Dopo l’esplosione dei cercapersone e dei walkie talkie in Libano, rispettivamente il 18 e il 19 settembre, il conflitto al confine tra Israele e Libano si è riacceso come non accadeva ormai da anni, tra bombardamenti da un lato all’altro e minacce di operazioni di terra.
È stata con la paura profonda di un’escalation in Medio Oriente, per molti ormai chiaramente visibile all’orizzonte, che i rappresentanti delle Nazioni Unite si sono incontrati a New York in questi giorni; ed è proprio in seno all’ONU che la politica americana verso l’alleato israeliano sembra abbia avuto un cambio di rotta.
Il 25 settembre, il Segretario di Stato americano Anthony Blinken, intervistato dai giornalisti di ABC News, ha commentato così la situazione in Medio Oriente: “A partire dall’8 Ottobre dell’anno scorso, Hezbollah, dal sud del Libano, ha cominciato a sparare razzi e missili verso Israele. Le persone che vivevano al confine israeliano settentrionale sono dovute scappare dalle loro case, circa 70mila, e Israele, comprensibilmente, legittimamente, vuole un ambiente sicuro che permetta ai suoi cittadini di poter tornare a casa”. “Il modo migliore per sistemare le cose è attraverso la diplomazia” ha aggiunto, “un accordo per far arretrare le truppe, permettendo agli israeliani di tornare alle proprie case, come ai libanesi di tornare nelle loro abitazioni del Libano meridionale. Vogliamo che le persone tornino a casa. Il modo migliore per farlo non è attraverso la guerra, ma con la diplomazia”.
La comunità internazionale ha però presentato una posizione diversa in queste giornate di permanenza a New York, emersa fin dalla cena del 24 sera tra i rappresentanti dei Paesi del G7, durante la quale il Presidente francese, Emmanuel Macron, e il Segretario di Stato per gli Affari Esteri britannico, David Lammy, hanno pubblicamente appoggiato la necessità di un accordo per il cessate il fuoco nel confine tra Israele e Libano. Gli Stati Uniti, invece, si erano detti alla ricerca di una soluzione diversa, più complessa, come raccontano le parole del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, intervistato alla ABC television, dove, pur avendo fatto intendere di considerare una guerra totale impossibile, aveva aggiunto: “Noi siamo ancora in gioco per cercare una soluzione che possa fondamentalmente cambiare l’intera regione”.
È stata proprio da questa volontà congiunta di Regno Unito e Francia che, durante la seduta del Consiglio di Sicurezza, è stata avanzata una richiesta di cessate il fuoco nel confine libanese. Questa richiesta, però, è caduta in uno stallo proprio a causa delle obiezioni avanzate dai rappresentanti statunitensi.
Diversa è stata la reazione dell’opinione pubblica americana, che alla notizia dell’arrivo del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu a New York il 24, in attesa del suo discorso all’Assemblea Generale ONU, si è organizzata in cortei per protestare contro il politico israeliano. Esplicativa è stata l’organizzazione di un gruppo di protestanti, formato da una cinquantina di persone, che professandosi coalizione ebrea e israeliana ha presentato posizioni anti-occupazione e anti-guerra: “Basta uccidere bambini, finisci la guerra, firma l’accordo, porta a casa gli ostaggi”, “Non c’è soluzione militare” gridava lo speaker. Quando il nome del Primo Ministro israeliano spuntava nei discorsi, un solo grido si alzava dalla folla: “Vergogna”. Questa posizione è stata riconfermata anche da Phylisa Wisdom, direttrice esecutiva della New York Jewish Agenda: “Non c’è nessuna soluzione se non quella diplomatica, e noi faremo modo che questo messaggio arrivi fino a Netanyahu, al nostro governo, a tutti gli alleati di una pace che metta al primo posto le vite di israeliani e palestinesi”.
Anche i protestanti pro-palestina non sono rimasti in silenzio: schierati davanti alla Libreria Pubblica di New York, sventolando bandiere palestinesi e sostenendo cartelli con scritto “Free Palestine”, si sono diretti anch’essi verso i palazzi dell’ONU.
La macchina diplomatica si è quindi messa in moto, alimentata dalle parole del Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres “Hell is breaking loose”, e il 26 settembre Joe Biden e la controparte francese Emmanuel Macron hanno presentato congiuntamente una proposta di cessate il fuoco, seppur con una caratteristica particolare: la temporaneità, cioè 21 giorni. I due leader, che si sono incontrati ai margini dell’Assemblea Generale dell’ONU, hanno dichiarato di aver lavorato ad un cessate il fuoco temporaneo per “dare una chance alla diplomazia di riuscire a evitare ulteriori escalation”. La temporaneità non è un aspetto da sottovalutare: permette infatti agli Stati Uniti di non mettere formalmente sullo stesso piano Israele e Hezbollah, considerati dal governo americano rispettivamente stato alleato ed ente terroristico.
Con la firma di Regno Unito, Australia, Canada, Unione Europea, Germania, Italia, Giappone, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Quatar, la proposta recita: “la situazione tra Libano e Israele dall’8 ottobre 2023 è intollerabile e presenta un rischio inaccettabile allo scoppio di un’escalation regionale più ampia. Questo non è negli interessi di nessuno, né del popolo israeliano né di quello libanese”. Secondo quanto dichiarato dal rappresentate americano, la finestra temporale di 21 giorni è stata scelta per permettere l’apertura di uno spazio di manovra per negoziare un accordo duraturo tra i due stati e permettere ai civili di tornare nelle proprie abitazioni senza dover temere ulteriori violenze o un altro “7 ottobre” in futuro. Robert Wood, inviato americano all’ONU, ha però insistito nello specificare che l’origine del conflitto sia da ricondursi alla scelta di Hezbollah di rompere la pace duratura che si era venuta a creare in quel confine.
La proposta del cessate il fuoco ha ricevuto subito ingente supporto, come da parte del Ministro degli Affari Esteri libanese Abdallah Bouhabib, che ha sostenuto che il suo Paese sta sopportando una crisi che rischia di “minarne la vera esistenza”. “La diplomazia non è sempre facile” ha dichiarato, “ma è l’unico modo per salvare vite innocenti. Il Libano vede l’iniziativa americana-francese come un’opportunità per guadagnare momentum, per fare passi in avanti verso la soluzione della crisi”.
Ma alla fine Netanyahu è arrivato a New York e tra le proteste, sia dentro che fuori il Palazzo di Vetro, ha parlato davanti all’Assemblea Generale dell’ONU: “Continueremo a colpire Hezbollah a piena forza” ha dichiarato mostrando due diverse cartine geografiche, esplicative delle intenzioni del capo di stato israeliano, “e non ci fermeremo finché non raggiungeremo il nostro scopo, primo fra tutti il ritorno dei residente nelle loro case in piena sicurezza”.
E mentre gli altri Stati firmatari hanno interrogato gli Stati Uniti sul perché la proposta che avevano preparato sia stata accolta con una così fredda accoglienza, il Portavoce alla Sicurezza Nazionale americano John Kirby ha puntualizzato: “Non è stato un tentativo alla cieca. È stato fatto dopo attente consultazioni, non solo coi Paesi firmatari, ma anche con Israele. Avevamo ogni ragione di credere che […] gli israeliani fossero a piena conoscenza di ogni lato della proposta. Non l’avremmo fatto se non avessimo creduto sarebbe stata ricevuta con la serietà con la quale è stata composta”.
Una crisi quindi sempre più accesa, un’alleanza che appare sempre più fragile, Netanyahu sempre più determinato: “Non c’è nessun posto in Iran dove le lunghe braccia di Israele non possano arrivare, ed è una verità in tutto il Medio Oriente” ha dichiarato durante il suo intervento alle Nazioni Unite.
“Vinceremo”
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L'Autore
Lorenzo Graziani
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