Il caso George Floyd e le discriminazioni razziali

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  Redazione
  10 settembre 2020
  7 minuti, 24 secondi

A cura di Valeriana Savino

Please, man, I can’t breathe”. George Floyd è stato fermato dalla polizia lunedì 25 maggio a Minneapolis, Minnesota, verso le 8 di sera. La motivazione del fermo si può leggere in una nota della polizia, “l’uomo appariva sotto gli effetti di alcol e droga”.

George Floyd muore soffocato sotto il ginocchio di Derek Chauvin, un poliziotto bianco con precedenti per violenze contro neri disarmati. Tutto il paese – tutto il mondo – vede Floyd morire mentre invoca la madre morta e mentre dice almeno 16 volte “non riesco a respirare”. Chauvin resta con il ginocchio sul suo collo per 8 minuti e 46 secondi, anche dopo che Floyd ha perso conoscenza, e intanto guarda con aria di sfida verso il telefono che lo sta riprendendo. Gli altri agenti – Thomas Lane, J. Alexander Kueng e Tou Thao – osservano la scena senza intervenire.

Dall’analisi delle immagini dei video delle telecamere di sorveglianza e di quelle girate dai passanti è chiaro in modo inequivocabile che Floyd non ha avuto comportamenti violenti e che prima di essere immobilizzato era già in condizioni fisiche precarie; si può quindi parlare dell’ennesimo episodio di discriminazione razziale.

Il 26 maggio il dipartimento di polizia di Minneapolis rende noto un comunicato in cui sostiene che Floyd è morto per un “incidente medico”. Il sindaco Jacob Frey, giovane e democratico, condanna il comportamento della polizia e promette di fare giustizia, ma non può placare la rabbia di chi sta già scendendo in piazza. All’inizio le proteste sono pacifiche, poi scoppiano disordini, vengono saccheggiati dei negozi, un commissariato viene dato alle fiamme, la polizia risponde con lacrimogeni e proiettili di gomma. Il 28 maggio, quando in città viene proclamato lo stato d’emergenza e chiesto l’intervento della guardia nazionale, nel paese si supera la soglia dei centomila morti di Covid-19. Il 29 maggio Chauvin è incriminato con l’accusa di omicidio.

La vicenda di George Floyd ha colpito in maniera particolare il gruppo di “TrattaMI Bene” ed è stato oggetto di confronto in un nostro dibattito tenutosi il 6 giugno 2020. Le questioni emerse fanno riferimento alla brutalità dell’uccisione di Floyd, alle discriminazioni razziali, alle proteste pacifiche e violente e al ruolo della polizia.

Juan Guillermo De Los Rios pone l’attenzione sulle proteste e afferma che “è giusto manifestare, ma non è giusto approfittare della situazione attraverso il saccheggio e la distruzione di attività commerciali. Condivido la definizione di razzismo data dall’ ex cestista Kareem Abdul-Jabbar, il quale afferma che: «il razzismo in America è come la polvere nell’aria. Sembra invisibile fino a quando non lasci che entri il sole. È solo in quel momento che realizzi che è dappertutto. Fintanto che continuiamo a far splendere quella luce, avremo la possibilità di pulire ovunque si posi. Ma dobbiamo rimanere vigili, perché è ancora nell’aria»".

Francesca Oggiano riprende la questione sostenendo che la violenza non deve e non può generare altra violenza ed è d’accordo con quanto affermato da Juan, tuttavia crede che “di fronte a certe ingiustizie non tutti riescano a manifestare pacificamente perché la voglia di farsi sentire è tanta. In più, condivide un intervento della deputata statunitense Alexandra Ocasio-Cortez la quale afferma che c’è bisogno di cambiamenti concreti affinché le cose non finiscano nel dimenticatoio come molto spesso accade. “Spero che, purtroppo, la morte di Floyd, sommata a tutte le altre, possa servire davvero da monito per cambiare veramente qualcosa”.

Simona Sora condivide il pensiero di Francesca: “comprendo la rabbia delle persone che manifestano ed è una rabbia pregressa. Negli Stati Uniti i diritti sono stati conquistati sia pacificamente sia con lotte più violente di quelle che stiamo vedendo oggi.” In più, Simona mette in luce il problema di fondo nelle votazioni negli Stati Uniti: “negli Stati Uniti si vota il martedì ed essendo un giorno lavorativo molti non riescono ad ottenere il permesso, per questo c’è sempre una grande astensione nelle votazioni americane e ciò non consente a tutti di esprimere il proprio voto e la propria scelta”.

Fabio Di Gioia si sofferma sulla gravità dell’uccisione di Floyd e sulle violenze poi innescate e afferma che “a Minneapolis ci sono stati casi precedenti come quello di un bambino ucciso da un agente di polizia e del padre ferito a seguito di sospetto di guida pericolosa". In più aggiunge che le proteste violente sono meno rispetto a quelle pacifiche e quello che colpisce è il non utilizzo di armi da fuoco come pistole che sarebbero facilmente recuperabili in ogni supermercato.

Sara Bergamini si è focalizzata sul sistema giudiziario americano e sulla gestione delle carceri. Ha affermato che “il sistema giudiziario americano non è egualitario perché tende a favorire sempre i ricchi, ammettendo il pagamento della cauzione, che non tutti si possono permettere. Nelle carceri si trovano molti ragazzi fermati per presunto possesso di droga, i quali rimangono lì per anni fino a quando non viene fissato il processo. La maggior parte dei processi non ha luogo e si tende ad accordarsi tramite patti. Negli Stati Uniti esiste una legge, la cosiddetta «Stand Your Ground» (che in italiano si traduce più o meno con «Difesa ad oltranza»): norma che consente ad una persona armata, di uccidere un presunto aggressore solo in base alla mera percezione di pericolo per la sua incolumità. Molti poliziotti americani si sono appellati a questa legge dopo aver commesso omicidi. Infine, il tredicesimo emendamento della Costituzione americana sancisce l’abolizione della schiavitù in America, ma ciò non vale quando la persona è in carcere, quindi ha perso la libertà e può essere trattata da schiava.”

Anche Simona Destro Castaniti ha posto l’attenzione sul sistema giudiziario degli Stati Uniti e ha fatto notare: “in America c’è la Corte interamericana dei diritti umani, ma gli Stati Uniti non hanno mai ratificato la Convenzione che ha istituito la Corte. Quindi, di fatto, gli americani sono giudici di se stessi, sono elusi da qualsiasi tipo di controllo superiore”. In più, Simona ha ripreso il concetto di protesta affermando che “un conto è la protesta pacifica un conto è la guerriglia”.

Sullo stesso concetto affermato da Sara e da Simona si sofferma Rebecca Scaglia: “è inconcepibile che non ci sia un ordinamento sovranazionale e penso che sia una scelta politica non farne parte. Negli Stati Uniti la popolazione afroamericana è pari al 6,5 % della popolazione totale ma il 42% della popolazione nelle carceri è afroamericana. Condivido il protestare pacificamente; mi sento di dire che protestare in modo violento è controproducente e chi lo fa vuole solo approfittare della situazione”.

Licia Signoroni allo stesso modo ha focalizzato la sua attenzione sul sistema giudiziario: “informandomi ho constatato che negli Stati Uniti un cittadino viene arrestato ogni 3 secondi e in totale gli arrestati sono 2,3 milioni, per questo parliamo di incarcerazione di massa. Per far fronte alla discriminazione razziale bisogna prima eliminare le falle nel sistema”.

Sofia Fontana, amante di Martin Luther King e Gandhi, afferma che “per ottenere i diritti non bisogna utilizzare la violenza. Martin Luther King affermava che «il nostro nemico lo possiamo sconfiggere, ma non con l’odio, con l’amore». Questa frase può sembrare utopica, ma riflettendo ci accorgiamo che non lo è. Odiando l’altro, infatti, non si fa che alimentare il circolo vizioso dell’odio. Secondo me dovremmo prendere tutti esempio da Martin Luther King, morto lottando peri diritti civili e per la sua visione della non violenza".

Marwa Fichera ha concentrato la propria attenzione sul fatto che “la discriminazione razziale non è iniziata con il caso di George Floyd e queste proteste non finiranno. Quando si è vittima di discriminazioni quello che si prova è l’annullamento della propria persona, del proprio essere e della propria anima. Si capisce che l’altro non ti vede come un essere umano con pari dignità. Questo è un problema che vivono tante persone in Europa e in Stati Uniti e il razzismo esiste sia a livello individuale che a livello istituzionale. Non è solo violenza fisica e verbale, ma anche un’occhiata, un gesto qualsiasi. Il razzismo a livello istituzionale riguarda e coinvolge la politica, il mondo giornalistico, scolastico, sanitario. Da donna nera affermo che il cambiamento sociale non può avvenire solo con un post su Instagram. Ognuno di noi può fare qualcosa nel suo piccolo: prima cosa è informarsi su cosa sia il razzismo e informare gli altri gruppi sociali, condividere risorse e comprendere il problema. Fa tanto condividere”.

Il caso di George Floyd, come tanti altri, deve porre l’attenzione su un aspetto fondamentale, il diritto alla vita, di cui nessuno deve essere privato. Occorre inoltre riflettere su quanto ancora ci sia da lavorare affinché le discriminazioni razziali vengano eliminate. Noi di "TrattaMI Bene" continueremo a confrontarci su questo tema.

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