La morte digitale al tempo dei social: strumentale e non più eterna

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  Redazione
  08 settembre 2020
  8 minuti, 14 secondi

A cura di Elena Pavan

Sicuramente i nostri nonni non avrebbero mai immaginato che oggi sarebbe esistito il tema della morte digitale, e forse anche la generazione del XXI secolo non si rende effettivamente conto dell’impatto importante che questo mondo sovradimensionale, immateriale e senza confini, né frontiere, ha sul concetto della scomparsa.

In poche parole con la morte fisiologica del nostro corpo la vita non finisce più come poteva avvenire un tempo. Il post vita moderno deve fare i conti con dati eterni, magari bloccati semplicemente da una password.

Anche dopo la morte, la vita e tutti i momenti legati ad essa rimangono sempre reperibili, a tempo indeterminato.

Il dolore, la paura, il senso di vuoto, le ansie si condividono sui social, ad esempio condividendo un lutto, o con un selfie scattato ad un funerale, sebbene sia un comportamento macabro ed estremamente superficiale. Il modo di commemorare i defunti è, in molti contesti, mutato.

Ma se ci guardiamo alle spalle e osserviamo con una chiave antropologica le usanze di culture diverse dalla nostra, o semplicemente del nostro passato, ci accorgiamo che scattare foto con i defunti non è un fenomeno così “moderno”. Infatti, in epoca vittoriana, le foto post mortem erano un sistema molto diffuso per ricordare in modo “più vicino” la persona defunta, il che rende questa consuetudine ricca di fascino e macabro mistero.

Le foto dell'epoca di cui sto parlando raccolgono volti cupi, senza sorrisi; le espressioni sono spesso pensierose, compassate. L’impulso alla diffusione di questa abitudine è stato dato dal desiderio dei genitori di avere una fotografia “ricordo” dei propri piccoli: infatti in molte immagini quest’ultimi venivano immortalati insieme a familiari, fratelli, genitori, o addirittura tutta la famiglia riunita.

Tornando ad oggi, la nostalgia dei cari defunti, giustificata dal semplice bisogno di sentirli ancora vicini, ci porta ad assumere delle attitudini similari a quelle che vi ho citato. E questa smania, sebbene non manifestata direttamente come in passato, ci pervade inevitabilmente, per il basilare fatto che i nostri dati, le nostre foto, le nostre attività online, ci sopravvivono senza nostra volontà.

Davide Sisto, filosofo esperto di tanatologia

“La morte si fa social”

Davide Sisto è un giovane filosofo esperto di tanatologia, disciplina branca della medicina legale che si occupa della morte fisica e delle sue conseguenze sul corpo umano, il quale tratta del rapporto tra scomparsa di una persona e i suoi social in modo profondo e innovativo.

La morte non esiste più. Allo stesso tempo, però, viviamo costantemente circondati dai morti”.

Relegata lontano dalla nostra quotidianità, medicalizzata, espunta dalle nostre vite, l’esperienza del morire vive oggi una situazione paradossale quando le immagini e le parole dei cari esistiti tornano ed irrompono all’improvviso dagli schermi dei nostri telefoni.

Moriamo, ma continuiamo a esistere nella presenza ineliminabile della nostra passata vita online”.

L’onnipresenza della morte nel web mette dinnanzi ai nostri occhi quella spettacolarizzazione del morire che è conseguenza prima della sua rimozione sociale e culturale. Stiamo assistendo ad un vero e proprio fenomeno internazionale di Digital Death correlativo allo sviluppo continuo e sempre più sofisticato di Internet e delle intelligenze artificiali. Difatti, la cultura digitale incrementa i processi comunicativi della registrazione e della ripetizione, rendendo i morti accessibili a chiunque abbia a disposizione una connessione, in ogni istante della giornata.

Ci sono stati diversi tentativi di evoluzione: un esempio sono i griefbot (da grief, lutto e bot, programma). Visti per la prima volta nella puntata della serie di fantascienza Black Mirror Be Right Back, in cui una donna continua a dialogare con il marito defunto e ricostruito attraverso l’intelligenza artificiale, i griefbot sono diventati una realtà sperimentale e personalizzata.

La filosofia di Sisto si può riassumere con una semplice domanda che ognuno di noi, soggetto operante in questi due mondi interconnessi, dovrebbe porsi: “cosa voglio lasciare agli altri dopo la mia morte?”, in modo tale che questo quesito funga da motore propulsore per una riflessione sull’uso responsabile del web.

Giovanni Ziccardi, professore di informatica giuridica all’Università Statale di Milano

“Il libro digitale dei morti”

Di seguito a quanto affrontato, che ne è del diritto all’oblio e che ne sarà dei dati online? A offrire risposte è stato il professore Giovanni Ziccardi, argomentando su cosa la legge dica a riguardo.

Ci sono tre aspetti che entrano in gioco: il diritto, la volontà della persona quando è in vita e le modalità con cui le piattaforme, “dentro” i social, affrontano il problema. Il diritto è molto sviluppato negli ordinamenti statunitensi, dove oltre trenta Stati hanno già una legge che disciplina le eredità digitali, e molto arretrato in Europa, dove non ci sono ancora iniziative ad hoc.

Le grandi aziende tecnologiche mirano ad anticipare la volontà dell’utente medio, dando la possibilità ai loro clienti di nominare, tramite “finti testamenti” (che, in realtà, sono semplici atti privati), degli eredi digitali, oppure cristallizzando un profilo facendolo diventare commemorativo e immodificabile (in poche parole: una lapide, o tempietto digitale) o, ancora, conservando tutti i tweet o i messaggi scambiati in una sorta di memoria digitale postuma e accessibile a chi dimostrerà di averne diritto.

Non è facile, anche nell’ambiente digitale, conciliare le esigenze di tutti gli eredi, e si generano allora ulteriori quesiti che il diritto non è sempre in grado di risolvere.

Facebook, ad esempio, sin dal 2011 ha previsto esplicitamente le ipotesi del “profilo commemorativo” e del “contatto erede” al fine di consentire soltanto agli amici più stretti del defunto, o a una persona di assoluta fiducia, la possibilità di continuare a gestire il suo profilo.Twitter, in tal senso, ha fatto la scelta di permettere la cancellazione delle informazioni di un utente dopo sei mesi d’inattività.

Google, dal canto suo, consente a ciascun utente di impostare volontariamente il proprio account come “inattivo” – una sorta di “morte digitale apparente” – per un periodo massimo di diciotto mesi.

Le soluzioni tecnologiche adottate dai grandi operatori per gestire questi aspetti della morte e dell’eredità digitale sono spesso molto differenti tra loro e, soprattutto, sono in corso di costante aggiornamento.

Quali sono i paesi al mondo con le legislazioni più avanzate in materia?

Gli Stati Uniti d’America sono stati i primi a cercare di disciplinare con legge le questioni cui ho fatto cenno poco sopra e a interessarsi a riforme normative statali che regolamentassero questo delicato aspetto. A oggi, come già detto, sono oltre trenta gli Stati che hanno una norma specifica per la regolamentazione dell’eredità digitale o che hanno in cantiere, e stanno discutendo, un progetto di legge.

Queste discipline statunitensi si assomigliano tutte: pongono al centro il problema di come si possa accedere agli account dei defunti, e sostengono la necessità di regole dal momento che l’ambiente online prevedrebbe vincoli molto più restrittivi rispetto alla gestione dei beni tradizionali.

Negli Stati Uniti d’America, in particolare, i grandi provider di servizi online (che hanno, come è noto, il monopolio mondiale sia nei servizi di e-mail che di social network e cloud) si appellano, in questi casi, alla normativa federale sulla privacy. Essa è ben precedente alla diffusione dei beni digitali (e anche dei social network), ma garantisce un alto livello di protezione al titolare dell’account o del servizio ed è, quindi, in grado di mettere in difficoltà gli eredi che cercano di ottenere informazioni digitali relative al defunto.

Questa normativa sulla privacy, semplificando molto, sostiene che i provider non possano rilasciare i dati a meno che il titolare dell’account non abbia dato esplicitamente il permesso o, in caso negativo, a meno che non intervenga l’ordine di un tribunale.

La legge statunitense prevede così due livelli di tutela che, in un certo senso, “blindano” gli account, i profili e gli spazi su cloud di persone defunte: una prima disciplina rivolta ai provider, che impone loro come regola commerciale di non rivelare a terzi i dati dei clienti, e una seconda disciplina più focalizzata sulla privacy che mette al centro il diritto post mortem dell’utente di non vedere diffusi i dati che lo riguardano.

Vi è, in definitiva, quasi ovunque un tentativo di bilanciare le esigenze degli eredi di accedere agli account con le eventuali esigenze di privacy, o le manifestazioni di volontà contraria, del defunto.

Al contempo, si cerca di facilitare quella che è una “prima raccolta di informazioni” per fini organizzativi della successione, ma si esige un controllo accurato nel momento di diffusione dei contenuti.

Di sicuro non sarà una battaglia da combattere contro la tecnologia ma con la tecnologia, anche se oggi il trattamento dei dati avviene più per profilare l’utente, e ricavare profitto dalle sue azioni, che per proteggerlo. Una nuova attenzione all’oblio nell’era digitale richiederà probabilmente anche un cambio radicale dell’impostazione economica dell'attuale società dell'informazione, volta solo all'ottenimento del massimo profitto.

Un procedimento, quest’ultimo, a dir poco complesso.

Di questa tematica, in Italia, si occupa da alcuni anni anche il Consiglio Nazionale del Notariato che ha avviato dei progetti sia con Microsoft che con Google per la realizzazione di un “protocollo” che consenta agli eredi digitali di “interagire con gli operatori della rete”. A riguardo è stato stilato un decalogo proprio per consentire di districarsi in questa articolata materia, vista anche la lacuna legislativa nel nostro Paese.

Innanzitutto, si consiglia di affidare a qualcuno le credenziali di accesso in modo che, in seguito al decesso del titolare di quell'account e all’apertura della successione, si possano gestire profili social (se la persona ne ha); mentre per quanto riguarda i dati di accesso dei conti online, essendo parte dei conti bancari, sarà necessario stilare un testamento che dovrà essere letto dal notaio.

Fonti utilizzate per il presente articolo:

Davide Sisto, La morte si fa social, Bollati Boringhieri editore, 2018

Giovanni Ziccardi, Il libro digitale dei morti, Utet, 2017

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