La Cina rimpatria i disertori nordcoreani

Una questione umanitaria rischia di trasformarsi in un caso diplomatico

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  Chiara Giovannoni
  29 ottobre 2023
  4 minuti, 15 secondi

Per i cittadini nordcoreani disertare è una scelta che implica rischi enormi per la propria sicurezza e per quella dei familiari rimasti in Corea del Nord. Nonostante ciò, più di 10mila persone sono fuggite nel corso degli anni dalla dura repressione messa in atto dalla dittatura e dalla povertà. Malgrado attraversando il confine cinese i disertori rischino l’arresto e la deportazione, la Cina rappresenta la prima tappa per coloro che vogliono fuggire da Pyongyang. Il territorio cinese infatti, permette di raggiungere, in un secondo momento, la Mongolia e paesi del sudest asiatico.

Il 13 ottobre il ministero dell’Unificazione sudcoreano ha confermato il rimpatrio da parte del governo cinese di centinaia di rifugiati nordcoreani. Sebbene il numero sembri aggirarsi intorno alle 600 persone, al momento non è ancora possibile confermare quanti profughi siano stati espulsi. Secondo il portavoce del ministero dell’Unificazione Koo Byoung-sam, la Corea del Sud avrebbe esortato la Cina a collaborare per impedire il rimpatrio dei disertori. Quest’ultima ha negato le accuse e il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin, ha affermato che il paese mantiene da sempre un atteggiamento responsabile, gestendo il passaggio di frontiera secondo la legge.

I dati raccolti dal Database Center for North Korean Human Rights (NKDB) mostrano che fino ad agosto 2023 si sono contati 8 mila casi di disertori nordcoreani rimpatriati con la forza. Di questi, il 98% sono stati attuati dalla Cina. Le donne, che rappresentano la maggior parte dei rimpatriati, corrono il rischio di essere detenute in campi di lavoro forzati oltre a dover affrontare torture, abusi sessuali e sparizioni forzate. Pyongyang considera chi lascia il paese senza permesso un traditore della nazione, atto punibile con la pena di morte o con la detenzione in campi di lavoro forzati. Per questo motivo, i disertori dovrebbero essere considerati come rifugiati sur place, ossia quelle persone che diventano rifugiati dopo aver lasciato il proprio paese a prescindere dalle motivazioni della fuga.

Il principio di non-refoulement, ossia non respingimento, proibisce agli Stati il trasferimento di un individuo in un paese dove possa correre il rischio di persecuzione o di grave violazione dei diritti umani. Questo principio costituisce una delle più forti limitazioni al diritto degli Stati di controllare gli ingressi nel proprio paese. Pechino è parte della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati (1951) e della Convenzione contro la Tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1984). Quest’ultima, all’interno dell’Art.3 specifica come “Nessuno Stato Parte espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Stato qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura”. Nel 2013 la Commissione d’inchiesta sui crimini contro l’umanità in atto in Corea aveva avvertito il governo cinese che gli ufficiali coinvolti nei rimpatri forzati correvano il rischio di essere accusati di crimini contro l’umanità.

La Cina è firmataria delle precedenti convenzioni e della Convenzione di Ginevra del 1951 ma, nonostante questo, non concede ai rifugiati il diritto di asilo. Questo perché secondo un accordo bilaterale del 1986 con la Corea del Nord, i nordcoreani non hanno il permesso di chiedere asilo o una nuova sistemazione in Cina. Secondo questi accordi, infatti, la Cina si impegna a rimpatriare coloro che vengono definiti dalla legislazione cinese come “immigrati economici illegali”.

Negli ultimi anni si è evidenziato una riduzione nel numero dei defectors, ossia i disertori. Questo calo è dovuto principalmente alle politiche di chiusura e contenimento necessarie alla crisi sanitaria globale. I disertori nordcoreani che vivono in Cina negli ultimi anni si sono visti spesso negate le possibilità di vaccinarsi contro il Covid-19 in quanto non in possesso, essendo rifugiati, di documenti d’identità validi. Le donne e le bambine rimangono vittime di traffici a fini di sfruttamento sessuale perpetrato nella zona chiamata Red Zone, l’area che confina con la Corea del Nord. Chi raggiunge la Cina vive in clandestinità, senza documenti e senza nessun accesso all’assistenza sanitaria oltre a rimanere spesso vittima del traffico di esseri umani. Questa gestione permette a Pechino di non rilasciare informazioni sui nord-coreani presenti sul suo territorio. In più, la legge sui confini terrestri adottata dalla Repubblica Popolare Cinese in vigore dal primo gennaio 2022 ha aggravato una situazione già molto complicata. Questa legge, che inizialmente era stata concepita per controllare il confine con l’India, è andata in realtà ad agire nei confronti di coloro che tentano di attraverso illegalmente il confine tra la Corea del Nord e la Repubblica Popolare Cinese. Da Hunchun a Nanping, la Cina sta rimpatriando disertori nordcoreani rischiando di trasformare una questione umanitaria in un caso diplomatico tra Cina e Corea del Nord che potrebbe complicare il dialogo tra i due paesi.

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Immagine: https://unsplash.com/it/foto/una-recinzione-di-filo-spinato-XJp8R7wimhg

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L'Autore

Chiara Giovannoni

Chiara Giovannoni, classe 2000, è laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Bologna. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Strategie Culturali per la Cooperazione e lo sviluppo presso l’Università Roma3.

Interessata alle relazioni internazionali, in particolare alla dimensione dei diritti umani e alla cooperazione.

E’ volontaria presso un’organizzazione no profit che si occupa dei diritti dei minori in varie aree del mondo.

In Mondo Internazionale ricopre la carica di autrice per l’area tematica Diritti Umani.

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Diritti Umani

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Cina Nord Corea Disertori Non-respingimento