Il piano di pace fra Israele e Palestina necessita di un sistema di sicurezza

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  Redazione
  15 marzo 2024
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A cura del Dott. Pierpaolo Piras, studioso di Geopolitica e componente del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS

Gerusalemme. La maggior parte degli israeliani sosterrebbe sicuramente un accordo se fosse sicuro che porterebbe loro una sicurezza duratura. Ma il loro attuale scetticismo è giustificato da preoccupazioni concrete e di natura urgente in relazione alla smilitarizzazione di quel territorio di confine alla luce della loro passata e recente esperienza storica con Gaza e con il Libano.

Washington intende utilizzare l’accordo sulla liberazione degli ostaggi per passare dalla guerra di Gaza a una più ampia svolta storica nella regione in mente ai rapporti tra Israele e Arabia Saudita, ottenendo così una vittoria di valenza strategica, determinante contro le forze politico-militari destabilizzanti nel Medio Oriente.

Con l’opinione pubblica sconvolta dall’elevato numero delle vittime civili palestinesi durante la guerra tra Israele e Hamas successiva all’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, gli USA ed i Sauditi hanno ora reso il movimento irreversibile verso la costituzione di uno Stato palestinese, come un necessario prerequisito per concretizzare tale svolta.

La cronologia

In questo periodo, gli Stati Uniti e diversi stati arabi stanno discutendo a ritmo serrato per sviluppare un piano di pace globale israelo-palestinese seguendo una precisa cronologia intesa alla creazione di uno stato palestinese formato e riconosciuto. Anche se si tratta, per il momento, di una fase del tutto preliminare e non è ancora sufficientemente chiaro se la Casa Bianca approverà le date specifiche proposte oppure un piano dettagliato per la costituzione di uno Stato palestinese.

Altri vorrebbero, invece, giungere ad una rapida dimostrazione dei progressi raggiunti, se non altro per smorzare l’elevata tensione attualmente vigente tra le parti in conflitto. I tempi per un accordo vero e proprio sono brevi a causa delle imminenti elezioni americane: l’amministrazione Biden vuole siglare un accordo, anche parziale, prima dell’estate, allorquando la campagna presidenziale sarà in pieno svolgimento.

Non sorprende che questo piano abbia turbato molti dirigenti israeliani, i quali ritengono che ciò ricompenserebbe effettivamente Hamas per il massacro degli israeliani.

Mentre in altre analisi, quelle in verità di minore successo sul piano diplomatico attuale, il governo Netanyahu e Hamas vengono presentati come gli unici veri ostacoli a un grande accordo che riconcilierebbe Israele e molti stati arabi guadagnando al contempo una soluzione con la formazione di due Stati.

L’incertezza israeliana alla base

Le riserve israeliane su uno Stato palestinese vanno ben oltre le esternazioni di Netanyahu e si basano su preoccupazioni più reali e urgenti rispetto al piano diplomatico, tra le quali il ruolo prioritario svolto dalla sicurezza sulle trattative.

Quest’ultima criticità deve essere affrontata più seriamente e approfonditamente, collegando i progressi legati alla formazione di uno Stato palestinese al rispetto di condivisi parametri relativi alla sicurezza, senza i quali diventa evidente che l’instabilità tra i due sarà destinata a rimanere costantemente incerta e conflittuale.

La mediazione americana legata all’azione del Segretario di stato americano, Antony Blinken, che non tenga conto di tali presupposti rischia di fraintendere grossolanamente sia la politica del premier Netanyahu che le preoccupazioni concrete della maggioranza degli israeliani in tutto lo spettro politico della Knesset, il parlamento israeliano.

I due stati

Il sostegno israeliano ai due stati, che godeva di una forte maggioranza nei giorni esaltanti del trattato di Oslo degli anni ’90, nel corso degli anni si è ridotto.

Il trauma nazionale causato dal massacro di 1.200 civili israeliani – alcuni decapitati, bruciati vivi e violentati – il 7 ottobre e la guerra che ne è seguita ha indurito ulteriormente l’opinione pubblica.

Già nel gennaio 2019, il 59% degli ebrei israeliani ha rifiutato la soluzione dei due Stati come parte di un pacchetto di garanzie statunitensi, normalizzazione dei rapporti con gli stati arabi e pacificazione militare a lungo termine.

Il sostegno a due Stati è legato alla percezione della sua fattibilità, mentre gli israeliani sono diventati sempre più scettici: ad un sondaggio di un mese prima del 7 ottobre, solo il 32% degli ebrei israeliani pensava che Israele ed uno Stato palestinese potessero coesistere pacificamente. Oggi, si registra un calo pari al 14% di tali consensi.

La ragione è solo ideologica ?

La ragione principale di questa opposizione è più pratica che ideologica. Molti israeliani sostengono l’idea di un compromesso per giungere alla condizione di pace, ma sono cauti nell’abbandonare lo status quo senza un accordo con un partner del quale si fidano – a loro avviso, l’unico modo per garantire una vera sicurezza e porre effettivamente fine al conflitto.

Mentre una minoranza devota di israeliani vede la Cisgiordania come un patrimonio di origini bibliche che pertanto non può essere ceduto, nel gennaio 2023 oltre il 60% di essi era disposto ad accettare il reciproco riconoscimento israelo-palestinese nonché delle legittime rivendicazioni l’uno dell’altro, la fine del conflitto e la fine delle rivendicazioni future. Il tutto nell’ambito di una soluzione certa e chiara a due Stati.

Se gli israeliani pensassero che un accordo funzionerebbe e la maggioranza alla Knesset lo sosterrebbe, capirebbero anche che in caso di successo la soluzione dei due Stati è il modo migliore, anche in senso razionale, per garantire il futuro di Israele come Stato ebraico e democratico.

Per ora, però, la maggior parte degli israeliani associa due stati a un profondo rischio per la sicurezza e preferisce lo status quo, nonostante i pericoli che questo comporta.

Purtroppo, questa preoccupazione è ben suffragata dai precedenti storici: negli ultimi 30 anni, il ritiro israeliano dall’arena palestinese ha quasi sempre portato ad atti di violenza, anche estrema, e mai ad una pace strutturata e garantita come tale.

Sebbene Israele si sia ritirata dal territorio della Cisgiordania durante il trattato di Oslo, la seconda Intifada scoppiò subito dopo la rottura dei colloqui di pace guidati dagli Stati Uniti nel 2000.

Oltre 1.000 israeliani furono uccisi, molti dei quali in attentati suicidi. Il ritiro da Gaza nel 2005 ha visto Hamas sfrattare da lì in pochi giorni nel 2007 la principale Autorità Palestinese (AP) con un piccolo nucleo di combattenti pesantemente armati, per poi trascorrere 16 anni sviluppando fabbriche di razzi e un’estesa fortezza sotterranea senza alcun ostacolo.

Questo elemento storico ha giocato un ruolo cruciale. Quando la situazione si è complicata, nessuno ha potuto o voluto impedire ad Hamas di superare in astuzia e forza l’Autorità Palestinese.

Da allora Israele convive con il controllo di Hamas. L'anno 2007 non è stato un momento qualsiasi: piuttosto, ha cambiato la traiettoria stessa del controllo di Gaza.

L’area sud-libanese

Al di là dell’arena israelo-palestinese, il ritiro dalla zona di sicurezza israeliana nel sud del Libano non ha portato la pace con Hezbollah. Invece, ha permesso a questo gruppo radicale di consolidare il controllo nonostante la guerra con Israele nel 2006, e di ignorare la risoluzione 1701 delle Nazioni Unite per sviluppare indisturbata un arsenale valutato in 150.000 razzi e missili, alcuni a guida di precisione, e di schierare 6.000 commando “Radwan” vicino al confine: un secondo punto di svolta critico rispetto che Israele non ha recuperato.

Israele è stato costretto a evacuare 60.000-80.000 civili dalla regione di confine settentrionale dello Stato poco dopo il 7 ottobre per paura di un attacco analogo.

Il meccanismo di sicurezza

I fallimenti di Gaza e del Libano, sottolineati dalla continua e incessante negazione del diritto di Israele persino ad esistere da parte di Hamas e Hezbollah, hanno mandato in frantumi la premessa – fondamentale per qualsiasi accordo di pace – secondo il quale il ritiro rende Israele più sicuro.

La lezione per gli israeliani è semplice: senza un’attuazione duratura e sostanziale della smilitarizzazione di un futuro Stato palestinese, qualsiasi soluzione politica al conflitto sarà permanentemente minacciata.

A dire il vero, anche i palestinesi hanno alcune ragioni per diffidare di Israele. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha pubblicamente appoggiato la soluzione dei due Stati già nel 2009, ma in seguito vi ha rinunciato, e diverse figure chiave del suo gabinetto ministeriale continuano ad opporsi ad uno Stato palestinese autonomo per motivi prevalentemente ideologici.

La continua espansione degli insediamenti ha anche danneggiato la percezione palestinese della fattibilità di due stati.

Per convincere la maggioranza degli israeliani a sostenere la soluzione dei due Stati e a evacuare gli insediamenti della Cisgiordania, deve esistere un meccanismo di sicurezza per garantire che lo Stato palestinese rimanga smilitarizzato. I principi del tutto vaghi sentiti finora non sono stati sufficienti.

Garantire il successo di un futuro Stato palestinese richiederà la correzione dell’asimmetria esistente tra i forti protagonisti non statali e gli stati più deboli politicamente e militarmente, che a loro volta provoca instabilità cronica in molti paesi del Medio Oriente.

Il primo passo - che Israele sta già facendo - dovrà essere l’eliminazione delle venefiche e irriducibili capacità militari di Hamas e indebolirlo quanto basta da poter essere contenuto dalle forze di sicurezza palestinesi.

Quindi, un futuro Stato palestinese deve garantire dignità e sovranità ai palestinesi ed essere abbastanza forte da riuscire ad affrontare protagonisti ostinati ed estremisti come Hamas, senza militarizzare e rappresentare una minaccia alla sicurezza di Israele.

Si tratta di un equilibrio strategico e geopolitico complesso da raggiungere e privo di parallelismi internazionali. Ma non è giudicato impossibile.

Le precedenti proposte di smilitarizzazione delineavano uno Stato palestinese privo di aviazione, mezzi corazzati o armi pesanti, ma dotato di numerose forze di sicurezza interna, polizia e antiterrorismo per il mantenimento dell’ordine interno.

Ovviamente, l’intelligence israelo-palestinese e la cooperazione operativa occasionale continuerebbero. L’ingrediente chiave è la costituzione di una terza parte capace di garantire contemporaneamente la smilitarizzazione e la sopravvivenza del nascente Stato palestinese.

Questa terza parte supervisionerebbe la sicurezza delle frontiere per la prevenzione del contrabbando di armi, la verifica della smilitarizzazione controllando le fabbriche di armi e altro ancora.

Dopotutto, gli Stati Uniti vogliono che uno Stato palestinese assomigli grosso modo al Costa Rica, ma usando buone ragioni, radicate nell’esperienza.

L’Iran in miniatura

Israele teme invece che un ritiro non sufficientemente attento possa dare origine ad uno Stato palestinese che assomigli piuttosto a un ulteriore quanto pericoloso Iran in miniatura.

I sei stati arabi che farebbero pace con Israele potrebbero teoricamente svolgere questa funzione, ma non ci sono abbastanza prove che vogliano essere visti come coloro che usano la forza contro i loro compagni arabi. E se la maggior parte degli stati arabi non condannasse nemmeno le atrocità del 7 ottobre, quanto seriamente varrebbero le loro garanzie?

Senza una credibile coalizione di stati importanti, positivi e volenterosi, pronti ad affrontare i malevoli protagonisti della regione, gli Stati Uniti o la NATO sembrano essere le uniche opzioni aventi un ruolo efficace.

A ben guardare, già oggi gli Stati Uniti mantengono una notevole presenza militare in dozzine di paesi come la Germania e la Corea del Sud, realizzata su loro richiesta e senza erodere la loro sovranità.

L’idea di schierare truppe americane o della NATO non sarà attraente sia per gli americani che per gli israeliani.

Gli USA vogliono evitare pericolosi coinvolgimenti stranieri e gli israeliani non hanno alcun desiderio di complicare le relazioni USA-Israele: sono bensì orgogliosi che Israele si difenda da solo e non vogliono che le vite americane siano poste a rischio.

Israele potrebbe fungere da garante iniziale e poi alla fine cedere l’autorità, poiché vorrà avere la possibilità di intervenire se l’Autorità Palestinese si dimostrerà incapace di contenere Hamas.

Tuttavia, ciò verrebbe probabilmente interpretato come un’estensione dell’occupazione militare e potrebbe risultare politicamente inaccettabile. Da qui la necessità di intercorrere una fase di transizione.

Questi dettagli critici non dovrebbero oscurare in ogni caso il punto principale.

La storia recente dimostra che qualsiasi discussione su una soluzione a due Stati, senza un credibile e verificabile meccanismo di applicazione che la accompagni, è una ricetta destinata ad un sicuro fallimento.

Gli Stati Uniti devono premere per uno Stato palestinese che funzioni davvero: altrimenti Hamas e altri estremisti violenti lo supereranno e il 7 ottobre avrà modo di ripetersi.

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