Nicolas Maduro ha giurato il 10 gennaio 2025 per il suo terzo mandato come Presidente del Venezuela, in una giornata che più che di giubilo e festeggiamenti, è stata segnata dalla paranoia e dalla ricerca del controllo ossessivo sulla società civile. Alle elezioni del 28 luglio scorso infatti, Maduro, secondo le opposizioni e parte della comunità internazionale, ha perso.
Questo lo sappiamo perchè, al contrario del Consiglio nazionale elettorale che ha dichiarato la vittoria dell’erede di Chavez, le opposizioni hanno raccolto i report forniti dalla macchinette elettorali, dimostrando la vittoria delle opposizioni e di Edmundo Gonzàlez Urrutia con il 67 percento dei voti. E lo sappiamo anche perchè il Venezuela ha ereditato proprio da Chavez uno dei sistemi più trasparenti di voto. Perchè nonostante il “Comandante” abbia snaturato la democrazia venezuelana fino a non renderla definibile come tale, godeva di un vasto consenso popolare, dovuto anche in buona parte alla ricchezza di petrolio nel Paese ed alla contingenza economica. Questo gli ha permesso di mantenere legittimità, e di non avere alcun bisogno di truccare il voto. Ma Maduro non è mai stato Chavez, e non è mai realmente riuscito a raggiungere i livelli di popolarità del suo predecessore.
E quando il popolo venezuelano è stato chiamato a scegliere il futuro del proprio Paese, la scorsa estate, ha puntato nettamente verso un cambiamento. Cambiamento che però gli è stato negato. Prima che arrivassero i risultati ci si chiedeva come avrebbe fatto Maduro a restare alla presidenza del Paese, visto che gli exit poll davano in ampio vantaggio Urrutia e che la giornata del voto era trascorsa senza incidenti particolari. La risposta, ribadita negli scorsi mesi, è stata quella di negare di aver perso, senza fornire alcuna prova della vittoria.
Ed alle proteste nelle piazze si è risposto con la repressione e gli arresti nei confronti di manifestanti e giornalisti, oltre che ovviamente degli oppositori politici.
Urrutia, fra l’alternativa del carcere e l’esilio, ha scelto il secondo, fuggendo verso la Spagna che gli ha concesso l’asilo politico. In patria è rimasta la leader del partito di opposizione "Vente Venezuela", María Corina Machado, che aveva lasciato ad Urrutia la candidatura dopo essere stata squalificata dalle elezioni. E anche lei è stata recentemente protagonista di una vicenda che evidenzia le difficoltà del regime di fare i conti con la realtà.
Dopo 133 giorni in cui è rimasta nascosta, continuando a criticare attraverso i social Maduro, Machado è tornata in piazza il giorno prima del giuramento, alimentando la paura del presidente. A questo si è risposto incarcerandola per qualche ora, per poi decidere di lasciarla nuovamente libera. L’arresto è stato però negato dalle forze di polizia, e l’oppositrice è stata accusata di aver inventato l’accaduto perchè in cerca di pubblicità.
È in questo contesto che si è arrivati al 10 gennaio ed al giuramento di Maduro, che gli assicura il terzo mandato consecutivo, fino al 2031. Con un Paese sigillato e con una taglia di 100 mila dollari per chiunque potesse fornire informazioni sull’annunciato ritorno in patria di Urrutia, che alla fine sembra aver deciso di attendere un momento migliore per reclamare il cambiamento richiesto dai venezuelani. Cambiamento che appare necessario, visto che Maduro riassume nuovamente il controllo di un Paese che è avviato verso il declino, che vive una profonda crisi che spinge sempre più venezuelani a cercare fortuna altrove.
Maduro sembra però esser convinto che valga la pena barattare il benessere del Venezuela con il mantenimento del potere, puntando non tanto sul consenso tra la popolazione quanto su quello delle forze militari. Alla richiesta di cambiamento, il presidente ha infatti risposto anticipando il Natale, nel tentativo di frenare le tensioni interne al Paese. Tentativo che però appare fallito guardando le immagini che provengono dalle piazze di Caracas.
Adesso il leader venezuelano si trova quindi sempre più isolato dalla comunità internazionale, potendo però contare sull’appoggio di una serie di Stati che condividono con Maduro la fiducia nella democrazia. Mentre gli Stati Uniti annunciavano di aver fissato una taglia di 25 milioni di dollari per qualsiasi informazione che porti all’arresto di Maduro, e l’Unione Europea raddoppiava le sanzioni esistenti, fra i pochi messaggi di congratulazioni figuravano quelli di altri leader in giro per il mondo che con la realtà hanno un rapporto complesso. Ad esempio Vladimir Putin, che si è congratulato nuovamente con il presidente venezuelano, dopo che nel luglio scorso aveva dichiarato di essere fiducioso “che la sua attività come capo di Stato continuerà a contribuire al loro progressivo sviluppo in tutti i settori”. Ma soprattutto che “ciò soddisfa pienamente gli interessi dei nostri popoli ed è in linea con la costruzione di un ordine mondiale più giusto e democratico”.
Per quanto appaia paradossale, di democrazia ha parlato lo stesso Maduro l’8 gennaio scorso dinanzi al Parlamento, annunciando di voler avviare una serie di riforme costituzionali. L’obiettivo sarebbe quello di trasformare “questo Stato in uno stato davvero democratico, del popolo per il popolo e con il popolo”.
Anche se si provasse a tenere a mente che la parola “democrazia” assume diversi significati in ogni cultura, è impossibile non vedere lo scontro tra le parole del Presidente e la realtà della vita politica venezuelana di oggi. Ma è pur sempre vero che lo sport preferito dei leader autoritari è sempre stato quello di distorcere la realtà in modo che corrisponda al proprio volere.
“Se vinco bene, altrimenti vinco lo stesso” sembra dire Maduro alle opposizioni, che adesso si trovano nella difficile posizione di dover tentare di mantenere viva la speranza nel popolo venezuelano. Già le elezioni del 2018 erano state contestate, ma alla fine l’insieme di una retorica populista e la repressione gli avevano permesso di rimanere al potere.
Il rischio déjà-vu è forte, così come è forte il rischio che la pressione internazionale non ottenga il risultato sperato, ovvero l’immagine di Edmundo Gonzàlez Urrutia che giura a Caracas in un’atmosfera diversa, fatta di festeggiamenti reali.
Il regime di Nicolas Maduro fa parte infatti di quello che Anne Applebaum, nel suo ultimo saggio “Autocrazie”, definisce Autocrazia Spa, ovvero una rete composta da Stati autoritari che come unico interesse comune condividono la volontà di rimanere al potere e di arricchirsi, privando i cittadini della capacità di incidere in alcun modo sui cambiamenti della società. Questo significa che nei momenti di difficoltà, esiste una rete di supporto. E quindi Maduro è isolato, ma in questo isolamento paradossalmente non è solo. Al suo fianco c’è ad esempio la Russia che nel corso degli anni ha concesso ingenti prestiti al Venezuela, ed ha investito nella sua industria del petrolio.
Questo non vuol dire che il Paese riuscirà ad attraversare questa difficile fase della sua storia grazie all’aiuto dei suoi partner, che peraltro come nel caso di Vladimir Putin, si trovano impegnati su vari fronti. Ma questo evidentemente non è il principale interesse di leader come Nicolas Maduro.
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L'Autore
Giorgio Giardino
Giorgio Giardino, classe 1998, ha di recente conseguito la laurea magistrale in Politiche europee ed internazionali presso l'Università cattolica del Sacro Cuore discutendo un tesi dal titolo "La libertà di espressione nel mondo online: stato dell'arte e prospettive". Da sempre interessato a tematiche riguardanti i diritti fondamentali e le relazioni internazionali, ricopre all'interno di MI la carica di caporedattore per la sezione Diritti Umani.
Giorgio Giardino, class 1998, recently obtained a master's degree in European and international policies at Università Cattolica del Sacro Cuore with a thesis entitled "Freedom of expression in the online world: state of the art and perspectives". Always interested in issues concerning fundamental rights and international relations, he holds the position of Editor-in-Chief of the Human Rights team.
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