Cina-Stati Uniti: tregua commerciale e strategia a lungo termine

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  Francesco Oppia
  20 maggio 2025
  5 minuti

Lo scorso 12 maggio, a seguito dei negoziati tenutisi a Ginevra, Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un accordo per sospendere temporaneamente i dazi reciproci imposti negli ultimi mesi. Questa tregua di 90 giorni, che ha riportato i dazi ad un livello effettivo del 40%, ha lo scopo di favorire il dialogo bilaterale e gettare le basi per un’intesa commerciale più ampia e duratura. Tuttavia, la politica commerciale impulsiva dell’amministrazione Trump potrebbe avere ripercussioni significative sull’ordine economico asiatico e, più in generale, sulla seconda potenza economica mondiale.

Appare inoltre improbabile che il dialogo previsto nei prossimi novanta giorni produca effetti duraturi o contribuisca in modo significativo alla stabilizzazione delle relazioni tra Washington e Pechino. Le divergenze strutturali tra i due paesi affondano le radici in tensioni di lungo periodo che difficilmente potranno essere risolte in tempi brevi. Tra queste si annoverano la presenza militare statunitense nella regione e il consolidato sistema di alleanze con i principali Paesi asiatici. A ciò si aggiunge la competizione in ambito tecnologico, con gli Stati Uniti intenzionati a contenere lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie d’avanguardia cinesi, ritenute una minaccia alla propria supremazia strategica.

Dal punto di vista delle relazioni economiche con i Paesi dell’Asia-Pacifico, le iniziative unilaterali di Trump rischiano di compromettere la stabilità dei rapporti a lungo termine, lasciando margine alla crescente influenza cinese. Un esempio emblematico è rappresentato dal ritiro degli Stati Uniti dal TPP (Trans-Pacific Partnership) durante il primo mandato di Trump: una decisione che ha accelerato la regionalizzazione dell’economia asiatica e aperto la strada alla firma del RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), il più grande accordo commerciale al mondo, fortemente sostenuto da Pechino.

Un’ulteriore conseguenza della crescente regionalizzazione dell’economia asiatica - caratterizzata da barriere all’ingresso sempre più elevate per i nuovi attori - potrebbe essere l’accentuazione della già profonda frattura tra la sfera economica e quella della sicurezza. Queste due dimensioni fanno oggi capo a potenze differenti: la Cina, motore economico della regione, e gli Stati Uniti, garanti della sicurezza regionale. Per molti Paesi asiatici, in particolare quelli del Sud-Est appartenenti all’ASEAN, il dilemma tra interessi economici e imperativi di sicurezza si fa sempre più pressante, rendendo difficile individuare un punto di equilibrio sostenibile nel lungo periodo.

Inoltre, la Cina potrebbe cogliere l’occasione offerta dalle recenti scelte dell’amministrazione statunitense per ripulire la propria immagine sulla scena internazionale. In passato accusata di pratiche commerciali scorrette, Pechino potrebbe ora proporsi come un attore responsabile e un partner affidabile, impegnato nella salvaguardia dell’ordine commerciale multilaterale. Un paradosso reso ancora più evidente dal fatto che a mettere in discussione tale ordine sia proprio il suo originario promotore: gli Stati Uniti.

Per giunta, la strategia adottata da Pechino nel periodo precedente all’accordo della scorsa settimana, se portata avanti con coerenza, potrebbe produrre effetti duraturi sia sull’economia regionale sia su quella cinese, contribuendo a ridefinire in modo significativo gli attuali equilibri dell’economia globale. Già prima dell’insediamento ufficiale di Donald Trump, nel dibattito accademico cinese si rifletteva sulle possibili contromisure da adottare nel caso in cui l’amministrazione statunitense avesse intrapreso una politica commerciale aggressiva – scenario che si è puntualmente realizzato. Tra le strategie discusse figuravano la promozione del settore dei servizi, la stipula di nuovi accordi commerciali alternativi a quelli dominati dagli Stati Uniti, e l’outsourcing di alcune imprese cinesi per eludere l’impatto dei dazi, fenomeno già osservabile nei mesi recenti.

Il tema delle misure necessarie a rilanciare l’economia cinese è stato al centro della recente sessione congiunta del Congresso Nazionale del Popolo e del Comitato Nazionale della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese. In tale contesto sono stati annunciati importanti - seppur ampiamente attesi - interventi di stimolo economico, mirati principalmente a rilanciare gli investimenti e a sostenere la domanda interna. Tuttavia, la prospettiva di una trasformazione strutturale verso un modello di crescita trainato dai consumi resta ancora lontana. L’obiettivo sarebbe quello di compensare le perdite causate dall’incertezza economica degli ultimi mesi e, al contempo, di avvicinarsi al traguardo di crescita economica annuale, fissato al 5% e confermato ufficialmente in questa occasione come target di riferimento per il 2025.

Queste misure si inseriscono in un contesto interno segnato da un nazionalismo sempre più radicato, che da un lato rende l’opinione pubblica cinese più disposta a sopportare il peso di un confronto commerciale con Washington - ad oggi in tregua, ma destinato con ogni probabilità a riemergere nel lungo periodo. Dall’altro lato, però, tale clima limita la flessibilità della leadership cinese, la quale rischia di trovarsi vincolata dalle stesse aspettative nazionaliste che contribuisce ad alimentare. In prospettiva, questo potrebbe restringere significativamente lo spazio di manovra negoziale qualora si aprisse un dialogo più ampio con gli Stati Uniti.

Tale atteggiamento interno, tuttavia, rischia di entrare in conflitto con l’esigenza, sempre più pressante per Pechino, di adottare un approccio pragmatico e responsabile sulla scena internazionale. Solo così la Cina potrebbe ambire a colmare i vuoti lasciati dagli Stati Uniti e rafforzare la propria immagine di potenza impegnata nella difesa dell’ordine economico e commerciale multilaterale. Per consolidare tale narrativa - e, secondo alcuni analisti, per procedere a una più efficace ricalibratura del proprio modello economico - la Cina dovrebbe garantire una maggiore apertura del proprio mercato interno agli attori stranieri. Una prospettiva che, alla luce del contesto politico e sociale e della storia del paese, appare tutt’altro che probabile.

In definitiva, la Cina si trova stretta tra le ambizioni di leadership globale e le rigidità del proprio contesto interno. Il modo in cui tenterà di conciliare queste due dimensioni determinerà non solo il futuro dei suoi rapporti con Washington, ma anche gli equilibri dell’economia globale per gli anni a venire.

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Francesco Oppia

Autore di Mondo Internazionale Post

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Asia Orientale

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