempio il caso del National Institute of Human Rights, creato nel 2009 attraverso decreto reale. Esso è stato appunto istituito in risposta alle pressioni della comunità internazionale e nonostante sia stato creato con lo scopo nobile di proteggere i diritti umani, non rispetta i Principi di Parigi adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993. Questi ultimi sono una serie di criteri che gli istituti nazionali dei diritti umani devono rispettare affinché tali enti affermino la propria indipendenza dagli altri poteri e la piena legittimità del loro mandato. La creazione del NIHR da parte del Bahrain sembra essere una strategia di whitewashing volta a dare un’impressione di avanzamento e progresso nel campo dei diritti umani. Tale conclusione viene confermata da più organizzazioni che operano nel campo della difesa dei diritti umani come Amnesty International [2] e l’ONG Americans for Democracy and Human Rights in Bahrein, le quali affermano che la creazione del NIHR non ha portato ad alcun miglioramento nello scenario dei diritti in Bahrain. In più, nel Report [3] realizzato da ADHRB si legge che “At worst, the NIHR has even endorsed government action that is in clear violation of international human rights standards”. L’istituzione del NIHR ha permesso al Bahrain di costruirsi una reputazione di paese attento e sensibile alla dignità del singolo e delle collettività che può sfoggiare nei contatti diplomatici con gli altri paesi, disarmando, almeno in parte, le accuse che la comunità internazionale potrebbe rivolgergli. Si crea così una retorica secondo la quale il Bahrein possiede un organo che vigila sulle violazioni dei diritti umani, aperto alle segnalazioni dei cittadini, trasparente e perfino sensibile alle questioni di gender equality (fino a poco tempo fa il Presidente dell’organo era una donna). La verità è che fin quando l’organo non conquisterà la piena indipendenza dal governo, esso conserverà un mero ruolo di facciata.

La Formula Uno in Bahrein

Un esempio di whitewashing è anche la collaborazione tra il Bahrein e la Formula Uno avviata nel 2004. Tale fenomeno prende la connotazione specifica di sportswashing, strategia con la quale alcuni paesi cercano di spostare l’attenzione internazionale dalle numerose violazioni dei diritti umani verso eventi globali sportivi che possono ricoprire i loro nomi di una luce mediatica diversa e decisamente più positiva. La collaborazione con un’associazione mondiale come la Formula Uno (dal forte stampo occidentale, tra le altre cose) rappresenta per il Bahrein un riconoscimento a favore del regime e quindi ha il potere di indebolire le posizioni di denuncia provenienti dalla comunità internazionale in relazione alle gravi violazioni dei diritti umani. La presenza della Formula Uno nel Paese ha portato, nel corso del tempo, a moltissime proteste [4] da parte della popolazione Bahreinita le quali sono state duramente represse dalle autorità. In seguito ad una mobilitazione significativa da parte di numerose organizzazioni, la Formula Uno ha accettato di affrontare la questione dei diritti umani chiedendo spiegazioni al regime riguardo all’arresto di Najah Yusuf [5], in carcere per aver criticato il governo su un post pubblicato su Facebook. Nonostante questa presa di posizione, la Formula Uno "si è lavata le mani" [6] una volta che il regime ha assicurato che il caso di Najah Yusuf non è collegato alle proteste pacifiche relative alla collaborazione tra i due. In seguito alla pressione proveniente dalla comunità internazionale, la Formula Uno ha anche pubblicato una dichiarazione ufficiale [7] in cui espone l’intenzione di impegnarsi nella difesa dei diritti umani. Tuttavia, la decisione della Formula Uno di avviare una collaborazione con il Bahrein non ha solamente avuto l’effetto sperato dal regime ma ha anche portato ad una intensificazione della repressione di ogni tipo di dissenso e protesta inerente a tale argomento.

Una cattedra intitolata al re di Bahrein nel cuore della Sapienza

Un altro esempio della strategia bahreinita di whitewashing è la collaborazione che il Regno del Bahrain ha avviato con la prestigiosa università pubblica La Sapienza. Nel 2018 il Regno si è offerto di finanziare la cattedra King Hamad Chair for inter-religious dialogue and peaceful co-existence” con il nobile obiettivo di incentivare la libertà religiosa attraverso la quale esso la possibilità di promuovere le sue buone intenzioni e oscurare la realtà all’interno del Paese. Due anni dopo l’instaurazione di tale cattedra, il Report [8], realizzato dalla Commissione sulla libertà religiosa internazionale degli Stati Uniti, riporta le positive iniziative portate avanti dal Regno prima di affermare che “In 2019, [...] Bahrain continued its ongoing and systematic discrimination against some Shi’a Muslims on the basis of their religious identity”.

Nonostante il fatto in sé sia da lodare, la creazione di organi ad hoc (come lo è il NIHR e così anche il King Hamad for Global Centre for Peaceful coexistence, in questo caso) e la costruzione di una retorica di rispetto per le libertà religiose e i diritti umani sembrano essere una strategia di alterazione della realtà del Paese. Ciò che è ancora più sorprendente è il fatto che un’università pubblica come La Sapienza abbia deciso di conferire legittimità a tale strategia, ignorando le effettive politiche del Paese. E’ veramente opportuno che un ente pubblico italiano si associ ad un Paese che non dimostra una concreta volontà di introdurre riforme a favore della libertà religiosa? La Sapienza possiede un grande prestigio ed è sede di rinomati professori che hanno dedicato la loro vita alla promozione della conoscenza e dello spirito critico, su cui poggiano valori come la giustizia e la libertà. Può tale università chiudere gli occhi e validare una collaborazione che potrebbe avere come effetto una pericolosa conferma dello status quo della situazione interna attuale del Bahrein? Da ex studentessa della Sapienza le mie aspettative sono alte nei confronti di tale istituzione. Dovrebbe essere l’università a finanziare gli studenti facendogli studiare la libertà religiosa nel mondo e la prima a mettere in discussione la propaganda del Bahrein, ricercando la verità ed esigendo un dialogo onesto da tutti coloro che si rivolgono ad essa. Una verità che è fin troppo facile da trovare, già pronta nel Report [9] delle Nazioni Unite, che la Sapienza potrebbe usare per incentivare il Bahrein a implementare un cambiamento effettivo. Una posizione forte da parte della Sapienza potrebbe costituire un peso di certo non irrilevante all’interno di quelle forze che stanno cercando di creare delle crepe all’interno dello sbarramento del regime e il suo scudo propagandista. L’obiettivo è quello di dare respiro alle forze politiche interne, le quali avrebbero la forze di portare nel paese la tanto auspicata libertà di pensiero ed espressione e, con sé, significativi e reali progressi nel mondo della ricerca e della conoscenza.

Le tecniche di shaming internazionale

Nel dopoguerra è nato e si è sviluppato un regime globale dei diritti umani sempre più forte. Questo regime si basa sul monitoraggio dello stato dei diritti umani e della tecnica conosciuta con il nome di naming and shaming [10]. La strategia del whitewashing posto in atto dal Bahrein sembra aver portato a due principali conseguenze negative. Da una parte può essere visto come un fallimento della strategia di shaming internazionale, in quanto il Bahrein ha risposto alla pressione internazionale concentrando i suoi sforzi a costruire ad arte la sua reputazione mentre ha continuato a intensificare le misure di repressione del dissenso. Dall’altra, tale strategia di whitewashing ha convinto enti come la Formula Uno o la Sapienza a convalidare la retorica del Bahrein. Tali collaborazioni potrebbero avere il potere di ammorbidire la pressione proveniente dalla comunità internazionale, incentivando il Paese a continuare la sua politica interna basata sulla repressione, l’impunità e l’inazione. Per questo motivo, le tecniche di shaming internazionale devono puntare a smontare le strategie di whitewashing di alcuni paesi e, soprattutto, diventare un pratica consolidata anche nei confronti di tutte quelle organizzazioni, associazioni, enti pubblici e privati e personaggi famosi che si alleano con Paesi come il Bahrein.

A cura di Ana Maria Soave

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