Diritto di protesta sotto attacco in America Latina.

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  Giorgia Milan
  11 ottobre 2023
  5 minuti, 6 secondi

La protesta pacifica viene da sempre concepita come un potente mezzo per raccontare la verità, per incitare al cambiamento in positivo. I fattori che la scatenano possono essere infatti molteplici: dalle disuguaglianze al cambiamento climatico, dalla repressione alle ingiustizie. Sono sempre di più le persone che scendono in piazza per far valere i loro diritti, le loro libertà, i loro ideali.

Allo stesso tempo però sono sempre di più i governi che reprimono nel sangue queste proteste, emanando regolamenti sempre più repressivi per evitarle e, all’occasione, punire i manifestanti. Arresti arbitrari, torture, uso illegale della forza, uccisioni e violazioni dei diritti umani hanno oramai preso il sopravvento.

Concretamente, nel 2022 sono più di 85 gli stati nei quali i governi hanno deciso di ricorrere all’uso illegittimo della forza per sedare delle proteste, in ben 27 stati le forze dell’ordine hanno utilizzato armi letali e sono sempre di più i governi che adottano misure per reprimere sul nascere qualsiasi tipo di manifestazione. Siamo davanti a un quadro piuttosto preoccupante, soprattutto in America Latina.

In Cile le proteste sono principalmente mosse dal desiderio di ottenere maggiore uguaglianza e un rispetto dei diritti umani. Richieste lecite, alle quali tuttavia le autorità rispondono con la violenza, con la repressione e con la detenzione (basata su due principi fondamentali: discriminazione e sproporzione della pena).
Carovita, corruzione e l’aumento del costo dei biglietti della metropolitana hanno portato alle proteste del 2019 e 2020, in seguito alle quali numerosi manifestanti vennero ingiustamente detenuti. Questi anni di proteste sono stati ovviamente caratterizzati dalla repressione e dalla violenza.

In concreto, secondo i rapporti di Amnesty international, più di 12.500 persone sono state trasportate d’emergenza in ospedale, 347 persone hanno riportato lesioni agli occhi, 5.558 persone sono state vittime di violenza istituzionale e infine sono stati segnalati 1.946 crimini commessi dagli ufficiali di polizia. Sono sicuramente dati allarmanti che fanno capire quanto gli organi istituzionali cileni non riescano a tollerare la protesta pacifica.

Disuguaglianza, razzismo, violenza e la guerra civile hanno causato nel corso degli anni una serie di proteste e scioperi in Colombia. Anche in questo caso, invece di ascoltare e provare ad accogliere le richieste di una popolazione allo stremo, l’unica soluzione messa in atto dal governo è stata la violenza. Secondo le stime di Amnesty international sono 84 le persone uccise tra aprile e giugno 2021 e 1.790 le persone ferite. Le lesioni agli occhi continuano ad essere le più diffuse, conseguenza dell’uso di proiettili di gomma e gas lacrimogeni.
Il caso colombiano è particolarmente importante per la violenza messa in atto dalla polizia durante le proteste del 2021. Parliamo di uso eccessivo della forza, tortura, trattamento disumano, attacchi contro le persone di origine indigena e infine violenza sessuale contro donne e comunità LGBTIQ+. I corpi dei manifestanti diventano quindi un campo di battaglia: puniti per aver parlato, per aver manifestato un disagio sociale, economico e politico che va avanti da anni.

Nel 2022 il governo cubano adottò un nuovo codice penale prevedendo la detenzione da quattro a dieci anni per tutti coloro che “mettono in pericolo l’ordine costituzionale e il suo normale funzionamento”, criminalizzando allo stesso tempo la resistenza.
Cuba è un paese caratterizzato dalla mancanza di cibo e di medicine, dalle continue interruzioni della corrente e da un’assistenza sanitaria assente, una condizione di vita difficile e ai limiti dell’impossibile per la maggioranza della popolazione. Fu proprio la disperata richiesta di cambiamento ad essere alla base delle proteste dell’11 luglio 2021. Anche in questo caso, il governo ha privato la sua popolazione del diritto di espressione e di riunione pacifica, principalmente tramite l’interruzione dell’elettricità, interferenze su internet, dispiegamento delle forze di polizia ed arresti arbitrari.

In ambito delle manifestazioni, una tattica usata di frequente dalle autorità ecuadoriane è la dichiarazione dello stato di emergenza per poter dispiegare nel territorio le forze armate e, di conseguenza, militarizzare il territorio. Questo fu quello che successe nel 2019, in seguito a una serie di proteste scoppiate nel paese, il presidente ecuadoriano dichiarò lo stato di emergenza con la conseguente mobilizzazione delle forze armate. È importante sottolineare come nel solo mese di ottobre (dal 3 al 13 Ottobre 2019) 1.192 persone vennero arrestate, 1.340 ferite e ben 8 morirono.
Nel 2022, inoltre, il presidente ecuadoriano varò un decreto secondo il quale le forze armate hanno il dovere di reprimere le minacce terroristiche. La mancanza di descrizione delle cosiddette minacce terroristiche può causare ovviamente la repressione di qualsiasi tipo di dissenso, di protesta, di attivismo per i diritti umani che possa infastidire gli alti ranghi governativi.

Dal 2021 in poi, in Messico la protesta è principalmente una questione di donne. Era il 2021 infatti quando la polizia messicana represse nel sangue una protesta portata avanti principalmente da studentesse della scuola di Mactumactzà (74 le donne arrestate, 19 gli uomini). Non si trattata di una protesta violenta, ma la risposta repressiva del governo non si è fatta attendere. Stando a un’analisi di Amnesty International, effettuata raccogliendo le testimonianze, i manifestanti sono stati tirati per i capelli, presi per il collo, colpiti in faccia, nella schiena e nell’addome, non sono mancati gli insulti razzisti, classisti e misogini.
Nell’ambito di queste proteste, fu terrificante l’allusione fatta dalla polizia alla scomparsa (forzata) dei 43 studenti della scuola di Ayotzinapa nel 2014. Secondo Amnesty International, la polizia messicana ha affermato ai manifestanti che “ora saranno 95, invece di 43 gli studenti scomparsi”.

È dunque evidente come la protesta sia un modo per far valere i propri diritti e ideali. Il problema principale è che i governi non riescono a percepire la protesta come un diritto di tutti, ma piuttosto come una minaccia per i loro governi.

Le fonti sono liberamente consultabili presso:

https://www.aggiornamentisociali.it/articoli/londata-di-proteste-e-le-fragili-democrazie-dellamerica-latina/

https://www.amnesty.org/en/documents/amr22/3133/2020/en/

https://www.amnesty.org/en/latest/campaigns/2022/02/repression-in-the-spotlight/

https://www.amnesty.org/en/latest/news/2022/05/right-to-protest-under-threat-mexico/

https://www.amnesty.it/una-mappa-interattiva-sulla-repressione-delle-proteste-pacifiche-nel-mondo/

Immagine: https://www.rawpixel.com/image/3336870/free-photo-image-protest-military-activist

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L'Autore

Giorgia Milan

Giorgia Milan, classe 1998, ha conseguito una laurea triennale in “scienze politiche, relazioni internazionali e governo delle amministrazioni”, con una tesi riguardo la condizione femminile in Afghanistan, e successivamente una laurea magistrale in “Human rights and multi-level governance”, con una tesi riguardo la condizione delle donne rifugiate nel contesto dell’attuale guerra Russo-Ucraina, il tutto presso l’Università degli studi di Padova.

I suoi interessi principali sono i diritti umani, in particolare i diritti delle donne. È proprio il forte interesse per questi temi che l’ha spinta a intraprendere un tirocinio universitario presso il Centro Donna di Padova, durante il quale ha avuto la possibilità di approcciarsi al mondo della scrittura e della creazione di contenuti riguardanti la violenza di genere e le discriminazioni.

In Mondo Internazionale Post Giorgia Milan è un'autrice per l'area tematica di Diritti Umani.

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