La politica americana in Medio Oriente è davvero obsoleta?

  Articoli (Articles)
  Redazione
  16 febbraio 2024
  12 minuti, 46 secondi

A cura del Dott. Pierpaolo Piras, studioso di Geopolitica e componente del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS

Un nuovo approccio agli Stati del Golfo ha bisogno di una base politica affidabile e proposte programmabili aggiornate. Nel suo discorso sullo stato dell'Unione del 1980, che arrivò sulla scia degli shock petroliferi – e di conseguenza finanziari - del 1973 e del 1979, il presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, descrisse in termini gravi i rischi correnti di perdere l'accesso al petrolio mediorientale.

"Un tentativo da parte di qualsiasi forza esterna di ottenere il controllo della regione del Golfo Persico sarà considerato come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti d'America", così disse a quei tempi. E aggiunse: "Un tale assalto sarà respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare". Quell'impegno divenne noto a tutti i politici e agli analisti di geopolitica col celebre termine della “Dottrina Carter”, che da allora è rimasta una costante caratteristica e distintiva della politica mediorientale degli USA. Al momento della dichiarazione di Carter, gli Stati Uniti facevano molto affidamento sulle importazioni di petrolio per alimentare la loro economia: ben il 29% di quel petrolio proveniva dal Golfo Persico.

Due decenni dopo, poco era cambiato: infatti nel 2001, gli Stati Uniti importavano ancora il 29% del loro petrolio dal Golfo. Ma non è più il 1980 o il 2001. Oggi, gli Stati Uniti producono tanto petrolio quanto ne ricavano dall'estero, e solo il 13% proviene dai paesi del Golfo.

L’odierno dato geopolitico più rilevante e significativo è quello che attualmente gli Stati Uniti importano più petrolio dal Messico che dall'Arabia Saudita.

Eppure, anche se la logica guida per la cosiddetta dottrina Carter è diventata oggi in parte obsoleta, continua tuttavia a plasmare l'approccio degli Stati Uniti al Golfo: emblematico è stato il fallimento della politica statunitense per adeguarsi ai più ampi cambiamenti degli interessi statunitensi nella regione avvenuti dal 1980 ad oggi.

Il presidente attuale, Joe Biden, dovrebbe riconoscere nuove realtà e ripristinare le relazioni degli Stati Uniti nel Golfo in modo da promuovere i valori americani, tenendo però Washington al di fuori da inutili coinvolgimenti stranieri e dando priorità sia ai processi di pace che alla stabilità politica regionale. Ci sono una miriade di ragioni per dover stabilire forti relazioni tra gli Stati Uniti e i paesi del “Consiglio di cooperazione del Golfo” (GCC): Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Le decisioni del Bahrein e degli Emirati Arabi Uniti di stabilire legami formali con Israele sono un chiaro segno dell'influenza positiva che questi paesi possono esercitare.

Come si sta vedendo nel conflitto di Gaza, Kuwait e Oman svolgono un ruolo cruciale nella mediazione dei conflitti regionali.

Le partnership stabilite con gli apparati dell’antiterrorismo degli Stati Uniti con i paesi del GCC, sebbene spesso imperfette, sono ancora fondamentali, poiché questi governi hanno spesso informazioni privilegiate sulle reti estremiste del radicalismo islamico che l'intelligence statunitense non può raccogliere da sola.

Gli Stati Uniti stanno ampliando i loro legami interpersonali con i protagonisti della regione: oggi, decine di migliaia di studenti del Golfo studiano nei college e nelle università statunitensi. Di conseguenza, gli Stati Uniti devono chiarire agli alleati del Golfo che il loro obiettivo non è quello di allontanarsi dalla regione, ma piuttosto quello di creare un legame più sostanziale e stabile tra gli Stati Uniti e il CCG.

Le priorità politiche del GCC

Sotto il profilo dell’assetto politico locale è giunto il momento più opportuno per ammettere che c'è un difetto centrale nell'attuale approccio degli Stati Uniti al Golfo: le due principali priorità del GCC per questa relazione – sostenere l'assistenza militare degli Stati Uniti per combattere le guerre per procura regionali e mantenere il silenzio degli Stati Uniti sulla repressione politica interna – distruggeranno, nel lungo periodo, gli stessi paesi del GCC.

L'obiettivo degli Stati Uniti deve essere quello di sostituire queste fragili fondamenta istituzionali con un nuovo sistema che supporti un Golfo pacifico caratterizzato da economie nazionali stabili e diversificate e governi reattivi. Ovvero il tipo di futuro che leader come il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman sostengono fermamente che il Golfo stia cercando.

Le partnership USA-Golfo costruite su legami economici, diplomatici e di governance, piuttosto che su partnership di sicurezza sfigurate da certi ben noti episodi, serviranno meglio e di più gli interessi degli Stati Uniti e dell’intero Medio Oriente.

Evitare guerre per procura è una necessità

Il primo passo è che gli Stati Uniti si disimpegnino dalle guerre per procura del GCC con l'Iran.

Il governo iraniano è un avversario degli Stati Uniti, ma la serie di conflitti caldi e freddi nella regione – in Iraq, Libano, Siria e Yemen, solo per citare i principali – è semplicemente servita finora a rafforzare l'influenza dell'Iran e creare livelli elevati di sofferenza umana a carico delle popolazioni civili.

Questo è il motivo per il quale un ritiro dall'intervento degli Stati Uniti da luoghi come la Siria e lo Yemen causerà, senza dubbio, costernazione immediata nel Golfo.

Ormai, tuttavia, gli enormi costi dovuti alla falsa convinzione che gli Stati Uniti possano indirettamente guidare i risultati in Siria e Yemen sono chiarissimi anche agli analisti più scettici. In entrambi i teatri, il tiepido coinvolgimento militare degli Stati Uniti non è mai stato abbastanza sostanziale da far pendere l'ago della bilancia ed ha facilitato indirettamente ma concretamente l’estensione dei conflitti armati locali.

Washington mostra eccessiva fiducia nella sua capacità di raggiungere obiettivi politici attraverso interventi militari. Mentre invece, l'effetto più significativo è stato quello di alimentare guerre perpetue che incoraggiano i gruppi estremisti e permettono di conseguenza al sentimento anti-americano e antioccidentale di crescere.

Forse è giunto il momento di riconoscere che c'è qualche difetto centrale nell'attuale approccio degli Stati Uniti nel teatro conflittuale del Golfo.

Sebbene gli USA dovrebbero mantenere le loro partnership di sicurezza con le nazioni del Golfo, l'impronta degli Stati Uniti dovrebbe essere inferiore.

Prima della guerra del Golfo, gli Stati Uniti erano in grado di proteggere i loro interessi nella regione senza massicce basi militari in Bahrain, Kuwait, Qatar e Arabia Saudita e senza miliardi di vendite annuali di armi a queste stesse nazioni.

La sicurezza militare

Sembra che la politica estera a Washington agisca come se la sua massiccia presenza militare nel Golfo sia ora obbligatoria per proteggere gli interessi degli Stati Uniti, anche se non lo era prima della rivisitazione dello stato di sicurezza successivo al 9/11.

Le basi statunitensi sono costose, e creano pressioni sugli Stati Uniti affinché ignorino le gravi violazioni dei diritti umani per timore che le critiche mettano a rischio la presenza delle truppe; e si distinguono come obiettivi militari per la propaganda ostile dell'Iran, al Qaeda e lo Stato islamico (o ISIS).

Riconsiderare i costi e i benefici della base della Quinta Flotta in Bahrain potrebbe essere un buon inizio, poiché l'enorme impronta degli Stati Uniti sta diventando più problematica di quanto servirebbe effettivamente.

Gli Stati Uniti dovrebbero continuare a vendere ma con oculatezza attrezzature militari ai loro partner, privilegiando gli armamenti a carattere più marcatamente difensivo.

Mentre si ritira su sistemi con capacità più offensive, gli USA dovrebbero ancora essere disposti a fornire armi difensive più avanzate, come la tecnologia missilistica “Terminal High-Altitude Area Defense” (THAAD), le quali si adattano grandemente alle minacce reali verso la sicurezza generale nel Golfo.

Se Washington compie questi atti, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti saranno legittimati a lamentarsi inevitabilmente che gli Stati Uniti li stanno abbandonando e nel contempo rafforzano indirettamente l'Iran.

L’alternativa diplomatica

Il compito dell'amministrazione Biden sarà quello di convincerli che esiste la valida alternativa a una competizione militare senza fine con Teheran: ovvero un sistema, pur nel doveroso riserbo diplomatico, di dialogo sulla sicurezza regionale che possa includere tutti i protagonisti del golfo sostituendo così la corsa agli armamenti e/o ancora di più le guerre per procura.

Ad un’analisi superficiale può sembrare una fantasia utopica, ma secondo qualche dato storico è tutt'altro: i germogli verdi e promettenti di questa possibilità di dialogo proficuo si sono già dimostrati per anni, e l'abile leadership degli Stati Uniti, applicando la tecnica del bastone e carota, potrebbe iniziare a questo punto a creare una struttura operativa intesa verso la distensione reciproca.

Sebbene gli Stati Uniti non dovrebbero dare agli Emirati o ai sauditi il potere di veto su un accordo nucleare bilaterale con l'Iran, un dialogo regionale, anche di livello medio, legherebbe i paesi del Golfo più vicini agli Stati Uniti sulla politica verso l’Iran e probabilmente darebbe al GCC un maggiore contributo visto anche come un investimento anche in termini geopolitici su qualsiasi accordo futuro che Washington vorrà approvare.

Test di De-Escalation

L'amministrazione Biden è nella posizione migliore per verificare la preparazione della regione mediorientale a questo tipo di de-escalation nello Yemen del nord.

I pezzi che mancavano – una pressione diplomatica significativa e un interlocutore credibile – stanno ora spostando la propria posizione mentre l'amministrazione Biden sospende il sostegno degli Stati Uniti alle operazioni offensive e nomina un nuovo inviato speciale per sostenere il processo di pace presso le Nazioni Unite.

Gli Stati Uniti sono l'unica nazione che può spostare in avanti lo stato delle cose: se Washington riuscirà a trovare un percorso da effettuare verso la pace nello Yemen, dove un governo yemenita post-Hadi inclusivo potesse coesistere con i leader Houthi, mentre il paese si ricostruisce con gli aiuti internazionali, potrebbe essere la prova del concetto operativo capace di concretizzare un dialogo più ampio e virtuoso.

La de-escalation dovrebbe/potrebbe essere estremamente attraente anche per i paesi del Golfo, partner degli Stati Uniti. Il calo odierno delle entrate petrolifere significa che queste nazioni dovranno presto fare scelte difficili ma obbligate tra investire in riforme sociali ed economiche e combattere guerre in paesi stranieri.

Dati questi conflitti persistenti e il controllo statale delle economie locali, attrarre investimenti stranieri significativi nella regione oggi appare in gran parte una mera fantasia.

Per gli Stati Uniti, la diminuzione delle tensioni tra il Golfo e l'Iran potrebbe portare un altro vantaggio: meno incentivi per gli interessi del Golfo a diffondere l'Islam radicale wahhabita in tutto il mondo musulmano.

Questo tipo ultraconservatore e intollerante dell'Islam costituisce spesso l’elemento fondante dell'ideologia estremista e terroristica, mentre la faida Golfo-Iran alimenta la sua esportazione (insieme alla sua controparte sciita rivoluzionaria) in Occidente.

Biden ha la possibilità di ripristinare le partnership positive di Washington con le nazioni del Golfo.

Gli Stati Uniti devono condurre un accordo meno accondiscendente con gli Stati del Golfo sulle questioni riguardanti il rispetto dei diritti umani.

Sulla scia degli attacchi di Donald Trump alla democrazia americana sarà ancora più importante per Biden associare i suoi discorsi sullo stato di diritto e sui diritti civili con azioni rese manifeste anche in patria e all'estero.

Gli Stati Uniti hanno un lavoro difficile da realizzare per la ricostruzione del proprio marchio a livello globale, ma porre fine all'approccio di Washington secondo il detto "non c'è male, non vedo il male" nel Golfo aiuterà per la sua vacua ipocrisia che ne sta alla sua base concettuale.

Tuttavia, la conversazione degli Stati Uniti con il Golfo sui diritti umani dovrebbe essere realistica in quanto è impensabile che questi paesi possano diventare democrazie moderne in tempi brevi.

Se il Golfo vuole davvero attrarre investimenti internazionali, tuttavia, deve affrontare la brutale repressione oggi applicata ed in corso sul dissenso politico e l’assenza dello stato di diritto.

Un serio investimento privato esterno sul Golfo sarà ostacolato fintanto che queste nazioni continueranno a torturare i prigionieri politici, mantengono un draconiano "sistema di fanatici guardiani del regime" che limita la capacità delle donne di spostarsi e viaggiare mentre a dir poco molestano costantemente i dissidenti politici residenti all'estero.

Detta “apertis verbis”, i leader del Golfo dovrebbero accettare e fare propria l'espansione dei diritti politici come una questione proficua per lo sviluppo ed esistenziale sotto il profilo istituzionale.

Gli Stati Uniti devono aiutare questi regimi a capire che il loro patto sociale di lunga data secondo lo slogan "nessuna tassazione, ma nessuna rappresentanza" non può durare a lungo.

Le famiglie reali del Golfo dovranno prendere atto che oramai la crescita della propria popolazione supera non di poco le entrate petrolifere, e pertanto tra non molto il loro stato non sarà più in grado di permettersi quel profitto.

Una volta che i sussidi finanziari si riducono ma la repressione politica rimane, si formerà una destabilizzante sequela di disordini sociali.

Fortunatamente ci sono modelli di riforme limitate nel Golfo che possono aiutare i ritardatari. I kuwaitiani, ad esempio, eleggono già oggi un parlamento il quale mantiene istituzionalmente una certa indipendenza dalla corona.

Sebbene sia ancora lontano da una moderna democrazia partecipativa, fornisce però alcune linee guida alle quali i regimi più repressivi possono ispirarsi.

Niente guerra fredda ridotta

Nel perseguire questo nuovo corso, alcuni politici sostenitori dello status quo sosterranno che se l'amministrazione Biden spingerà per affermare un accordo troppo duro, i leader del Golfo si allontaneranno dagli Stati Uniti e si rivolgeranno alla Cina o alla Russia.

Ad osservare bene questo delicato argomento, esso appare una falsa pista, che gioca sbadatamente su un fraintendimento basato sia sull'insostituibilità dell'allineamento militare con gli Stati Uniti sia sulla tutta presunta volontà di Cina e Russia di sporcarsi le mani nel fitto ginepraio della contraddittoria politica mediorientale.

Infatti, gli analisti ritengono che questa non sarebbe una nuova Guerra fredda: la Russia ha poco da offrire nella regione, e mentre l'utilizzo globale del petrolio continua a diminuire, Mosca inevitabilmente dovrà competere con i paesi del Golfo per l’acquisizione degli acquirenti.

Anche se la Cina continuerà a cercare opportunità economiche nella regione, non sarà disposta a svolgere un vero ruolo di sicurezza in qualsiasi momento nel prossimo futuro. Infatti, attualmente non ne possiede né le basi militari né le forze militari aero-navali operative necessarie per esercitare un ruolo di potenza regionale in quel vasto territorio geografico.

Insomma, la marina militare cinese non potrebbe venire in aiuto di un paese del Golfo qualora si trovasse sotto attacco. Se i bahreiniti, gli emiratini o i sauditi minacciano di rivolgersi ad altre potenze, Washington può permettersi di smascherare palesemente il loro bluff.

Secondo una visione più generale, la politica estera degli Stati Uniti è diventata un po’ anacronistica: sembra uno strumento accordato per suonare una canzone che l'orchestra però non esegue più da tempo.

La politica degli Stati Uniti è, forse, più in sintonia con la situazione reale nel Golfo, dove gli interessi degli Stati Uniti è vero che sono cambiati ma la loro politica estera e di intervento no.

Biden ha la possibilità di ripristinare le partnership di Washington con le nazioni del Golfo.

Sarà difficile, doloroso e susciterà forti proteste. Ma l'ordine geopolitico risultante sarà reciprocamente vantaggioso, progredendo gli interessi degli Stati Uniti mentre muove gli stati del Golfo più vicini a quel tipo di futuro al quale affermano assertivamente di aspirare.

Come si suol dire, gli sforzi più meritevoli quasi mai sono facili da conseguire.

Riproduzione Riservata ®

Condividi il post

L'Autore

Redazione

Tag

Medio Oriente Geopolitica USA Petrolio Commercio Iran