Nell’estate 2024 la ‘Gen Z’ keniana non è stata l’unica a scendere in piazza. L’eco delle proteste è giunta anche da un altro quadrante del mondo, e più precisamente dall’ottavo Stato più popoloso del pianeta: il Bangladesh.
A metà luglio un’ondata di manifestazioni sorte dall’ambiente universitario ha attraversato quello che era stato da poco confermato come terzo Paese più pacifico dell’Asia Meridionale. La risposta muscolare del governo di Dacca ha solo alimentato la violenza: secondo Amnesty International, in meno di dieci giorni i morti hanno superato le duecento unità, mentre il numero dei feriti era nell’ordine delle migliaia.
L’acme è arrivata domenica 4 agosto, quando oltre novanta persone hanno perso la vita negli scontri. Il giorno seguente, il Generale Waker-Uz-Zaman ha annunciato le dimissioni della Prima Ministra Sheikh Hasina, fuggita in India, e la formazione di un governo di transizione.
A quasi due mesi dallo scoppio delle proteste, riavvolgiamo quindi il nastro per scoprire le cause di uno dei periodi più sanguinosi della storia recente del Bangladesh.
Il lascito della guerra
Il casus belli, ovvero il controverso sistema delle quote con cui vengono assegnate ambite posizioni lavorative nella pubblica amministrazione, è una questione annosa.
Come spiega un articolo su The Diplomat, si tratta di un retaggio della Guerra di Liberazione, l’atto costitutivo dell’odierno Bangladesh. Nel 1947, infatti, con la fine del colonialismo inglese la regione del Bengala Orientale rientrò nel neonato Stato bicefalo del Pakistan, diviso a metà dalla propaggine settentrionale dell’India. Solo dopo un sanguinoso conflitto Dacca si rese indipendente da Islamabad nel 1971.
Nella sua versione più recente, il sistema delle quote prevedeva che il 30% dei posti di lavoro nell’amministrazione statale venisse assegnato a figli e nipoti dei "combattenti per la libertà" che lottarono per l’indipendenza del Bangladesh.
Poiché il pubblico impiego è sinonimo di un più elevato status sociale, sicurezza economica e future pensioni, non stupisce che una larga parte della società civile, con gli studenti universitari in prima linea, domandasse un’assegnazione dei posti più meritocratica. Già nel 2018 l’intensità delle proteste aveva spinto il governo di Dacca ad abolire il sistema delle quote.
Tuttavia, domenica 14 luglio, la Corte Suprema ha dichiarato questa abolizione come “incostituzionale, illegale e inefficace”, invocando la reintroduzione del sistema. Com’era prevedibile, gli studenti non erano dello stesso parere, e dall’Università di Dacca ha preso vita un movimento di protesta di portata nazionale.
Ovviamente, la Corte non è completamente isolata, e c’era chi era pronto a liquidare come un mito il mantra secondo cui le quote sopprimono il merito – visto che oltre il 66% dei posti sarebbe stato assegnato meritocraticamente. Inoltre, seppur minoritaria, una parte delle quote era riservata anche a gruppi svantaggiati come donne, minoranze etniche e persone affette da disabilità – ragion per cui gli studenti non chiedevano l’abolizione delle quote tout court.
Se la reintroduzione del sistema ha fornito la miccia, però, ad accendere la scintilla è stata la retorica di Sheik Hasina.
La punta dell’iceberg
Come ha raccontato la giornalista Junko Terao ai microfoni di Internazionale, il 14 luglio la Prima ministra ha equiparato gli studenti in protesta ai “razakars”, un termine dispregiativo riservato ai collaborazionisti dell’esercito pakistano nella Guerra di Liberazione. Termine che i manifestanti hanno presto adottato ironicamente nei propri slogan per denunciare come chi lotta per i propri diritti venga etichettato come traditore dello Stato, chiamando al contempo “autocrate” la premier bangladese.
Per tutta risposta, il partito di Hasina, l’Awami League (AL) – lo stesso che guidò il Paese all’indipendenza nel 1971 –, ha ignorato la sfumatura ironica, infiammando ulteriormente la retorica intorno alle proteste. A quel punto, l’intervento degli attivisti del partito e delle forze dell’ordine ha provocato la degenerazione violenta delle manifestazioni. Il governo ha interrotto le comunicazioni online, schierato l’esercito e imposto un rigido coprifuoco con l’ordine agli agenti di sparare a vista. La Prima ministra ha addossato la colpa delle misure emergenziali ai suoi avversari politici come il Bangladesh Nationalist Party (BNP), che dal canto proprio si è schierato dalla parte degli studenti.
“La continua escalation della tensione, mobilizzazione e violenza tradisce il limitato obiettivo dichiarato del movimento di protesta”, ha scritto l’esperto Geoffrey Macdonald per lo United States Institute of Peace. “La questione delle quote è la punta dell’iceberg di un discontento economico e politico che giace sotto la superficie”.
A riprova di ciò, il parziale dietrofront della Corte Suprema, che il 21 luglio ha ridotto al 5% le quote destinate ai discendenti dei veterani, non è bastato a riportare la calma. Al contrario, Al Jazeera riporta una lista di richieste avanzate dagli studenti che esordiva con una presa di responsabilità da parte della premier per gli omicidi di massa subiti dai manifestanti.
Ormai in gioco vi era la legittimità del governo di Hasina. E ad alzare la posta sembra aver contribuito la postura inflessibile della classe dirigente, che ha visto nelle proteste una minaccia esistenziale.
A history of violence
Già al potere dal 1996 al 2001, Sheik Hasina tornò a rivestire la carica di Prima Ministra nel 2009 con la travolgente vittoria elettorale dell’AL sul BNP. Da allora, la figlia di uno dei padri fondatori del Bangladesh, Sheikh Mujibur Rahman, ha di fatto trasformato il Paese in un regime monopartitico.
“Mai nella storia di questa regione un politico è rimasto al potere tanto a lungo sebbene privo di mandato popolare”, ha sentenziato Asif Nazrul, Professore di diritto dell’Università di Dacca, in seguito alle elezioni farsa di gennaio 2024. Il quarto mandato consecutivo di Hasina è infatti arrivato con una maggioranza bulgara caratterizzata da seggi semideserti – nonostante l’inverosimile 40% di partecipazione riportato dalla Commissione Elettorale – e dalla repressione contro l’opposizione, che ha boicottato il voto in protesta.
Seppur a fianco di un’impressionante crescita economica, il quindicennio inaugurato nel 2009 ha visto uno sfrenato accumulo della ricchezza da parte di oligarchi vicini o interni all’AL, l’assenza di libertà di stampa e informazione trasparente, nonché una generale intolleranza verso ogni forma di dissenso.
Secondo un approfondimento del New York Times, strumento dell’inesorabile declino della democrazia bangladese è un sistema kafkiano di arresti e casi giudiziari volti a impantanare gli oppositori. Un anno fa, circa metà dei cinque milioni di membri del BNP erano stati chiamati a processo da giudici leali ad Hasina, alcuni con svariate centinaia di accuse pretestuose a proprio carico. Una tattica ripresa anche in occasione delle recenti proteste, che a fine luglio contavano oltre 10000 arresti.
Accanto a ciò, Human Rights Watch denuncia oltre 600 sparizioni forzate dal 2009, oltre a un ampio spettro di violenze e intimidazioni verso varie figure ‘scomode’, da giornalisti a difensori di diritti umani. Dal canto proprio, la Prima Ministra rammentava le uccisioni e carcerazioni di cui si era macchiato lo stesso BNP, avvertendo che questo si sarebbe presto vendicato se fosse tornato al potere.
In effetti, la parabola del governo di Hasina non è un unicum nazionale, ma s’inserisce nel solco di una lunga tradizione. Come riporta la Global State of Democracy Initiative, potere autoritario e dittature militari hanno dominato il ventennio successivo al 1971, per essere poi sostituiti a partire dal 1991 dal violento tiro alla fune tra due partiti dinastici, AL e BNP.
Quello che Hasina ha raccolto nel 2009 era un Paese marcato da corruzione, colpi di stato e tensioni irriconciliabili. In quindici anni, la situazione non ha fatto che incancrenirsi. Da qui l’esasperazione degli studenti in piazza e la repressione intransigente delle autorità, che hanno trasformato il fuoco della protesta in un incendio.
Quale futuro?
A oggi, il Paese si è affidato a un governo a interim sotto la guida dell’economista premio Nobel Muhammad Yunus. Sventata la minaccia di una guerra civile o di un golpe militare, il gabinetto provvisorio affronta l’arduo compito di stabilizzare e riconciliare il Bangladesh in vista di nuove elezioni.
Una triplice sfida ostacola la strada verso una pacifica transizione democratica: distanziarsi dall’AL, porre un freno alle violazioni dei diritti umani e all’erosione della democrazia e rimettere in piedi l’economia nazionale. Quest’ultima fatica fornisce un calibro eloquente dell’impresa titanica che attende Yunus, chiamato a tamponare un’inflazione galoppante e problemi strutturali aggravati dalle settimane di scontri e dalle disastrose inondazioni della seconda metà di agosto.
Ciononostante, il Premio Nobel non si è tirato indietro. “Il Bangladesh ha creato un nuovo giorno di vittoria”, ha detto subito dopo la sua nomina. “Il Bangladesh ha ottenuto una seconda indipendenza”.
Eppure, come afferma la scrittrice bangladese Tahmima Anam sul New York Times, nessun progresso è plausibile se i suoi connazionali cedono all’amnesia storica che ha accompagnato ogni cambio di leadership a partire dall’indipendenza. Cancellare o riscrivere il passato è stata strategia tanto dell’AL quanto del BNP, ma non è una ricetta affidabile per il futuro democratico del Paese.
Mondo Internazionale APS - Riproduzione Riservata ® 2024
Condividi il post
L'Autore
Matteo Gabutti
IT
Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.
EN
Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.
Tag
Bangladesh Proteste studenti Democrazia police brutality Violenza Sheikh Hasina Mohammad Yunus autoritarismo Dimissioni Diritti umani Elezioni