Israele e Turchia: due paesi al bivio

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  Michele Magistretti
  29 novembre 2023
  4 minuti, 19 secondi

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Israele e Turchia stanno vivendo una lunga fase di sconvolgimenti sociopolitici di natura interna. Entrambi i paesi hanno mutato pelle e i propri connotati caratteristici dalla fondazione. Pur nella diversità, hanno intrapreso un nuovo percorso da circa due decadi. Un percorso che rischia di portare due grandi repubbliche alla rovina.

Vediamo quindi quali sono le differenze e le similitudini nel cambiamento di due attori fondamentali dello scenario mediorientale.

In lotta per la propria anima

I parallelismi storici e politici sono sempre un esercizio da svolgere con cautela, facendo sempre le dovute distinzioni e provando a rimarcare la particolarità di ogni fenomeno. Ciononostante, è fuori di dubbio il processo di cambiamento in atto nelle società e nella politica israeliana e turca.

Entrambi i paesi sono stati fondati da personaggi e su ideologie letteralmente contrapposte a quelle che hanno ormai monopolizzato il panorama politico odierno. Israele è lontano dai tempi del sionismo socialista del fondatore Ben Gurion e la Turchia sta lentamente perdendo i connotati voluti dal “Padre dei Turchi”, Mustafa Kemal.

Come tutti i fenomeni, questo processo di cambiamento non è stato repentino e gli stessi protettori del vecchio ordine hanno responsabilità storiche e le loro mancanze hanno contribuito ad alimentare la forza dei nemici del sistema che volevano proteggere.

In entrambi i paesi, nelle ultime tre decadi hanno avuto la loro rivincita le forze più conservatrici, se non addirittura reazionarie, dello spettro politico. Dopo decenni di golpe militari e governi instabili e inefficienti dei conservatori, nel 2002 è salito al potere Recep Tayyip Erdoğan. Il leader del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo ha risollevato l’economia del paese, ma contemporaneamente ha iniziato a cambiare la struttura politica interna provando anche a modificare la fibra sociale della nazione, in senso più conservatore e religioso. Pur non potendo “disconoscere” la figura di Atatürk, l’obbiettivo di Erdogan è quello di superarlo proponendosi come nuovo protettore del popolo e pater patriae. Parallelamente, tra gli sconvolgimenti a cavallo degli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo, in Israele fa la sua ribalta il politico conservatore Benjamin Netanyahu, che promuove l’immagine di uomo forte pronto a guidare il paese fuori dalle acque tormentante che stava attraversando.

Entrambi questi due politici hanno iniziato la propria carriera politica proponendosi come innovatori nel campo conservatore, finendo poi però per plasmare la torsione autoritaria nei propri paesi e cementando l’alleanza con forze reazionarie o spostandosi essi stessi sempre più a destra. Il leader turco ha amplificato il messaggio identitario islamico, mentre smantellava i pilastri del kemalismo, una delle cui famose sei frecce era proprio il secolarismo. “Re Bibi” invece ha minato i pilastri della democrazia israeliana alleandosi prima con le fazioni ultraortodosse e poi aprendo le porte dell’esecutivo all’estrema destra etnica e etnico religiosa di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.

I rischi futuri

Tuttavia, non si può negare che parte del successo ottenuto da questi leader sia dovuto anche alle incapacità, incoerenze e alla mancanza di coraggio delle rispettive opposizioni. Inoltre, in entrambi i paesi le élite laiche sembrano ancora faticare nella comprensione dei propri connazionali. Leader come Erdoğan e Netanyahu hanno mostrato un notevole acume politico nel saper percepire le ansie e le priorità di larga parte delle classi popolari e di parte della classe media. I kemalisti turchi e le correnti laiche di Israele hanno difficoltà ad uscire dalle proprie “enclavi” territoriali e culturali per provare ad immergersi nelle rispettive società. In entrambi i casi, questa incomunicabilità, questa mancata capacità di comprensione stanno creando uno iato incolmabile all’interno dello stesso popolo. Inoltre, le opposizioni non riescono a dare l’impressione di una vera unità di intenti, se non quella di voler provare a spodestare l’avversario comune.

Infatti, i recenti appuntamenti elettorali hanno confermato ancora una volta la vittoria delle coalizioni capitanate dai due king maker dei rispettivi paesi. Ad oggi, l’opposizione israeliana ha dato segni quantomeno di maggiore vitalità, mantenendo per mesi le manifestazioni di piazza contro la riforma della giustizia avanzata dal governo di Bibi. Mentre l’opposizione turca sembra avanzare verso le prossime amministrative senza un vero slancio energico, ancora tramortita dalla sconfitta delle presidenziali. Entrambi i paesi corrono il rischio di veder fuggire il proprio capitale umano, drenando così l’economia e il panorama culturale delle proprie energie migliori. In questo modo, il ciclo di torsione autoritaria e l’eventuale discesa verso la repubblica islamica da una parte e verso lo stato razziale dall’altra diventano prospettive ancora più concrete.

Un vero turning point per Israele è rappresentato dall’attuale conflitto con Hamas, che potrebbe rivelarsi la tomba delle aspirazioni politiche di Benjamin Netanyahu o il preludio di una ulteriore torsione autoritaria, coadiuvata dalle fazioni radicale galvanizzate dal conflitto. In Turchia invece le opposizioni e la società civile devono ancora organizzarsi per sferrare una decisiva offensiva politica al Sultano.


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Michele Magistretti

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