Per oltre mezzo secolo, gli Stati Uniti hanno promosso un ordine economico internazionale basato sul libero scambio e sull’integrazione dei mercati, con l’obiettivo di consolidare la loro leadership globale. La Cina ne è stata la principale beneficiaria: dal suo ingresso nel WTO nel 2001, Pechino ha trasformato la propria economia, diventando il secondo motore della crescita globale e il principale competitor strategico di Washington. Tuttavia, oggi lo scenario si sta ribaltando. La prima amministrazione Trump ha inaugurato una stagione di protezionismo, e il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe segnare una nuova fase di escalation, con dazi ancora più pesanti e una maggiore pressione sugli alleati per ridurre la dipendenza da Pechino. Mentre gli Stati Uniti ridefiniscono il loro approccio, anche la Cina sta adattando le proprie strategie. La questione centrale, dunque, non è solo chi vincerà l’imminente guerra commerciale, ma se la regione asiatica si stia avviando verso un nuovo assetto economico in cui il regionalismo chiuso e la frammentazione sostituiscono la globalizzazione guidata dagli USA.
Per la Cina, i benefici derivanti dal commercio con gli Stati Uniti e il resto del mondo sono stati straordinari. Dal 2001, l’economia cinese è quintuplicata, affermandosi come la seconda potenza economica globale, seconda sola agli Stati Uniti. Nel frattempo, centinaia di milioni di cinesi sono usciti dalla povertà estrema, trasformando il Paese in un motore di sviluppo senza precedenti. Tuttavia, questi profondi legami commerciali hanno sollevato sfide e tensioni, alimentando dispute economiche tra Washington e Pechino. L’amministrazione Trump, rispetto ai suoi predecessori, ha adottato una linea più aggressiva, imponendo dazi su centinaia di miliardi di dollari di beni cinesi, ritirandosi dal TPP e negoziando il discusso Phase One Agreement con la Cina. Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, Washington ha inasprito le misure per contrastare l’ascesa economica cinese. L’amministrazione ha infatti introdotto restrizioni senza precedenti sull’export di tecnologia avanzata e ha rafforzato i dazi in numerosi settori considerati strategici.
A partire dal 20 gennaio, il Presidente Trump ha imposto un ulteriore dazio del 10% su tutti i prodotti cinesi, giustificandolo come una ritorsione contro l’incapacità di Pechino di contrastare il contrabbando di precursori chimici del fentanil. A questo si somma un ulteriore dazio del 25% sulle importazioni di acciaio ed alluminio. La Cina ha risposto con dazi del 15% su carbone, gas e altri beni statunitensi, imponendo restrizioni sulle esportazioni di minerali e ha aperto un’indagine antitrust su Google. Pechino, tuttavia, è oggi meno dipendente dal commercio estero, in particolare dagli scambi con gli Stati Uniti. Negli ultimi vent’anni, il governo cinese ha progressivamente ridotto l'importanza del commercio nell’economia nazionale, concentrandosi sulla crescita del mercato interno. Se nei primi anni 2000 importazioni ed esportazioni rappresentavano oltre il 60% del PIL, oggi la quota si è ridotta a circa il 37%. Parallelamente, gli scambi commerciali tra Stati Uniti e Cina sono diminuiti, soprattutto nei settori più colpiti da dazi e restrizioni. Pechino ha inoltre rafforzato le proprie relazioni economiche con altri partner, tra cui Unione Europea, Messico e Vietnam. Questa riorganizzazione potrebbe limitare l’impatto delle politiche commerciali americane sull’economia cinese.
Se Trump dovesse introdurre ulteriori dazi, sarebbe probabile che le contromisure cinesi si concentrino su settori in cui la Cina detiene un chiaro monopolio globale, come i minerali, poiché il contesto macroeconomico cinese rende meno sostenibili ritorsioni su larga scala. D’altra parte, gli Stati Uniti dispongono di leve economiche altrettanto incisive. Washington può imporre ulteriori restrizioni all’export tecnologico che avrebbero effetti devastanti sulle industrie cinesi e sul programma Made in China 2025, il piano lanciato dal governo cinese nel 2015 per trasformare il Paese in una potenza leader nei settori ad alta tecnologia. Il programma mira a ridurre la dipendenza dalle importazioni di tecnologia avanzata e a sviluppare capacità produttive autonome in comparti chiave come l’intelligenza artificiale, la robotica, la biotecnologia e i semiconduttori. Inoltre, il controllo del dollaro, valuta di riserva internazionale, resta una potente arma economica. Contestualmente, Pechino è già coinvolta in un duro confronto commerciale con l’Unione Europea, che ha approvato dazi sui veicoli elettrici cinesi.
Diversi paesi partner degli Stati Uniti stanno adottando strategie di decoupling o de-risking per ridurre la loro dipendenza economica dalla Cina. Tuttavia, nazioni come il Giappone e l'India, pur nutrendo da tempo preoccupazioni in materia di sicurezza nei confronti della Cina, non sembrano in grado di adottare misure concrete per limitarne le capacità di coercizione economica. Le relazioni politiche tra Tokyo e Pechino oscillano tra rivalità e aperta ostilità, mentre i legami economici, sebbene solidi, sono sempre più segnati da una crescente competizione. In passato, Pechino ha cercato di sfruttare l’interdipendenza economica per ottenere concessioni politiche, alimentando nel governo giapponese una profonda diffidenza verso la Cina. Anche Australia, Corea del Sud e Taiwan affrontano minacce simili, sia sul piano della sicurezza sia su quello della coercizione economica. L’India, invece, vede in questo scenario un’opportunità per rafforzare il proprio settore manifatturiero e consolidare la sua posizione nella riorganizzazione delle catene di approvvigionamento globali.
L'obiettivo del presidente Trump sembrerebbe essere quello di ottenere concessioni su una serie di questioni non strettamente commerciali, dall'immigrazione al traffico di droga. Trump spera inoltre che l’imposizione dei dazi incentivi il ritorno della produzione negli Stati Uniti e riduca i deficit commerciali bilaterali. Tuttavia, il costo delle ritorsioni da parte della Cina è significativo: Pechino ha risposto con una raffica di contromisure economiche che rischiano di danneggiare settori chiave dell’economia statunitense. Ancora più insidioso è però il costo dell’imitazione: se gli Stati Uniti, architetti dell’ordine economico internazionale basato sulle regole, iniziano a selezionare quali norme seguire, altri paesi potrebbero fare lo stesso, minando la credibilità del sistema globale.
Nel lungo periodo, politiche di questo tipo potrebbero erodere il prestigio statunitense nella regione indo-pacifica e favorire l’emergere di forme di regionalismo chiuso, in netto contrasto con l’originaria strategia americana di integrare la regione nell’ordine internazionale liberale. Questo, paradossalmente, potrebbe creare nuovo spazio politico per la Cina, nonostante le sue azioni di coercizione economica, che continuano a farla percepire come un partner inaffidabile. Pechino sta infatti cercando di riformulare l’ordine economico regionale attraverso iniziative come la RCEP, l’AIIB e la Belt and Road Initiative, rafforzando il proprio ruolo come centro economico alternativo agli Stati Uniti. Le strategie statunitensi rischiano, quindi, di accentuare ulteriormente il dilemma vissuto dagli Stati asiatici – esclusa la Cina – divisi tra l’allineamento alla politica di sicurezza statunitense e la dipendenza economica dal mercato cinese.
Mondo Internazionale APS - Riproduzione Riservata ® 2025
Condividi il post
L'Autore
Francesco Oppia
Autore di Mondo Internazionale Post
Categorie
Tag
USA Pechino China Japan Tariff