La Cina sferra un nuovo attacco alla democrazia di Hong Kong

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  Redazione
  01 luglio 2020
  5 minuti

A cura di Margherita Camurri

Sezione: Asia ed Estremo Oriente

A più di un anno dall’inizio delle proteste contro la legge sull'estradizione ad Hong Kong, scemate però durante la pandemia del Coronavirus, il Governo centrale cinese ha sconvolto ancora una volta la comunità internazionale e i cittadini pro-democratici di Hong Kong approvando una nuova legge sulla sicurezza che danneggia ulteriormente l’autonomia della Regione Amministrativa Speciale.

Hong Kong fu una colonia britannica fino al 1997, anno in cui ritornò sotto il controllo della Repubblica Popolare Cinese. Da allora ha operato secondo la formula ‘un Paese, due sistemi’, che prevede il riconoscimento di un'unica sovranità cinese garantendo però diverse libertà civili all’ex colonia britannica e poteri legislativi e giudiziari ‘indipendenti’. Tuttavia, il Partito Comunista Cinese (PCC) negli ultimi anni ha esercitato una crescente influenza sul sistema politico di Hong Kong. Ciò è stato reso possibile anche grazie al fatto che la Legge Fondamentale, la mini-Costituzione che regola i rapporti tra Pechino e Hong Kong, presenta diverse ambiguità. L’Articolo 5 è il maggiore oggetto di dibattito, in quanto stabilisce che ‘il precedente sistema e stile di vita capitalista rimarranno inalterati per 50 anni’ senza proporre però alcuna soluzione su quanto accadrà nel 2047, allo scadere della validità dell’articolo. Inoltre, nonostante l’Articolo 68 dichiari che ‘l’obbiettivo ultimo è l’elezione di tutti i membri dell’Assemblea Legislativa tramite suffragio universale’, non sembrano esserci stati progressi su come realizzare questa promessa. Al momento solo metà del Consiglio Legislativo è infatti eletto direttamente dai cittadini: il resto viene scelto da élite imprenditoriali, che tendono ad essere a favore di Pechino. Di conseguenza è molto difficile attuare cambiamenti pro-democratici, opponendosi alla volontà del PCC. Proprio per questo, secondo Lee Cheuk-yan, ex membro del Consiglio Legislativo di Hong Kong, il modo più efficace per resistere alle interferenze di Pechino sono i movimenti di protesta.

Nel corso degli anni diverse proteste sono state organizzate dai cittadini di Hong Kong, ma le loro principali richieste non sono cambiate: protezione delle libertà civili, suffragio universale e libertà dalle interferenze del PCC. In particolare, nel 2014 la ‘rivoluzione degli ombrelli’ è nata in risposta al tentativo del governo centrale cinese di selezionare preventivamente i candidati politici dell’ex colonia britannica. Lo scorso anno gli attivisti hanno contestato il disegno di legge sull’estradizione verso la Cina, considerato una minaccia all’indipendenza giudiziaria di Hong Kong. Pechino, tuttavia, non si è lasciata intimorire: in occasione delle Due Sessioni del 2020 ha approvato, con un solo voto contrario, la legge sulla sicurezza nazionale ad Hong Kong scatenando un’ulteriore ondata di proteste. Questa legge, il cui testo non è ancora stato chiaramente definito, prevede che il Governo locale adotti norme ‘che proibiscano atti di tradimento, secessione, sedizione o sovversione contro il Governo centrale’. I cittadini di Hong Kong temono che quest’ulteriore mossa di Pechino possa essere utilizzata per reprimere definitivamente le proteste pro-democratiche, che sarebbero considerate atti di sedizione e non più semplici dimostrazioni. La legge mira a istituire agenzie per controllare la difesa della sicurezza nazionale cinese ad Hong Kong, punendo ogni atto di tradimento. L’obbiettivo è chiaro: porre fine al dissenso contro il regime.

Con questo nuovo disegno di legge la Cina ha catturato ancora l’attenzione della comunità internazionale, com’era già successo a giugno del 1989 con la strage di Piazza Tiananmen. Il parallelo è quantomai appropriato: i cittadini di Hong Kong hanno infatti da sempre attribuito un gran valore alle proteste degli studenti di Pechino. Nonostante quest’anno le manifestazioni per la commemorazione della strage del 1989 fossero state proibite (con il pretesto di tenere sotto controllo la diffusione del Coronavirus), gli attivisti pro-democratici hanno comunque partecipato alla veglia dedicata alle vittime. Ma Jian, un famoso scrittore cinese (autore di ‘Pechino in coma’), ha suggerito che il PCC potrebbe replicare quanto è successo in Piazza Tiananmen contro i cittadini di Hong Kong. ‘Che succeda drammaticamente con carri armati corazzati, o più segretamente, nel corso degli anni, come in Tibet e in Xinjiang, il carattere unico di Hong Kong verrà aggredito mentre il PCC tenta di trascinarlo nella sua rete’, scrive Ma Jian in un articolo sul Guardian. Parlando di repressione del dissenso contro il regime infatti, è difficile non trovare similitudini con la strage di Tiananmen. Il timore è proprio che il PCC preferisca macchiarsi dell’uso della violenza, piuttosto che governare un paese politicamente instabile. Molti critici tuttavia contestano questa visione, sostenendo che il Governo cinese limiterà le sue azioni, salvaguardando i rapporti con la comunità internazionale che ha già in gran parte espresso il proprio sostegno per gli attivisti pro-democratici di Hong Kong. Ma fino a che punto il PCC permetterà all’opinione dei maggiori leader del globo di limitare le sue azioni? Su altre questioni di grande importanza non sembra essersi fatto scrupoli, come dimostra per esempio la violazione dei diritti della comunità islamica degli Uiguri dello Xinjiang, che vengono tuttora trattenuti in campi di rieducazione dal regime. Pechino infatti sembra avere già considerato la possibilità di intervenire con forze paramilitari (la Polizia Armata del Popolo) per fermare i manifestanti, come hanno dimostrato dei video provocatori caricati sul web dal regime. Bisogna anche tenere in considerazione il fatto che la Legge Fondamentale di Hong Kong permette al governo locale di garantire l’accesso alle truppe di Pechino per ‘mantenere l’ordine pubblico’.

In questo momento buio della storia dell’Asia i protestanti potrebbero essere scoraggiati dall’imponenza e dal rigore del loro avversario, che persegue i propri obbiettivi ignorando però l’impatto che potrebbe avere sui diritti dei civili. Tuttavia ad Hong Kong vive ancora un profondo sentimento di speranza, che continua a spingere i cittadini a far sentire le proprie voci e a lottare per il loro futuro. Perdere questa battaglia significherebbe vedersi strappare via libertà fondamentali, a cui nessuno al mondo dovrebbe mai essere pronto a rinunciare.

Liberate la democrazia di Hong Kong, liberate Hong Kong…’.

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